"Fatti Vivo" di Chandra Livia Candiani

Angela Peduto
11 novembre 2017
Libreria Einaudi, Bologna

Fatti Vivo è l'ultima raccolta di poesia di Chandra Livia Candiani (Einaudi, 2017). Si apre con l'immagine della porta. Ed è su questa immagine che desidero soffermarmi per aprire il nostro incontro. La porta è soglia, è limite, linea di confine e cerniera tra mondi. La porta è anche enigma perché, nel suo chiudersi, schiude l’ignoto. Ho voluto vedere in questa immagine così evocativa la rappresentazione dello stesso fare poetico, nella misura in cui questo diventa capace di collegare il visibile e l’invisibile, la parola e l’al-di-là della parola. Il poeta è archeologo dell’anima, scava l’invisibile per trarne parole sensibili, scava il visibile per portarne alla luce l’aura, l’alone affettivo e visionario che rende qualunque cosa, anche la più semplice e quotidiana, una presenza nel mondo.

Entrare, varcare la soglia malgrado la “paura dei passaggi”, accettare il viaggio che si prefigura e dal quale potremmo uscire trasformati: questo l’incipit, la promessa del libro.

Promessa pienamente mantenuta perché, man mano che ci si immerge nella lettura, si ha veramente l’impressione di una traversata che ci porta dal mondo delle cose - gli oggetti, la casa - alla più intima soggettività, dal mondo noto - o che crediamo tale - all’ignota vita che batte dentro di noi e intorno a noi, dalla singolarità di un destino all’infinità di una storia che appartiene a tutti in quanto è materia della nostra umanità.

Siamo lì

buttati in una trama di cambiamento incessante,

siamo un magazzino

di semi, sotto la neve

fitta dei pensieri,

tesi al caldo

porosi alla luce,

siamo.

È nel silenzio e nel sonno della casa che il viaggio poetico inizia. La casa dorme, dorme lo spazio. Lo sguardo lo percorre e mentre lo percorre lo crea. Tornano in mente le grandi descrizioni fenomenologiche dello spazio come spazio vissuto, tutt’altro che omogeneo e vuoto, tutt’altro che oggettivo: lo spazio è sempre abitato dalla soggettività, dai suoi fantasmi e dalle sue memorie, dalle sue ombre, dai suoi slanci, dalle sue paure.

Così la prima sezione ci fa entrare nel mondo della poetessa-narratrice, che in Chandra è una “voce bambina”, e lo sguardo non può che essere tutto interiore, uno sguardo lieve, trasparente, che accarezza e accoglie il mondo materiale portandone alla luce l’essenza intima e spirituale. Per così dire, “l’anima delle cose”. Mondo notturno, dove gli oggetti non sono mai opaca materialità ma accompagnano la vita nei suoi gesti più autentici e semplici, nel suo palpitare emotivo, nei suoi movimenti più familiari e minuti. Gli oggetti sono testimoni dell’esistere, “custodi”, “confidenti”, compagni fidati: maniglia, pavimento, specchio, lenzuolo, tazzina del caffè, tenda, lampada, armadio, tappeto. O la scrivania:

porti i tuoi pesi

di parole e le leggere leggi

degli oggetti.

Ma la scrivania porta in sé anche la memoria “del bosco” e del “taglio”, cioè la memoria della vita e della morte. Perciò essa sa indicare il cammino:

non seguire

il desiderio del bersaglio,

fatti candela

tra luci abbaglianti,

lasciati calare

in gola al buio

tremolare come palpebra

sul corpo smisurato

della notte, lasciati spegnere

tutta in un soffio

come stella compiuta

come balzo

nel buio.

Tutta.

Non sfugga l’insistenza su quanto è componente essenziale della ricerca poetica: il sonno, la notte, il buio. La notte è il luogo da dove vengono le parole; luogo “visitato dai fantasmi”, “animale/ vaghissimo immenso”, “corpo”, “feroce caverna” in cui sprofondare per riportare indietro “frammenti del mondo” e farli approdare “in riva all’assennato giorno”. La notte è “colei che divora le forme”, che “cancella i tratti del mondo”, ma in essa occorre scivolare per farsi archeologi del silenzio. Perché solo là dove tutto tace l’anima – l’anima del mondo come la propria - può parlare. La notte è anche terrore, “ferro arroventato” che non consente il quieto sonno portatore di sogni, né la pacificata smemoratezza dell’oblio. Allora è notte insonne, smania della luce salvifica del mattino. E tuttavia, ancora una volta, la voce – bambina deve sapersi abbandonare, perché la poesia è verità e non si dà verità se non nell’ostinato ascolto di sé e del mondo.

Nel cuore del buio

la bambina beve

dal bicchiere del mondo

beve la sua sete.

Bambina

che vede in cuore

alla notte, che la cavalca

senza redini

e senza sella

e il silenzio della luna

è quasi tana.

Se la prima sezione è rivolta allo spazio del primo abitare per farne “casa” – toccare, esplorare, sognare gli oggetti del primo mondo – ora s’impone la spinta a nascere. La seconda sezione, Dov’è mondo?,  narra l’imperiosità di questa nascita. La voce-bambina esce dalla notte-nido, dalla notte-casa, dalla notte-pozzo e, arrampicandosi sull’alfabeto, fa delle parole strumento d’essere.

Obbedisco

a una legge

di fioritura

a un comando precipitoso

verso luce

spalancata.

La luce accompagna ed efficacemente esprime questo movimento -

oggetti in un vento di parole

si lasciano chiamare

alla luce

e dicono di sé

facendosi usare.

Duplice movimento, perché la voce-bambina per potersi aprire al mondo deve affermare il potere trasformativo della parola sul male. Se la parola - accogliendo, plasmando, sgretolando - è capace di trasformare quel “danno che impicca la memoria/ e spezza le ossa al sonno”, allora può emergere lo slancio impetuoso della vita.

Io padre raccolgo

i tuoi sguardi li infilo

padre sul filo della memoria

ne faccio lucciole e cavigliere

e ballo ballo nella luce tenue

naturale dove solo gli alberi

e ogni filo d’erba canta

che sono nata per diritto

che sono nata per mondo.

Quando la parola è capace di trasformare il male, allora diventa essa stessa casa e riparo, ponte - tra sé e il mondo, tra sé e la propria storia -, possibilità di uno sguardo affettuoso sulla vita e la morte. Condizione di questo potere è ancora una volta la capacità di accogliere.

Quando una stanza si allarga

al chiuso del dolore

come per ricevere un ospite  

scostante e metterlo comodo.

Se il dolore può essere trattato come ospite, allora un accordo si potrà trovare:

È come dissotterrare un alveare

perduto che non fa miele

ma danza danza

sequenze invisibili

all’occhio umano

sequenze che ancorano

al cielo, insegnano

a cedere, a fare sciame

col male.

Il viaggio poetico è un viaggio interiore. Nella seconda, e ancor più nella terza sezione, Buio padre, fa la sua apparizione una minuscola particella …  come una piccola lucciola che si muove ora inquieta ora ombrosa ora ebbra tra le lettere dell’alfabeto. Questa particella si chiama “io”. Quasi che la voce- bambina, dopo aver vagato tra le cose del mondo, volesse arrestarsi e sostanziarsi in questo “io”, avviando al tempo stesso un lavoro di rimemorazione che a tratti sembra imporsi come necessità imperiosa.

Sono d’angolo

scrivo

dalla finestrella di un abbaino

un po’ impolverato,

e mi faccio memoria

come foglie che d’autunno

silenziano l’asfalto.

Un simile lavoro non può non incrociare le fratture della storia personale:

Sono una bambina, padre

ripiego le ali su una luce

al centro del petto,

un nido per lo scempio

uno strappo logico.

Ma, e questo è un punto essenziale, gli strappi della storia intima, le fratture, le lacerazioni, sono accolti e raccolti nell’abbraccio delle parole e di un mondo che può essere sentito come “pelle-mondo”, con il quale “io” è in misteriosa continuità, perché

la pelle la sua pelle mondo

è tutta l’aria è l’etere celeste

è un angolino di un mantello

signorile e misteriosissimo

dell’abbraccio dell’intero.

Come non pensare alle Madonne della Misericordia dipinte dai pittori medievali e rinascimentali? Quiete, allargano con gesto al tempo stesso aggraziato e solenne il loro mantello per dare riparo all’umanità bisognosa, povera e dolente.

Nella poesia di Chandra “sopra il disordine della realtà” si afferma sempre la forza della vita e, se il male ci attraversa e ci plasma, dovrà comunque venire a patti con questa forza, che sa diventare in alcuni momenti vitalità di carne, di sangue, di fiato, slancio erotico sentito sempre come accordo profondo con la natura, amore per i piccoli gesti che della vita sono il respiro.
Così, nella bellissima "Bambina e padre" della quarta sezione, Fatti vivo, la voce- bambina riafferma la sua furia prepotente di vivere, di giocare, di amare:

Il punto quel punto

inviolabile è la gioia, il brulicare

del sangue nelle ali

la corsa delle gambe

il fiuto. Mi importano

del mondo tutte le cose

piccole, il sonno dei sassi, gli spaventi

dell’acqua che trema, la stoffa

della luce, la gravità delle foglie. Imparo.

A stare. Allacciata.

Condizione irrinunciabile di questo legame con la vita è l’aprirsi: a se stessi, lasciandosi attraversare dalla gioia d’essere ma anche dal male: "Lasciar fare il suo lavoro al male, non perdonarlo, dargli vasto spazio farlo fiume".

Caro male

non ti chiedo ragioni

è questa la legge di ospitalità,

ti tengo come una piuma

anche quando sei montagna scottante.

Aprirsi al mondo, perché “senza mondo/ c’è male di tutti”. Aprirsi all’altro perché “non c’è io/ senza noi/ non c’è me”.

La poesia di Chandra è una grande lezione di ospitalità e di apertura, un’apertura compassionevole che è ben lontana dall’essere un atteggiamento di passivo abbandono. L’amore “è più vicino a una scienza/ che a una poesia”, è disciplina dell’ascolto, attenzione, sguardo diritto dell’infanzia:

L’amore è diverso

da quello che credevo,

più vicino a un’ape operaia

a un tessitore

che a un acrobata ubriaco,

più simile a un mestiere

che a un sentire.

È esercizio di pazienza e di silenzio, perché nel silenzio sorge la parola; esercizio del vuoto, perché è lì che la “corda tesa” dell’anima vibra e si fa suono.

Essere temi musicali

non è una vocazione

ma una disciplina di spoliazione,

è farsi ossi

limati

dalle onde

goccia che si disfa

nel galoppante mare.

E altrove:

lavorare come minatori

al capezzale delle parole,

aspettare disperati.

In cambio del fiore di gelsomino.

È così che io intendo il “farsi vivi” cui invita il libro: farsi svegli, tendere l’orecchio, non lasciarsi distrarre dal frastuono del mondo, affinare la “scienza dei passaggi”, cioè del viaggio che porta al di là dell’ovvio, del noto e del prevedibile. Custodire gelosamente, devotamente, quel mondo bambino da dove si può guardare ad ogni cosa con sempre rinnovato stupore.

L’amore, finalmente, è anche capacità di trascendere il proprio male soggettivo, individuale, per scoprirsi fratelli. La poesia diventa allora accorato canto per dire il dolore del mondo, di “Abu faccia sbriciolata”, di chi vive in una baracchetta fatta come il nido di un uccello, di chi viene da lontano per morire “bevuto” dal mare. Della natura che offendiamo. Di chi cade. Del cadere, che ci accomuna e ci affratella ed è la nostra umanità.

Dammi l’acqua,

dammi la mano

dammi la tua parola

che siamo,

nello stesso mondo.

La poesia si fa testimonianza. La voce- bambina ci obbliga ad ascoltare, a farci vivi.

Angela Peduto, 11 novembre 2017


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