"Fatti Vivo" di Chandra Livia Candiani
Fatti Vivo è l'ultima raccolta di poesia di Chandra Livia Candiani (Einaudi, 2017). Si apre con l'immagine della porta. Ed è su questa immagine che desidero soffermarmi per aprire il nostro incontro. La porta è soglia, è limite, linea di confine e cerniera tra mondi. La porta è anche enigma perché, nel suo chiudersi, schiude l’ignoto. Ho voluto vedere in questa immagine così evocativa la rappresentazione dello stesso fare poetico, nella misura in cui questo diventa capace di collegare il visibile e l’invisibile, la parola e l’al-di-là della parola. Il poeta è archeologo dell’anima, scava l’invisibile per trarne parole sensibili, scava il visibile per portarne alla luce l’aura, l’alone affettivo e visionario che rende qualunque cosa, anche la più semplice e quotidiana, una presenza nel mondo.
Entrare, varcare la soglia malgrado la “paura dei passaggi”, accettare il viaggio che si prefigura e dal quale potremmo uscire trasformati: questo l’incipit, la promessa del libro.
Promessa pienamente mantenuta perché, man mano che ci si immerge nella lettura, si ha veramente l’impressione di una traversata che ci porta dal mondo delle cose - gli oggetti, la casa - alla più intima soggettività, dal mondo noto - o che crediamo tale - all’ignota vita che batte dentro di noi e intorno a noi, dalla singolarità di un destino all’infinità di una storia che appartiene a tutti in quanto è materia della nostra umanità.
Siamo lì
buttati in una trama di cambiamento incessante,
siamo un magazzino
di semi, sotto la neve
fitta dei pensieri,
tesi al caldo
porosi alla luce,
siamo.
È nel silenzio e nel sonno della casa che il viaggio poetico inizia. La casa dorme, dorme lo spazio. Lo sguardo lo percorre e mentre lo percorre lo crea. Tornano in mente le grandi descrizioni fenomenologiche dello spazio come spazio vissuto, tutt’altro che omogeneo e vuoto, tutt’altro che oggettivo: lo spazio è sempre abitato dalla soggettività, dai suoi fantasmi e dalle sue memorie, dalle sue ombre, dai suoi slanci, dalle sue paure.
Così la prima sezione ci fa entrare nel mondo della poetessa-narratrice, che in Chandra è una “voce bambina”, e lo sguardo non può che essere tutto interiore, uno sguardo lieve, trasparente, che accarezza e accoglie il mondo materiale portandone alla luce l’essenza intima e spirituale. Per così dire, “l’anima delle cose”. Mondo notturno, dove gli oggetti non sono mai opaca materialità ma accompagnano la vita nei suoi gesti più autentici e semplici, nel suo palpitare emotivo, nei suoi movimenti più familiari e minuti. Gli oggetti sono testimoni dell’esistere, “custodi”, “confidenti”, compagni fidati: maniglia, pavimento, specchio, lenzuolo, tazzina del caffè, tenda, lampada, armadio, tappeto. O la scrivania:
porti i tuoi pesi
di parole e le leggere leggi
degli oggetti.
Ma la scrivania porta in sé anche la memoria “del bosco” e del “taglio”, cioè la memoria della vita e della morte. Perciò essa sa indicare il cammino:
non seguire
il desiderio del bersaglio,
fatti candela
tra luci abbaglianti,
lasciati calare
in gola al buio
tremolare come palpebra
sul corpo smisurato
della notte, lasciati spegnere
tutta in un soffio
come stella compiuta
come balzo
nel buio.
Tutta.
Non sfugga l’insistenza su quanto è componente essenziale della ricerca poetica: il sonno, la notte, il buio. La notte è il luogo da dove vengono le parole; luogo “visitato dai fantasmi”, “animale/ vaghissimo immenso”, “corpo”, “feroce caverna” in cui sprofondare per riportare indietro “frammenti del mondo” e farli approdare “in riva all’assennato giorno”. La notte è “colei che divora le forme”, che “cancella i tratti del mondo”, ma in essa occorre scivolare per farsi archeologi del silenzio. Perché solo là dove tutto tace l’anima – l’anima del mondo come la propria - può parlare. La notte è anche terrore, “ferro arroventato” che non consente il quieto sonno portatore di sogni, né la pacificata smemoratezza dell’oblio. Allora è notte insonne, smania della luce salvifica del mattino. E tuttavia, ancora una volta, la voce – bambina deve sapersi abbandonare, perché la poesia è verità e non si dà verità se non nell’ostinato ascolto di sé e del mondo.
Nel cuore del buio
la bambina beve
dal bicchiere del mondo
beve la sua sete.
Bambina
che vede in cuore
alla notte, che la cavalca
senza redini
e senza sella
e il silenzio della luna
è quasi tana.
Se la prima sezione è rivolta allo spazio del primo abitare per farne “casa” – toccare, esplorare, sognare gli oggetti del primo mondo – ora s’impone la spinta a nascere. La seconda sezione, Dov’è mondo?, narra l’imperiosità di questa nascita. La voce-bambina esce dalla notte-nido, dalla notte-casa, dalla notte-pozzo e, arrampicandosi sull’alfabeto, fa delle parole strumento d’essere.
Obbedisco
a una legge
di fioritura
a un comando precipitoso
verso luce
spalancata.
La luce accompagna ed efficacemente esprime questo movimento -
oggetti in un vento di parole
si lasciano chiamare
alla luce
e dicono di sé
facendosi usare.
Duplice movimento, perché la voce-bambina per potersi aprire al mondo deve affermare il potere trasformativo della parola sul male. Se la parola - accogliendo, plasmando, sgretolando - è capace di trasformare quel “danno che impicca la memoria/ e spezza le ossa al sonno”, allora può emergere lo slancio impetuoso della vita.
Io padre raccolgo
i tuoi sguardi li infilo
padre sul filo della memoria
ne faccio lucciole e cavigliere
e ballo ballo nella luce tenue
naturale dove solo gli alberi
e ogni filo d’erba canta
che sono nata per diritto
che sono nata per mondo.
Quando la parola è capace di trasformare il male, allora diventa essa stessa casa e riparo, ponte - tra sé e il mondo, tra sé e la propria storia -, possibilità di uno sguardo affettuoso sulla vita e la morte. Condizione di questo potere è ancora una volta la capacità di accogliere.
Quando una stanza si allarga
al chiuso del dolore
come per ricevere un ospite
scostante e metterlo comodo.
Se il dolore può essere trattato come ospite, allora un accordo si potrà trovare:
È come dissotterrare un alveare
perduto che non fa miele
ma danza danza
sequenze invisibili
all’occhio umano
sequenze che ancorano
al cielo, insegnano
a cedere, a fare sciame
col male.
Il viaggio poetico è un viaggio interiore. Nella seconda, e ancor più nella terza sezione, Buio padre, fa la sua apparizione una minuscola particella … come una piccola lucciola che si muove ora inquieta ora ombrosa ora ebbra tra le lettere dell’alfabeto. Questa particella si chiama “io”. Quasi che la voce- bambina, dopo aver vagato tra le cose del mondo, volesse arrestarsi e sostanziarsi in questo “io”, avviando al tempo stesso un lavoro di rimemorazione che a tratti sembra imporsi come necessità imperiosa.
Sono d’angolo
scrivo
dalla finestrella di un abbaino
un po’ impolverato,
e mi faccio memoria
come foglie che d’autunno
silenziano l’asfalto.
Un simile lavoro non può non incrociare le fratture della storia personale:
Sono una bambina, padre
ripiego le ali su una luce
al centro del petto,
un nido per lo scempio
uno strappo logico.
Ma, e questo è un punto essenziale, gli strappi della storia intima, le fratture, le lacerazioni, sono accolti e raccolti nell’abbraccio delle parole e di un mondo che può essere sentito come “pelle-mondo”, con il quale “io” è in misteriosa continuità, perché
la pelle la sua pelle mondo
è tutta l’aria è l’etere celeste
è un angolino di un mantello
signorile e misteriosissimo
dell’abbraccio dell’intero.
Come non pensare alle Madonne della Misericordia dipinte dai pittori medievali e rinascimentali? Quiete, allargano con gesto al tempo stesso aggraziato e solenne il loro mantello per dare riparo all’umanità bisognosa, povera e dolente.
Nella poesia di Chandra “sopra il disordine della realtà” si afferma sempre la forza della vita e, se il male ci attraversa e ci plasma, dovrà comunque venire a patti con questa forza, che sa diventare in alcuni momenti vitalità di carne, di sangue, di fiato, slancio erotico sentito sempre come accordo profondo con la natura, amore per i piccoli gesti che della vita sono il respiro.
Così, nella bellissima "Bambina e padre" della quarta sezione, Fatti vivo, la voce- bambina riafferma la sua furia prepotente di vivere, di giocare, di amare:
Il punto quel punto
inviolabile è la gioia, il brulicare
del sangue nelle ali
la corsa delle gambe
il fiuto. Mi importano
del mondo tutte le cose
piccole, il sonno dei sassi, gli spaventi
dell’acqua che trema, la stoffa
della luce, la gravità delle foglie. Imparo.
A stare. Allacciata.
Condizione irrinunciabile di questo legame con la vita è l’aprirsi: a se stessi, lasciandosi attraversare dalla gioia d’essere ma anche dal male: "Lasciar fare il suo lavoro al male, non perdonarlo, dargli vasto spazio farlo fiume".
Caro male
non ti chiedo ragioni
è questa la legge di ospitalità,
ti tengo come una piuma
anche quando sei montagna scottante.
Aprirsi al mondo, perché “senza mondo/ c’è male di tutti”. Aprirsi all’altro perché “non c’è io/ senza noi/ non c’è me”.
La poesia di Chandra è una grande lezione di ospitalità e di apertura, un’apertura compassionevole che è ben lontana dall’essere un atteggiamento di passivo abbandono. L’amore “è più vicino a una scienza/ che a una poesia”, è disciplina dell’ascolto, attenzione, sguardo diritto dell’infanzia:
L’amore è diverso
da quello che credevo,
più vicino a un’ape operaia
a un tessitore
che a un acrobata ubriaco,
più simile a un mestiere
che a un sentire.
È esercizio di pazienza e di silenzio, perché nel silenzio sorge la parola; esercizio del vuoto, perché è lì che la “corda tesa” dell’anima vibra e si fa suono.
Essere temi musicali
non è una vocazione
ma una disciplina di spoliazione,
è farsi ossi
limati
dalle onde
goccia che si disfa
nel galoppante mare.
E altrove:
lavorare come minatori
al capezzale delle parole,
aspettare disperati.
In cambio del fiore di gelsomino.
È così che io intendo il “farsi vivi” cui invita il libro: farsi svegli, tendere l’orecchio, non lasciarsi distrarre dal frastuono del mondo, affinare la “scienza dei passaggi”, cioè del viaggio che porta al di là dell’ovvio, del noto e del prevedibile. Custodire gelosamente, devotamente, quel mondo bambino da dove si può guardare ad ogni cosa con sempre rinnovato stupore.
L’amore, finalmente, è anche capacità di trascendere il proprio male soggettivo, individuale, per scoprirsi fratelli. La poesia diventa allora accorato canto per dire il dolore del mondo, di “Abu faccia sbriciolata”, di chi vive in una baracchetta fatta come il nido di un uccello, di chi viene da lontano per morire “bevuto” dal mare. Della natura che offendiamo. Di chi cade. Del cadere, che ci accomuna e ci affratella ed è la nostra umanità.
Dammi l’acqua,
dammi la mano
dammi la tua parola
che siamo,
nello stesso mondo.
La poesia si fa testimonianza. La voce- bambina ci obbliga ad ascoltare, a farci vivi.
Angela Peduto, 11 novembre 2017