Formazione continua e salute mentale: criticità e ipotesi di lavoro
Formazione continua e salute mentale: criticità e ipotesi di lavoro
Pier Francesco Galli
*Relazione tenuta al VII SEMINARIO, Ministero della Salute, Roma, 11 luglio 2007, “La formazione continua nell’ambito della Salute Mentale. Il ruolo della ricerca-azione e i rapporti Università-territorio”
Relazione iniziale*
Premessa
Il testo che presento sintetizza alcune tesi elaborate nel corso degli anni, a partire dal 1960, nell’ambito del monitoraggio dei fenomeni che hanno accompagnato il nascere e lo sviluppo della psichiatria in Italia dopo la seconda guerra mondiale, e che saranno maggiormente articolate in vista di un contributo storico-critico in preparazione per la pubblicazione nel periodicoPsicoterapia e Scienze Umane. Le argomentazioni sono proposte in maniera volutamente assertiva, contando sulla dialettica che animerà il dibattito. Il contributo è calibrato in funzione dell’occasione contingente, nella cornice del documento proposto dal gruppo di lavoro delMinistero.
La situazione presa in esame è quella attuale, dopo la prima americanizzazione e importazione di cultura interpersonale degli anni 1950-60, la fase di originalità della psichiatria italiana degli anni 1970, la seconda americanizzazione degli anni 1980 con l’arrivo del diagnosticismo e l’ipertrofia delle procedure, delle linee-guida e del PowerPoint come strumento di trasmissione culturale, in parallelo con la aziendalizzazione nella Sanità, fino alla crisi attuale della illusione di una psichiatria delle certezze.
Formazione e cultura relazionale: limiti dell’organizzazione accademica
Il discorso cerca di porre in evidenza le ricadute delle trasformazioni in atto sui processi di formazione degli operatori nei servizi di salute mentale, circoscrivendo l’angolo di osservazione alla cultura relazionale (vedi anche Galli, 1986, 1990; Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, 1966). Lascio da parte le componenti delle conoscenze e delle competenze della psichiatria rubricabili nel capitolo dell’istruzione, più facili da coordinare lungo percorsi organizzativi e linee didattiche tradizionali, rispetto alle quali risulta meno riduttiva la centralità negoziale con l’Università, nel suo ruolo di agenzia formativa. Si tratta infatti soltanto, su quel piano, di equilibrare il gioco interistituzionale, con le rigidità di sistema che comporta, nel quadro dei rapporti di potere tra accademia e servizio sanitario nazionale. Non dedico spazio a questo problema e alle variabili critiche che l’analisi socioculturale fattuale comporterebbe, dato che l’ottica del mio intervento riguarda la cultura relazionale in riferimento alle tecnologie specifiche, alla loro organizzazione, alle filosofie di base che hanno operato nel tempo, alle tendenze attuali. In sostanza, un patrimonio di conoscenze e competenze progettuali appartenente alle agenzie formative esterne all’Università e con una lunga tradizione in Italia. Su questo piano, le rigidità strutturali della nostra compagine accademica non la pongono nelle condizioni di inserirsi nella dinamica dell’innovazione e dello sviluppo. Infatti la nostra imprenditoria ha da sempre affrontato il problema della formazione con soluzioni autonome, corporate university, comunque circuiti formativi elastici e capaci di trasformazione rapida e di aderenza immediata agli schemi che si vengono a configurare. Col massimo rispetto nei confronti di individualità di assoluto rilievo presenti nell’ambito accademico e che di frequente collaborano con l’imprenditoria della formazione, si tratta di limiti strutturali non ancora risolti tanto sul livello di una docimologia moderna quanto rispetto alle modalità stesse di trasmissione di conoscenza. Per quanto riguarda la cultura relazionale, non è possibile fare sconti, col rischio di cadere nel piccolo cabotaggio dello scambio tra il micro-incarico in qualche scuola di specializzazione affidato a un operatore dei servizi in cambio dello spazio per i tirocini. In proposito, quando si parla di tutoraggio in ambito psichiatrico, bisogna mettere bene a fuoco la questione della responsabilità giuridica. Mentre infatti in altri ambiti della medicina l’eventuale operatività del tirocinante è visibile e si svolge all’interno di segmenti di procedure sotto sorveglianza continua, nel caso del tirocinante in psichiatria e ancor più in psicoterapia l’intervento viene svolto sulla persona totale, senza sorveglianza diretta. Scatta quindi per il tutor la responsabilità giuridica del pedagogo in tutta la sua portata e con le conseguenze che comporta.
Équipe e cultura del controllo
Prendo ora in considerazione la questione dell’operatore psichiatrico nella interazione tra la persona e la tecnica. Si tratta di una problematica di rilevanza particolare, dato che il documento redatto a cura del gruppo di lavoro del Ministero fa riferimento al concetto allargato di “gruppo di lavoro” e sottolinea il passaggio, per l’operatore, di «sentirsi parte non solo della singola équipe, ma di una intera Unità Operativa e del DSM nel suo complesso, (…) [nonché] di sentirsi parte di un sistema sociale e sanitario». In sostanza la richiesta avviene in un periodo in cui, come da più parti rilevato, il personale dei servizi psichiatrici è in sofferenza e ad alto rischio di burn-out, con accelerazione verso la fuga nel pensionamento liberatorio. Nella situazione odierna c’è difficoltà ad identificarsi non soltanto con la propria équipe di appartenenza ma talvolta anche con il collega col quale si lavora gomito a gomito. In un quadro di turbolenza notevole, si richiede la identificazione con una identità aziendale forte, l’adesione al sistema di valori che esprime e la legittimazione per identificazione della catena di comando. Si tratta certo di un obiettivo condivisibile verso il quale dirigersi, prevedendo tempi molto lunghi, in un percorso irto di difficoltà. È un problema nel quale l’incentivo formazione può incidere, ma nel quadro di una trasformazione degli stili organizzativi e di comando. Quelle “dinamiche aziendali”, rispetto alle quali è necessaria una accurata analisi di campo, anche sul livello elementare dei “climi aziendali”, per valutare in che misura e in quali contesti non siano stati provocati danni irreversibili al capitale umano. Se infatti si pone l’accento sul fattore “motivazione”, è necessario interrompere un fenomeno che ha finito spesso con lo strutturare un sistema di demotivazione organizzata, nell’illusione di una maggiore efficienza, con l’ipertrofia della cultura del controllo. Questa ha costi alti rispetto ai benefici attesi e, nell’ambito psichiatrico, è particolarmente lontana dall’esperienza e dai processi decisionali periferici reali. Si sono quindi sviluppate delle compagini autoreferenziali con caratteri antropologici specifici. Viene vissuto come ferita narcisistica tutto quanto sfugge al controllo e in alcune zone si è arrivati addirittura alla riscoperta del “tempario”! Su questo punto si innestano altri fattori che mettono in evidenza tratti di specificità della psichiatria rispetto ad altri ambiti sanitari.
Procedure e decisione nell’incertezza
La sicurezza tecnico-procedurale di altri settori della medicina fa si che la competenza dei dirigenti tecnici, più formalizzabile, mantenga il riferimento identificatorio con l’operatività dei singoli settori a tutti i livelli. Lo stesso lavoro in équipe, più parcellizzato nelle singole mansioni, non mette in crisi la linea d’autorità e favorisce una migliore distribuzione del carico individuale di responsabilità che riguarda comunque singoli aspetti del procedimento piuttosto che la persona. In psichiatria la questione è diversa: l’insicurezza decisionale, nell’ambito della quale comunque bisogna “fare”, é una connotazione specifica del lavoro: pertanto la propaganda della pseudo sicurezza dei protocolli trasforma una caratteristica del lavoro in sofferenza del lavoratore. Anziché addestrare alla tolleranza dell’insicurezza e all’importanza della risposta consensuale come strategia specifica del processo di intervento, si finisce con l’organizzare una costante minaccia all’autostima del lavoratore. Su questo punto, chiunque può chiedersi quale sia oggi lo spazio residuale per un vero lavoro d’équipe. In ogni caso, l’aumento della gestione residenziale (centridiurni, comunità) incrementa la relazione con la quotidianità di vita piuttosto che con i sintomi. Gli operatori del campo fanno i conti concreti con i “protocollo-resistenti” (Galli, 1998).
La leadership nell’attività psichiatrica
Indico ancora due fenomeni con le relative contraddizioni: a differenza delle altre medicine, la cooptazione della leadership nella dirigenza amministrativa ha provocato in molti casi lo scollamento dalla operatività del campo, con conseguente diminuzione delle identificazioni reciproche. Questo pone degli interrogativi rispetto alla questione del comando reale sui processi, affidato comunque di fatto alle linee decisionali della base. Quindi, per gli psichiatri, alla dirigenza di primo livello. D’altra parte la dirigenza di secondo livello ottiene il comando per “gentile concessione”, deve cambiare identità e molto spesso non riesce a gestire la ricerca di consenso rispetto ai propri dipendenti. La forbice tende ad allargarsi, perché un chirurgo sa benissimo che se smette di operare scompare dal mercato, mentre nel campo della psichiatria esiste il valore aggiunto della rappresentanza pubblica. Di fatto, in convegni, interventi, comunicazioni, la psichiatria è rappresentata prevalentemente da chi è fuori dal processo di lavorazione (Galli, 1998).
In sostanza, si configurano oggi in maniera evidente tre punti di criticità: a) crisi dell’ascolto; b) crisi della parola; c) crisi di leadership. A differenza di altri settori nei quali si sta sviluppando in maniera sempre maggiore la sensibilità all’addestramento alla tolleranza dell’incertezza, nellaSanità ci si rifugia prevalentemente nella ipertrofia delle procedure. Ancora oggi si lavora sugli organigrammi (Galli, 2006, pp. 92-94).
La dinamica dei processi di “aziendalizzazione”
Per fare un esempio, riassumo brevemente tre passaggi configuratisi nel breve tempo di quindici anni (vedi anche Galli, 1984, 2005). In una prima fase il problema era quello di abbassare la valenza del controllo politico e del potere baronale dei tecnici. Dopo la breve stagione dei commissari straordinari, con le prime dichiarazioni roboanti e con il riciclaggio di quadri di età medio-alta provenienti dai circuiti aziendali privati che segnò lo spostamento delle linee di comando verso il blocco amministrativo, si arrivò rapidamente alla fase a regime delle “aziende”,con la triade direttore generale, amministrativo e sanitario. Il blocco tecnico era rappresentato dalla mediazione del direttore sanitario. La distribuzione resta ancorata al territorio con le sue diversificazioni. Il controllo sulla delega periferica entra però in crisi e si verificano due movimenti:da un lato, la centralizzazione delle linee di comando con aziende di dimensione sempre maggiore, fino a coincidere con tutto un ambito regionale, con conseguente diminuzione delle deleghe periferiche, nell’illusione di esercitare un comando reale. In seconda battuta, si osservano due fenomeni principali: primo, il blocco tecnico non si è sottomesso, nel suo complesso, al blocco amministrativo; secondo, il blocco amministrativo spesso è risultato ancora più rigido e carente di quello tecnico come cultura organizzativa.
È diventata pertanto necessaria una nuova negoziazione con i tecnici, complicata dalla presenza, in molte aree, della componente universitaria. I direttori sanitari hanno fatto un passo indietro e i direttori di Dipartimento hanno accesso diretto alla direzione generale. Questo nell’illusione che i prescelti siano in grado, e nella condizione, di creare e ottenere consenso. Come già accennato, prosegue il lavoro sugli organigrammi. Nel frattempo, lo spostamento della responsabilità politica sulla dirigenza pone la linea di comando nella Sanità nella condizione particolarmente difficile di operare con una doppia anima. Da un canto per la ineludibilità del rapporto con la sofferenza e per l’elevata vischiosità dei meccanismi periferici di risposta; dall’altro perché il dirigente della Sanità è posto nell’interfaccia tra organizzazione e ambiente sociale. In questo senso opera costantemente con compiti di sussidiarietà rispetto ai politici ed è sottoposto a pressioni dell’ambiente esterno e a pressioni interne all’organizzazione. Questo aumenta il tasso di responsabilizzazione rispetto alla responsabilità definibile giuridicamente e determina spesso conflittualità nella catena di legittimazione del comando. Non è infrequente che, in momenti difficili nei confronti dell’ambiente sociale, il dirigente venga “scaricato” in funzione della sopravvivenza del politico. Questi fattori, che a mio avviso possono essere considerati strutturali, fanno sì che il dirigente della Sanità operi, come soggetto, in una condizione che si può definire di “volontariato istituzionale”, in un contesto decisionale che mette a dura prova la tolleranza dell’incertezza. L’ampiezza dei confini dell’organizzazione e la loro permeabilità nei confronti dell’ambiente sociale rendono sempre meno possibile il rifugio nella procedura.
Crisi della cultura critica
Nell’ambito della psichiatria, più che in altri settori della medicina, è necessario il recupero della cultura critica collettiva, di quella massa critica che ha caratterizzato a lungo la psichiatria italiana. Questo significa muoversi in controtendenza rispetto alle separazioni individualistiche che hanno trovato corpo nella filosofia aziendale operante nella Sanità. Nella organizzazione attuale l’operatore, qualunque sia il suo livello gerarchico, è un dipendente senza diritto di critica pubblica all’azienda. Non può quindi, strutturalmente, fare cultura: il pensiero è delegato all’azienda, ai“portavoce”, altrimenti il contratto aziendale prevede tutta la gamma di misure punitive possibili, dalla censura al licenziamento, come nel caso del collega di Milano che aveva osato criticare, tramite il quotidiano La Repubblica, la formazione ricevuta dall’ASSL.
In maniera sempre meno strisciante la funzione intellettuale critica è stata progressivamente desoggettivizzata all’interno dell’organizzazione ed “esternalizzata”, per cui finisce col diventare patrimonio di intellettuali fuori dall’organizzazione, col rischio che svolgano la funzione residuale dei “grilli parlanti”. La pratica del pensiero individuale è sostituita dal “pensiero”dell’organizzazione e quindi, concretamente, dai vari livelli del blocco amministrativo.
Talvolta, nei circuiti della formazione, si compra pensiero dall’esterno, ma più spesso a catalogo, con pacchetti preconfezionati di certezze. Il punto è che mentre nelle aziende più avanzatesi è profilata da tempo la dismissione di questi pacchetti e tornano in auge discorsi sui valori, sull’integrità d’impresa, sul recupero del soggetto nei processi decisionali, in Sanità si acquistano, in ritardo, gli abiti dismessi. Ad esempio, la formazione “outdoor” per la dirigenza, col ponte tibetano, i percorsi del coraggio, i carri armati fatti con le seggiole, il gioco degli indiani eccetera, affinché l’abitudine allo stress produca “squadre” di piccoli Rambo. Da notare che si ritiene che questi prototipi di formazione provengano dagli Stati Uniti, mentre si tratta di un prodotto nazionale d’epoca: era la formazione per i gerarchi voluta dal ministro fascista Starace, con salto attraverso il cerchio di fuoco e robe varie, compiuti da distinti, spesso panciuti, signori in maglietta della GIL e orbace, in vista di carriere da capitani coraggiosi. Nel complesso, il campo è tenuto dalla cultura dichiarativa, strutturalmente incapace di ascolto.
Per concludere, ritengo che gli stili organizzativi attuali siano fallimentari sul piano della ricerca di consenso e di identificazione degli operatori e continuino a provocare un danno economico rilevante. Molti cadono nell’equivoco di considerare frutto di tendenze economicistiche quanto accade in psichiatria oggi. Se fosse così, se cioè davvero criteri economici di investimento, innovazione e sviluppo fossero alla base delle decisioni, non ci sarebbe da ridire. I criteri sono invece puramente finanziari a breve termine e non economici; non vengono valutati a sufficienza i danni a medio e lungo termine e il fallimento del sistema motivazionale. Si è creata nel terziario una analogia paradossale con la differenza tra il capitalismo industriale, comunque responsabile verso la forza lavoro, e una sorta di impunito “capitalismo” (o burocratismo) finanziario (Galli,2006).
Fattori di personalità nel lavoro psichiatrico
Prendendo in esame la condizione reale dei lavoratori intellettuali, delle figure professionali presenti nell’ambito della psichiatria nelle sue diverse articolazioni pubbliche e private, è necessario porre attenzione al loro ruolo, funzione, ideologia, comportamento, specificità del lavoro, stratificazioni, differenziazioni e condizionamenti che subiscono, in particolare i condizionamenti istituzionali.
La proposizione del concetto di salute mentale ha contribuito alla demedicalizzazione della sofferenza psichica, allargando i confini delle professionalità e con una certa spinta all’abbassamento delle barriere interprofessionali, in controtendenza con le spinte al loro irrigidimento dovuto alla seconda americanizzazione. La pretesa di autarchia dello psichiatra come depositario della “sintesi” delle conoscenze è oggi attaccata da più parti sul piano culturale e scientifico. In particolare, sul piano strutturale, la trasformazione della figura infermieristica, con l’introduzione della “responsabilità infermieristica”, cambia in maniera sostanziale i rapporti di potere nei servizi. Questo fattore è importante ai fini formativi sul piano relazionale perché l’infermiere resta la figura più coinvolta con l’utente in termini di tempo relazionale, anche nell’interfaccia con le famiglie. Si tratta di organizzare in maniera adeguata la trasmissione di esperienza al nuovo ruolo infermieristico da parte del personale “professionale”, dato che nella didattica della laurea in scienze infermieristiche non è dedicato molto spazio alle conoscenze psichiatriche. Ritengo che la figura infermieristica debba comportare una maggioranza di personalità terapeutiche del tipo A della classificazione di Whitehorn & Betz (1954, 1960) sui “tipi”di terapeuti (i tipi A sarebbero più abili nell’ottenere la fiducia nei pazienti; tendono a comprendere il significato e la motivazione del paziente; sono orientati a una migliore comprensione delle sue capacità e potenzialità; risultano attivamente coinvolti, introducono limiti realistici e manifestano apertamente il proprio disappunto. I tipi B tendono a formulare la comprensione in termini biografico-narrativi; sono orientati in senso psicopatologico; adottano modelli passivi di intervento rispetto alle linee-guida, sono istruttivi e pedagogici). Con tutti i limiti di questi tentativi di classificazione, sviluppati originariamente per differenziare gli psicoterapeuti, si riescono comunque a individuare alcune caratteristiche base di chi opera nel settore (vedi Mastinu, 1991).Un po’ come i Cronopios e i Famas di Cortàzar, comunque quei tratti che fanno riconoscere al “comparto” da quale collega inviare parenti e amici. Metodo che nella Sanità in generale funziona meglio di qualsiasi risultato concorsuale. Circa gli psichiatri, a scopo puramente euristico, penso si possa suddividere la categoria generale formale degli specialisti in Psichiatria in psichiatri e ricercatori in psichiatria. Servono entrambi ed entrambi sono preziosi per il settore. I primi, a mio avviso, rientrano prevalentemente nel tipo A, prima citato. I secondi sono particolarmente bravi al computer (prima si cercava di fargli fare le statistiche o organizzare i turni di guardia). Purtroppo è accaduto che con le linee di tendenza attuali si sia costituito un sistema premiale per questo secondo tipo. Inoltre, in qualche luogo di formazione specialistica, si addestra al colloquio guardando lo schermo del computer mentre si porgono le domande, anziché il paziente, in attesa che la macchina fornisca la risposta diagnostico-terapeutica (vedi anche Galli, 2000).
Conclusioni
In conclusione, il nucleo centrale della formazione continua in psichiatria è costituito dalla necessità, per il gruppo di lavoro, di ottimizzare il valore d’uso della componente interpersonale, nel senso di implementare i fattori che concorrono al raggiungimento di un livello elevato di“spontaneità tecnica”, al di là della singola professionalità. Il problema principale è quello della interazione trasversale dell’esperienza di ciascuno, valorizzando le differenze, considerate come risorse, piuttosto che l’omologazione o l’appiattimento su tecniche isolate. Questo comporta la interazione delle competenze del “formatore” con la cultura presente in forma esplicita e implicita nel campo. L’impegno “senza rete” del formatore può condurre alla sua “scomparsa”, quale indice di misura della competenza concreta di un gruppo. In questa ottica, si evita il rischio di confondere la scolarità ritardata con la formazione, e viene implementata l’anima che riesce a dare interpretazioni originali aggregando culture e problematiche diverse che aumentano la probabilità di soluzioni creative, rispetto all’anima che recepisce passivamente tesi e metodi applicati ed elaborati altrove e che spesso cercano di imporsi con la potenza della “barbarie dello specialismo”.
In concreto, è necessario che il DSM si ponga come cliente forte nei confronti delle agenzie formative, attivando progetti di lunga durata modificabili in itinere (questo è in contrasto con la filosofia del controllo che caratterizza a tutt’oggi l’impostazione dell’ECM) e costantemente monitorati. L’opposto, cioè, dell’acquisto di prodotti formativi a catalogo, da qualsiasi parte provengano. Può essere così valorizzata – in tutta la sua portata metodologica, scientifica e di luogo della misura clinica – la pratica dell’incertezza, nella dialettica tra dipendenza e autonomia del singolo operatore.
Nel corso degli anni sono stati attivati progetti con queste caratteristiche in varie parti d’Italia e i materiali possono essere facilmente reperiti. Ne indico alcuni dei quali ho avuto occasione di essere a diretta conoscenza:
1) Scuola interna dei servizi psichiatrici di Pordenone, durata sette anni
2) Esperienza biennale della AUSL Salerno 1 e Salerno 2, congiunte
3) Esperienza formativa della USL 16 di Genova, durata sette anni
4) Esperienza triennale della USL di Palmanova (Udine)
5) Esperienza della Istituzione “G.F. Minguzzi” dell’Amministrazione Provinciale diBologna, durata circa otto anni
6) Esperienza triennale per la formazione del personale delle strutture intermedie organizzata e condotta dall’assessorato alla formazione nel pubblico impiego della RegioneEmilia-Romagna.
Concludo con una metafora. La pratica psichiatrica è una faccenda da polli ruspanti, allevati in libertà, capaci di trovare il verme, di reagire all’imprevisto. Hanno tentato di abituarci ai polli di allevamento, prima nutriti con farina di pesce, carne molle, orribile. Poi gli hanno messo una ruota sotto, come i criceti, così fanno i muscoli e sembrano veri. Se però li metti in strada, finiscono sotto un’auto dopo due secondi. È necessario evitare che i polli di allevamento divengano il futuro della psichiatria, per cui dovremo recuperare i ruspanti tra i prodotti da cultura biologica di nicchia.
Relazione plenaria finale*
Pier Francesco Galli
Dovrei avere il coraggio di replicare alla quantità di cose messe sul tappeto, cosa assolutamente impossibile. Sono state fatte ipotesi sul che cosa fare. Cominciamo a vedere che cosa è stato fatto.Dai miei calcoli, valutando che ogni volta sono state qui 60 persone e calcolando le sovrapposizioni, è stato attivato di nuovo un forte discorso di rete in Italia di leader d’opinione di vari settori, di varie corporazioni, di varie rappresentanze. È un fatto innovativo perché attivando una cultura di processo si chiarisce come affrontare in Italia il problema della salute mentale. Ritengo che questa sia un’operazione di psicologia sociale e di ricerca-azione che va sostenuta a tutti i livelli al di là delle contraddizioni che possano emergere nel dibattito. O si parla di formazione sul piano delle risposte di ruolo, quindi si parla dell’Università come astrazione, come se fosse uguale dappertutto, dimenticando la storia specifica dell’Università italiana nell’ambito della psichiatria, nata con neurologi convertiti, per cui si tratta di vedere come i sistemi di selezione abbiano funzionato, oppure la si considera un’entità reale della quale tenere conto, esaminando quali risposte sia in grado di fornire.
È stata presentata come situazione pacifica quella della neuropsichiatria infantile. Non è così vero, perché abbiamo la necessità, che non c’era fino a 6-7 anni fa, di ricorrere a TrattamentiSanitari Obbligatori (TSO) per ragazzini/ragazzine di 12 anni, di 13 anni, che diventano incontenibili. A Bologna c’è una casistica ampia in questa direzione, e non ci sono reparti specializzati. L’adolescente di oggi è un adolescente diverso, c’è un tipo di patologia molto difficile da affrontare, e il personale delle strutture adeguate per adulti spesso non è in grado di affrontarla.
Questa è una realtà concreta che abbiamo sempre di più sotto gli occhi.
Prendo ora in considerazione alcuni spunti dello sforzo collettivo di oggi. Il gruppo ha parlato di diversità: compare una notevole parcellizzazione e polverizzazione delle modalità, se ci riferiamo soltanto ai livelli formali, quando osserviamo come sia gestito un servizio. Ma se osserviamo il lavoro concreto di trincea, c’è un fondo comune di esperienze nelle situazioni difficili molto più omogeneo di quanto possa sembrare, al di là delle idiosincrasie dei direttori di dipartimento, che di fatto, nella linea operativa, contano sempre meno, dato che lo spirito di gruppo che ha caratterizzato la seconda fase della psichiatria italiana, animata da una forte spinta motivazionale, è molto calato. Il lavoro di trincea va supportato perché è il luogo della competenza concreta dei processi decisionali. Questi sono problemi tecnici, e la contraddizione tra monoculture è una astrazione che nella pratica significa tutto e niente. Non si può certo rinunciare alla dimensione specialistica, quindi alla cultura di approfondimento. Se questa diventa organizzazione difensiva di barriere interprofessionali, implica problemi tecnici per evitare questa tendenza. Non si può quindi rinunciare alle monoculture, ma contemporaneamente bisogna evitare che diventino contrapposizione tra professionalità; questa è la funzione del lavoro di équipe. È importante, ad esempio, che lo psicologo metta la propria competenza al servizio dei tanti attori che operano nel campo della salute mentale, sacerdoti, operatori sociali di varia estrazione, piuttosto che rifugiarsi nell’angolo della psicoterapia. L’ambito della psicologia ha avuto, in conseguenza della legge56/1989, troppe risposte corporative che ancora proseguono e che oramai sono fuori dalla realtà.Infatti, dopo la ventata di “viva la psicoterapia”, con le decine di migliaia di psicoterapeuti riconosciuti, è comparsa nello scenario la figura del “pedagogista clinico”, con l’unica differenza che fa pagare l’IVA in fattura. In seguito, sono apparsi i counselor, che possono anche non essere laureati e che stanno organizzando apparati di aggregazione, prefigurando un’altra corporazione che si occupa di disagio mentale. Più di recente, si sono fatti avanti i “counselor filosofici” a far parte dell’organizzazione degli specialismi. Dopo il breve periodo in cui l’azione psichiatrica sembrava uno sforzo collettivo, si sono ristabilite le gerarchie professionali, mandando allo sbando la dinamica dell’équipe. Ad esempio, c’è un luogo della psichiatria italiana “avanzata” dove, dopo aver coinvolto il personale infermieristico nella pubblicizzazione dell’avanzamento della “nuova psichiatria”, è stata eliminata anche la stanza per le riunioni, mentre la leadership monetizzava il valore aggiunto della produzione culturale, con tutti i vantaggi tipici degli ambiti intellettuali.
Non c’è un modello specifico, nel nostro campo; non c’è “il” modello cui fare riferimento. È importante osservare le soluzioni, i processi decisionali che avvengono nel campo, renderli visibili e trasmissibili, renderli cultura operante. Si tratta di un patrimonio che rischia di andare in pensione. Mi ha insegnato a mettere i piedi sotto la testa di chi ha un attacco epilettico la caposala del Servizio di Igiene Mentale, non l’accademia. Questo patrimonio di esperienza è legato al territorio, si tratta in genere di persone autoctone che conoscono il territorio, soprattutto in piccole zone, conoscono le storie, dispongono della narrazione.
Non entro nel merito di altri problemi, ne avevo segnati molti. Intervengo solo sulla questione farmaci. Il problema non è l’uso dei farmaci ma la valutazione clinica della funzione dei sintomi come espressione dell’adattamento. Nel momento in cui lo strumento farmacologico impedisce il meccanismo di adattamento, viene limitata la mentalizzazione, la possibile elaborazione, per cui può aumentare il rischio di agiti distruttivi. Si possono così spiegare diversi episodi anche recenti. Ciò vale non soltanto in ambito psichiatrico, perché l’uso diffuso di sostanze psicoattive, a prescindere dal disturbo mentale, sostituisce alla elaborazione e regolazione delle emozioni, nel sistema di adattamento intrapsichico, l’uso di agenti chimici. La tendenza ad agiti aggressivi e violenti può aumentare, per cui bisogna fare molta attenzione all’uso calibrato degli indispensabili strumenti farmacologici, altrimenti la alleanza terapeutica o di lavoro, che ha una serie di implicazioni teoriche di grossa portata, non si potrebbe mai stabilire.
Circa la iniziativa di questi seminari preparatori, ritengo che il Ministero, e quindi il dottor Marco D’Alema, abbia organizzato un gruppo di lavoro che ha saputo coagulare delle forze, e fare proposte che, in prospettiva, è importante portare avanti e monitorare fin quando dura. Quello che è stato fatto ha di nuovo aggregato in Italia molte persone, in un processo che si spera irreversibile.Non sappiamo quanto il dottor D’Alema durerà, se rompe le scatole a qualcuno e gli revocano la nomina, anche questo è possibile. Di fatto ha promosso spinte di aggregazione, spinte che evitano la pseudoconflittualità e fanno sì che ciascuno possa assumere responsabilmente dentro di sé le polarità dei conflitti, elaborarle e rilanciarle in maniera propositiva.
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Whitehorn J.C. & Betz B.J. (1960). Further studies of the doctor as a crucial variable in the outcome of treatment with schizophrenic patients. American Journal of Psychiatry, 117: 215-223.
Nel presente contributo sono liberamente citati, con qualche modifica, passaggi di scritti dell’autore già pubblicati e ritenuti utili in questa occasione di riflessione.
*Relazione tenuta al VII SEMINARIO, Ministero della Salute, Roma, 11 luglio 2007
“La formazione continua nell’ambito della Salute Mentale. Il ruolo della ricerca-azione e i rapportiUniversità-territorio”