L’Oresteia di Theodorus Terzopoulos
“Un oceano che rischia di sommergerti”, così il regista greco Theodoros Terzopoulos ha definito la sfida di mettere in scena l’intera trilogia di Eschilo. Ma naturalmente è riuscito a domare le onde di questo caposaldo del teatro antico. Il Teatro Nazionale di Grecia gli ha dato carta bianca e dopo sei mesi di prove estenuanti la sua Oresteia con trenta interpreti è stata l’evento dell’estate teatrale: sold out nelle due serate di esordio a Epidauro e poi in tutte le tappe della lunga tournée nei teatri all’aperto in Grecia e a Cipro. Pubblico commosso, lunghi applausi, entusiasmo di critica.
C’era chi già lo aveva previsto con lungimiranza: Ermanna Montanari e Marco Martinelli alla direzione artistica del 77° e 78° Ciclo di Spettacoli Classici Promosso dal Comune di Vicenza, rassegna in collaborazione con l’Accademia Olimpica e la Biblioteca Bertoliana, hanno fortemente voluto la presenza del regista greco nell’edizione di quest’anno, intitolata “Coro” (nelle date del 20-21 settembre), omaggiando un gigante della regia contemporanea (la sua ultima presenza nel nostro Paese fu l’anno scorso con una rilettura particolare di Aspettando Godot di Beckett).
Al centro dei suoi lavori Terzopoulos pone il corpo e la ricerca di energie ancestrali che sondano la verticalità viscerale, per far riemergere il respiro del sacro, il respiro di Dioniso (si veda il libro di Andrea Porcheddu). Assistere a uno dei suoi spettacoli, soprattutto quando si tratta di tragedia antica, è un’esperienza perturbante, iniziatica, che dona il brivido del sacro e riempie di interrogativi.
Eravamo abituati a prove dense e concentrate, di altissima finitura estetica e simbolica all’insegna della sottrazione, dove la parola si spezzava in schegge che diventavano corpi (come mi diceva tempo fa in un’intervista). Questa volta Terzopoulos sceglie l’orizzonte lungo di tre ore e mezza e accanto ai suoi riconoscibili codici visivi, la sonorità del logos si dispiega in respiri più ampi e avvolgenti. All’inizio il pubblico italiano si sforza di seguire il flusso verbale del greco moderno (i sovratitoli scorrono in alto) ma è chiaro che il regista ci invita a una postura diversa. Dobbiamo deporre la razionalità testo-centrica che passa attraverso il tentativo di comprendere il logos. L’astrazione simbolica di ciò che vediamo in scena è il filtro per “sentire” l’evento teatrale oltre e al di là delle parole.
Lo spazio più adatto per la creazione teatrale, ha affermato più volte Terzopoulos, è il teatro all’aperto e senza alcun ausilio di tecnologia (salvo luci e sobrio commento musicale). Tutto cambia nello scenario ristretto del Teatro Olimpico di Vicenza, così ricco di marmi, orpelli, effetti visivi e spettacolari. La scena, leggermente rialzata per l’occasione, è occupata da un cerchio dove sono ben delineati alcuni diametri, linee su cui si muoveranno i personaggi: un cerchio-orchestra, che era lo spazio privilegiato del coro antico, perimetro del sacro e del rito. Geometria asettica e inquietante (tutt’intorno ci sono stracci macchiati di sangue) quella di Terzopoulos, che duetta per antifrasi con la fuga prospettica della città di Tebe ideata dall’architetto Scamozzi: il fronte razionale apollineo e rinascimentale assiste con stupore al caos dionisiaco che esplode nel cerchio magico dell’orchestra. Caos e ordine sono forze che coesistono.
Terzopoulos lamenta che l’Occidente ha razionalizzato il mito, riducendone la potenza oscura. Il suo teatro invece ricerca proprio quell’essenza, scava verso gli archetipi, che non sono mai pacificanti. Per non ridurre la storia degli Atridi a dramma borghese – la moglie uccide il marito per vendicare la figlia da lui uccisa e il figlio Oreste compie il matricidio per vendicare l’assassinio del padre – occorre recuperare il suo nucleo tragico, che Terzòpoulos fa emergere attraverso il Coro, protagonista assoluto. I ventidue giovani, gruppo coeso e allenato al “metodo”, sono sempre in scena, cittadini di quella polis arcaica ma con uno sguardo penetrante verso il futuro, un “noi” carico di una consapevolezza gravida di necessità. Lo si capisce fin dall’entrata: con passo solenne che batte la terra per evocarne l’energia ancestrale, sembrano emergere da antiche profondità, sono lì eppure sono protesi verso un altrove insondabile al quale ci guidano, occhi sbarrati che guardano oltre il presente, bocche aperte in uno spasmo di terrore e anche canale conduttore del respiro di Dioniso, coltello alla gola che è segnale di una morte onnipresente.
In un’intervista Terzopoulos ha infatti parlato di questo Coro come di inquietanti presenze di un mondo ctonio: sono i morti, i fantasmi dell’età antica riattivati dal rito teatrale. Saltano, strisciano, si dondolano ritmicamente, palpitano in scosse e vibrazioni, si piegano in contorsioni o si allungano in tensione, in coreografie che sfruttano la geometria, l’accordo coeso, l’ossessività della ripetizione: sono corpi che parlano un linguaggio ipnotico e “altro”, sprigionano un’energia solenne e terrificante.
Ad esempio torna più volte, scandito da una musica di sonorità sotterranee, la sequenza di gesti ripetitivi fino al parossismo, con cui i coreuti cercano di lavare via da viso, mani e braccia, tracce invisibili ma lancinanti del sangue versato nei passati delitti. Oppure il Guardiano (Tasos Dimas), inchiodato in un’attesa beckettiana del fuoco che annunci il ritorno dell’eroe, si colpisce ripetutamente nel tentativo di allontanare le mosche (citazione da Sartre), ossessione che rinvia all’orrore di ogni guerra inutile. È così che, spezzando la scorza di una riproduzione realistica, si penetra nel rito e nel sacro.Forte è infatti la differenza con gli altri caratteri, ad esempio Agamennone (Savvas Stroumbos), Clitemnestra (Sophia Hill), Egisto (David Malteze): arrogante il re, rigido come un soldatino di piombo assetato di sangue – di grande effetto la sua camminata sul tappeto di porpora, qui costituito dai corpi riversi del Coro: il potere avanza alla cieca (procede all’indietro) schiacciando la collettività dei cittadini o dei soldati; ironica e subdola la regina, nei gesti e soprattutto nelle variazioni tonali della voce; vanesio e sardonico il suo amante. Il pubblico greco ha amato molto il personaggio di Cassandra (Evelyn Assouad, di origini greco-siriane), la prigioniera asiatica che resta a lungo sdraiata su una pedana a testa in giù (per indicare il suo sguardo diverso, da straniera) e canta una straziante nenia in arabo, dolente richiamo dall’Oriente martoriato di ieri e di oggi.
Gli oggetti sono ridotti al minimo: coltelli e scuri, elastici rossi che legano mani e piedi (le pastoie della violenza), un velo-rete in cui la moglie avvolge il marito, un ventaglio rosso simbolo della civetteria della scalata al potere, gli anfibi che Cassandra porta appesi al suo corpo come carcasse vuote di profughi che non ci sono più, due secchi come un giogo di necessità.In un climax di tensione, si giunge all’ultima tragedia, Eumenidi, il perno di questo lavoro. Le Erinni non sono cagne invasate, scosse da isterismi epilettici, come abbiamo visto talvolta in altre riduzioni teatrali, sono sempre i ragazzi del Coro, che in un vortice inquieto si stringono fino ad avvinghiare Oreste, un’unità vibrante e policefala che rappresenta l’assedio dei rimorsi. Rivendicano una giustizia antica e terribile contro i crimini di sangue ma questa è l’epoca della svolta e a trionfare sono gli dèi giovani (olimpici, appunto, come il teatro che ci ospita) e soprattutto Atena, che manovra anche il burattino Apollo e presiede al processo dell’eroe: decide di assolvere Oreste dal matricidio e di trasformare le furiose Erinni in divinità benefiche, Eumenidi.
La dea, una statuaria Aglaia Pappà, è dispotica, usa una persuasione incantatoria e ingannevole: le sue parole piombano come macigni sulle Erinni, che crollano a terra, procedono sulle mani e si ritirano “nelle antiche cavità della terra”. L’insistenza è su quel kato (giù), che per Terzopoulos si connota in senso politico. Proprio mentre “dice” la democrazia, Atena esercita un potere violento su chi sta sotto. Nessun happy end, anzi: “Welcome to the new world”, tuona una voce registrata, che continua poi come in un telegiornale a sciorinare le cifre dei morti (in Ucraina, a Gaza, i migranti del mare) e degli utili in Borsa. Intanto il Coro è rifluito via; in scena resta un solo componente, figura dell’individuo, solo, smarrito, che si avvoltola in panni macchiati di sangue, vittima e complice lui stesso del macello. Lui come noi.
L’Atene di Eschilo con le sue nuove istituzioni suggellate dalla potenza della dea non è il miglior mondo possibile. È solo una fragile utopia di parole, perché segna invece l’inizio di una democrazia dell’élite, imperfetta già al suo nascere, gravida di ambiguità e che fornisce l’alibi per i massacri antichi e contemporanei. Eschilo lo aveva capito, e Terzopoulos potenzia la sua inquietudine, sollecitando lo spettatore a interrogarsi in senso “politico” sul ruolo di individuo e collettività. E il respiro di Dioniso si fa urlo.
Inizialmente pubblicato su paneacquaculture il 1° ottobre 2024 (https://www.paneacquaculture.net)