Antropologia del Natale
Che lo si accetti o rifiuti, chi di noi può dichiararsi immune al fascino di Natale? Natale è tempo d’incanto e di magia. Le luci che ravvivano le nostre città, le fiammelle che tremano, quella temporalità sospesa che stende sul negativo della vita un velo di oblio, quel segreto senso di nostalgia che s’insinua e riaccende il passato … tutto si presta all’idealizzazione e alla negazione, in un movimento che intreccia l’eccitazione “maniaca” della festa e la celebrazione di valori religiosi, la febbre del regalo e la ricerca di una dimensione di raccoglimento intimo, la rappresentazione di una famiglia unita nella festa intergenerazionale di cui il bambino è re e la realtà delle nuove famiglie a “geometria variabile”.
Indubbiamente Natale, che susciti attrazione o repulsione, resta una festa senza eguali nell’intero ciclo annuale delle feste. La sua diffusione negli ultimi decenni appare sempre più ampia, coinvolgendo luoghi lontanissimi tra loro e paesi che non sono cristiani né avevano tradizioni natalizie, penetrando perfino in Asia meridionale e nel mondo musulmano, unendo forza di sincretismo e capacità di sopravvivenza. Fenomeno globale, dunque, sostenuto in questo dalla macchina commerciale, ma anche rifugio di usanze locali e popolari molto specifiche: è uno dei suoi paradossi, come afferma l’antropologo Daniel Miller: una festa che tende “verso una globalità di simboli e di costumi” e che sembra “stranamente dotata di una forza sincretica illimitata” (Unwrapping Christmas, 1993).
In un libro intitolato Faut-il croire au Père Noël? (2010), l’etnologa Martyne Perrot propone un’analisi dove si coglie tutta la complessità antropologica nascosta nella celebrazione della festa e nella pratica instancabilmente ripetuta dello scambio natalizio dei doni. La festa di Natale è un’invenzione sociale: la nascita di Cristo, del tutto assente dalla liturgia e dai rituali dei primi cristiani, più interessati alla morte e alla resurrezione, si comincia a celebrare solo nel IV secolo e viene fissata in Oriente al 6 gennaio, in Occidente al 25 dicembre. Le due date in realtà sono quelle delle feste pagane di inizio anno e cambiamento di stagione. Il tempo che precede il solstizio d’inverno era occupato a Roma dai Saturnalia, le feste in onore di Saturno, dio della fertilità ma anche divinità ctonia. Il ciclo dei Saturnalia comprendeva almeno sette giorni, dal 17 al 23 dicembre, ed era legato al solstizio d’inverno e alla fine dell’anno: un momento di passaggio che, in quanto tale, comporta un pericolo da esorcizzare e governare ritualmente. A questi riti si sovrappose la religione cristiana, assorbendoli e modificandoli. Quando alla fine del regno di Costantino, intorno al 336 d. C., la data del 25 dicembre venne stabilita ufficialmente a Roma, la scelta rispondeva a un’esigenza politica. Esisteva già un culto, detto del sol invictus, cioè del sole non vinto: l’imperatore Aureliano l’aveva dichiarato religione ufficiale e consacrato il tempio del Sol invictus il 25 dicembre 274 nella festa detta Dies Natalis Solis invicti, “Giorno di nascita del Sole invitto”. La festa si innestava, concludendola, sui Saturnalia e celebrava la vittoria della luce risorgente dopo il buio dei mesi invernali. Aureliano, presentandosi come incarnazione vivente del dio sole, aveva reso sacro il potere politico. Un altro culto, quello del dio Mitra, giocava però un ruolo importante nell’armata e nell’aristocrazia. Mitra, eroe primordiale importato dall’Asia minore, era a sua volta un dio salvatore e portatore di luce, nato da una roccia o forse in una grotta. Il culto di Mitra rappresentava una seria concorrenza per le prime comunità cristiane. Costantino decise di unire il culto del sol invictus, il culto di Mitra e il cristianesimo, facendo così coincidere la festa della natività cristiana con quella pagana della nascita del Sol invictus: in tal modo, riconoscendo il dominio di un unico dio sul mondo, legittimava il dominio che egli stesso esercitava sul mondo romano.
In questa Roma del IV secolo rappresentazioni pagane e cristiane convivono ancora pacificamente. I motivi solari restano sempre molto presenti e la Chiesa di Roma si appropria di questo simbolismo della luce. Il mausoleo di Iulii, scoperto sotto la basilica di san Pietro, mostra il Cristo su fondo oro nelle vesti del sole che guida la sua quadriga (tomba del Cristo Sole). E la nascita di un bambino di luce, che è al centro delle feste pagane del solstizio d’inverno, si ritrova nella profezia di Isaia sull’Epifania del Messia, dove “il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce, una luce ha illuminato gli abitanti della terra oscura” (Isaia, IX, 1-2). La luce brilla, la gioia esplode perché “un bambino è nato, ci è dato un figlio” (Isaia, IX, 5).
A partire dal 379, Roma impone la festa della Natività in tutto l'Impero. Il sacerdote Gregorio Nazianzeno la introduce a Costantinopoli e Giovanni Crisostomo, in un famoso sermone tenuto il 20 dicembre 386 ad Antiochia, esorta i fedeli a celebrare la nascita di Cristo cinque giorni dopo. Tuttavia, le comunità cristiane d'Oriente manterranno la data del 6 gennaio. Dal punto di vista del calendario, è nel 525 che il canonista Dionigi il piccolo decide arbitrariamente che la nascita di Gesù è l'Anno I dei calendari e la fissa all'anno 754 della fondazione di Roma. Recenti scoperte astronomiche attribuiscono a questa data un ritardo di soli sei anni. Data sincretica per eccellenza, Mircea Eliade la definisce “giorno di nascita di tutte le divinità orientali”.
Così è nato Natale, festa cristiana dell’incarnazione fissata alla mezzanotte del 24 dicembre, il cui simbolo cristiano di speranza si è sostituito a quello pagano della luce che si rinnova. Ogni popolo convertito contribuisce ad arricchire la sua “tradizione”: la Persia dà i suoi re magi, l’Egitto i pastori e la dea madre (Isis), Roma l’eroe luminoso e redentore (sol invictus). Natale continua a integrare costumi e simboli. Nella sua versione recente e profana, deve al Nord dell’Europa e ai Sassoni la neve, l’abete e le figure distributrici di doni che hanno preceduto Babbo Natale.
Se Natale affonda le sue radici nell’antichità, la forma attuale della festa e dei suoi rituali è un’invenzione recente e rivela all’indagine etnografica la sua natura di costruzione sociale che muta col mutare delle società e dei costumi.
Martyne Perrot sostiene che si costruisce nella seconda metà del XIX secolo, contemporaneamente all’emergere della borghesia che, attraverso questa celebrazione, rende omaggio ai propri membri e rinnova periodicamente l’adesione ai suoi valori. Così la festa da religiosa diventa progressivamente una festa profana a forte connotazione familiare. Nello stesso periodo si inventa anche il regalo natalizio: storia recente, ma, ancora una volta, erede di un passato antico. A Roma, alle calende di gennaio si svolgevano le strenae, feste del nuovo anno legate alla dea della salute Strenia Da qui nasce la parola “strenne”, che persiste nel lessico natalizio finché non verrà soppiantata dal “regalo di Natale”.
Le strenne hanno una particolarità poco comune nel mondo degli oggetti: cadono dal cielo. Questa origine sovrannaturale rinvia a un mondo leggendario, quello in cui, nel pericoloso periodo del solstizio d’inverno, le frontiere tra il mondo dei vivi e dei morti si fanno più labili e i morti tornano a minacciare i vivi, come attestano il folklore e le credenze popolari. La dimensione magica non scoraggia le nuove cattedrali del commercio, i grandi magazzini, che a metà del XIX secolo nascono in Inghilterra, in Francia, in Germania, in America. Il regalo di Natale accompagna l’emergere e il consolidarsi dei nuovi valori borghesi, con l’importanza che acquisiscono la relazione con i bambini e la loro educazione.
Né bisogna dimenticare il ruolo giocato dalla letteratura. Il celebre racconto romantico di Hoffmann, Lo schiaccianoci e il re dei topi (1816), prodotto dei salotti letterari berlinesi, ristampato in innumerevoli antologie e trasformato in balletto da P. Ciajkovskij nel 1892, segna “un momento chiave nell'avvento della festa moderna”. Hoffmann apre “la strada all'espressione sentimentale dell'intimità familiare, della nostalgia infantile, dell'amore romantico e dell'amicizia”. C. Dickens celebrerà la compassione e l’armonia sociale. Il Racconto di Natale fu un successo immediato e clamoroso, in Inghilterra ma anche in Francia e in America. Subito dopo la sua pubblicazione, Dickens ne diede molte letture pubbliche, alle quali parteciparono folle appassionate e commosse. A Birmingham, 1.700 persone sfidarono una tempesta di neve per venire a sentirlo. La seconda lettura attirò 2.000 lavoratori al Birmingham and Midland Institute. L'interesse di Dickens per l'educazione della classe operaia fu soddisfatto. All'estero, i suoi “tour” furono altrettanto trionfali. Uno dei biografi, Fred Kaplan, racconta che nel 1866 un ricco industriale di Boston fu talmente turbato da una delle sue famose letture che dichiarò il 25 dicembre giorno festivo e, l'anno successivo, decise di regalare un tacchino di Natale a ciascuno dei suoi operai. A Parigi, nel 1856 e di nuovo nel 1863, la barriera linguistica non scoraggiò i parigini. Ammassati davanti all'ambasciata britannica, applaudirono lungo tutta la rue Saint-Honoré. Più della critica sociale che attraversa il racconto, fu l'evocazione di quello “spirito natalizio” di carità, compassione e felicità familiare a decretarne il successo. L’immagine antitetica dell’infanzia abbandonata durante la notte di Natale sarà messa in scena da Victor Hugo (I miserabili), Hector Malot (Senza famiglia), Hans Cristian Andersen (La piccola fiammiferaia).
Da allora il commercio, la pubblicità, la stampa, prendono il sopravvento. E se in Inghilterra e negli Stati Uniti fin dal 1820 le banche creano dei “Christmas clubs” che permettono di accumulare risparmi per gli acquisti di Natale, in Europa la febbre dei regali è più tardiva. Si impone con l’arrivo di Santa Claus all’indomani della Guerra, nell’epoca del piano Marshall, del baby-boom e della speranza in un mondo pacifico e prospero. La frenesia cattura le città europee, le vetrine si illuminano, nelle piazze scintillano gli abeti decorati. Questo entusiasmo per il Natale non si esaurirà, anche in tempo di crisi. Anche qui, tuttavia, lo sguardo antropologico permette la necessaria profondità. “Non ironizziamo, ha scritto Lévi-Strauss, su questa grande fiera annuale dove fiori, dolci, cravatte e vignette illustrate non fanno altro che cambiare di mano; in questa occasione e con questi umili mezzi, la società nel suo insieme prende coscienza della sua natura: la mutualità” (Claude Lévi-Strauss, 1955). Lo scambio di doni è un grande “potlatch”, cerimonia della società contemporanea legata ai tre obblighi di dare, ricevere e restituire, secondo il principio di reciprocità. Solo il bambino, re della festa, sfugge a questo obbligo: egli ignora da dove vengano i regali e la figura di Babbo Natale resta per lui avvolta dal mistero, contribuendo all’incanto della festa.
“In Europa, il Natale è una festa dell'abbondanza nel cuore dell'inverno, durante quei “mesi bui” in cui la natura è inattiva. Per questo motivo, i primi regali scambiati furono, e in parte restano ancora oggi, alimentari. Frutta secca, nocciole, mandorle, dolci e torte, tra cui il famoso panpepato in Alsazia, erano doni offerti a tutti, soprattutto ai poveri e ai malati. Lo testimonia un manoscritto del 1412 conservato negli archivi dell'ospedale di Strasburgo: “Per Natale”, si legge, “si deve dare un panpepato grande o due piccoli a ogni malato di lebbra”. Tuttavia, come spiega Conrad Dangkrotzheim nel 1435 nel suo libro Das heiligen Nambuoch, essi venivano scambiati anche tra adulti. Questi due testi associano i prodotti del raccolto autunnale a “simboli di fertilità cosmica”, ma anche a “doni funerari in relazione al mondo degli spiriti, degli invisibili, che si aggirano nelle case e sono i garanti del rinnovamento della natura”". (M. Perrot)
A partire dal XVI secolo, questi doni, quando sono offerti ai bambini dalla famiglia e all'interno di essa, fanno appello a figure create dall'immaginario, da credenze pagane o religiose. Nonostante la loro varietà, è possibile, come suggerisce Nadine Cretin, classificare questi personaggi in tre gruppi principali: santi e figure bibliche, fate e streghe, vecchi. Queste creature, diverse a seconda della regione o del paese europeo in cui compaiono, condividono però una serie di tratti essenziali: la vecchiaia, la generosità, la capacità di viaggiare nell'aria, un animale compagno (asino, renna, cavallo alato), la benevolenza e il suo doppio maligno (spauracchio, uomo nero), il mistero delle origini e quello delle apparizioni notturne. Come ha fatto Babbo Natale a diventare l'ultimo avatar di questi molteplici personaggi, nati nella grande notte dell'inverno occidentale?
Resta difficile stabilire legami certi tra queste diverse figure. È tuttavia possibile tracciare la diffusione di alcuni motivi. Gli storici, i folkloristi e gli antropologi che si sono cimentati in questa impresa concordano su alcuni punti. San Nicola è uno di questi. Appare a tutti come una delle figure principali tra i dispensatori di doni. Dietro San Nicola si cela tutto un corteo di figure ancestrali, magiche e precristiane: fate, spauracchi, diavoli, streghe, santi dell'Asia Minore, divinità antiche e celtiche e altri personaggi medievali che, all'inizio del XIX secolo, si fondono o scompaiono a favore di un moderno Babbo Natale. Le migrazioni europee verso il Nuovo Mondo daranno inizio all’epopea americana, fatta di racconti, lotte politiche e religiose, testi di scrittori, immagini inventate dagli illustratori. Così l’olandese SinterKlaas diviene Santa Claus, la cui popolarità cresce a velocità vertiginosa, fino a che, strumento ormai di promozione commerciale, riceve la definitiva consacrazione dalla Coca Cola: nel 1931, desiderosa di allargare il suo mercato verso il pubblico più giovane, la Company chiede a Haddon Sundblom, un artista svedese, di utilizzare Santa Claus come argomento di vendita: il vecchio dal volto rubicondo, grasso e con la barba, vestito dei colori rosso e bianco e carico di doni, fissa allora e in via definitiva l’iconografia contemporanea a diffusione planetaria.
Tratto da J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, 1973, Vol. II, pp. 561-562
Fra gli dei di origine orientale che, al declinare del mondo antico, lottarono tra loro per ottenere l’omaggio dell’Occidente vi era l’antica divinità persiana Mitra. L’immensa popolarità del suo culto è attestata da monumenti rinvenuti in gran quantità in tutto l’Impero romano. Tanto per le dottrine che per i riti, il culto di Mitra sembra aver presentato molti punti di somiglianza non solamente con la religione della madre degli dei, ma anche con il cristianesimo. Questa somiglianza colpì gli stessi dottori cristiani, i quali la spiegavano come opera del diavolo, intesa a stornare le anime dalla vera fede con falsi insidiosi miraggi della fede stessa. È così che i conquistatori spagnoli del Messico e del Perù consideravano la maggior parte dei riti pagani di quei paesi come contraffazioni diaboliche dei sacramenti cristiani. Con maggiore verosimiglianza lo studioso moderno delle religioni comparate, spiegherà queste analogie con il lavorio indipendente, ma simile, dello spirito umano nel suo primitivo sincero sforzo di sondare i segreti dell’universo e di adattare la sua piccola esistenza ai suoi tremendi misteri. Comunque sia, non v’è dubbio che la religione di Mitra è stata per la religione cristiana una formidabile rivale, poiché essa univa un rito solenne ad aspirazioni di purità morale e a una speranza di immortalità. Il risultato del conflitto fra le due religioni sembra sia stato per molto tempo sospeso in bilico.
Un resto istruttivo della lunga lotta si conserva ancora nella nostra festa di Natale che la Chiesa sembra aver preso direttamente in prestito dalla sua rivale pagana. Nel calendario giuliano, il 25 dicembre, riconosciuto come il solstizio d’inverno, era considerato come la nascita del sole, perché a partire da quella data i giorni cominciano ad allungarsi e la potenza del sole ad aumentare. Il rito della Natività come si celebrava in Siria e in Egitto, era notevole. I celebranti si ritiravano in certi santuari interni da cui a mezzanotte uscivano gridando: «La Vergine ha partorito! La luce cresce!» Gli Egizi rappresentavano il sole appena nato con l’immagine di un infante che mostravano ai suoi adoratori, nel giorno del suo anniversario, al solstizio d’inverno. Senza dubbio la vergine che aveva così concepito e messo alla luce un figlio il 25 dicembre era la grande dea orientale che i Semiti chiamavano la Vergine Celeste o semplicemente la Dea Celeste. Nei paesi semitici essa era una forma di Astarte. Ora Mitra veniva dai suoi adoratori regolarmente identificato con il sole, il sole invincibile, come essi lo chiamavano; anche la sua nascita aveva luogo il 25 dicembre. I Vangeli non ci dicono nulla sul giorno della nascita di Cristo e anche la Chiesa primitiva non la celebrava. Col tempo tuttavia i cristiani d’Egitto cominciarono a considerare il 6 gennaio come data della natività, e l’usanza di celebrare la nascita del Salvatore in quel giorno si diffuse gradualmente sinché, nel secolo IV, fu universalmente stabilita in Oriente. Ma alla fine del III o al principio del IV secolo la Chiesa d’Occidente, che non aveva mai riconosciuto il 6 gennaio come il giorno della natività, adottò come vera data il 25 dicembre e più tardi la sua decisione fu accettata anche dalla Chiesa d’Oriente. Ad Antiochia il cambiamento non fu introdotto prima dell’anno 375 della nostra era.
Quali considerazioni portarono le autorità ecclesiastiche a istituire la festa di Natale? Uno scrittore siriaco, cristiano egli stesso, spiega con grande franchezza i motivi dell’innovazione. «Ecco la ragione – egli ci dice – per la quale i Padri trasportarono la celebrazione del 6 gennaio al 25 dicembre. Era un uso pagano di celebrare lo stesso 25 dicembre la nascita del sole a cui essi
accendevano dei fuochi in segno di festa. Anche i cristiani prendevano parte a queste solennità e a queste feste. Quando i dottori della Chiesa si accorsero che i cristiani avevano una certa inclinazione per questa festa, tennero consiglio e decisero che la vera natività dovesse essere solennizzata in quel giorno e la festa dell’Epifania il 6 gennaio. Per questo ha sopravvissuto insieme a questo costume l’usanza di accendere dei fuochi fino al giorno 6.» Sant’Agostino, se non l’ammette tacitamente, fa in ogni caso un’allusione all’origine pagana del Natale, quando esorta i suoi fratelli cristiani a non celebrare, in quel solenne giorno, il sole, come facevano i pagani, ma a celebrare colui che creò il sole. Anche Leone Magno biasimava il funesto errore per il quale si credeva di celebrare il Natale come la natività del nuovo sole e non come la natività di Cristo.
Appare così che la Chiesa cristiana decise di celebrare l’anniversario del suo fondatore il 25 dicembre, per togliere al sole le adorazioni dei pagani e farle invece innalzare a colui che era chiamato il sole della giustizia.
[…]
Le coincidenze delle feste cristiane con quelle pagane, considerate nel loro insieme, sono troppo precise e troppo numerose perché siano dovute al caso. Esse dimostrano il compromesso che la Chiesa, nell’ora del suo trionfo, fu forzata a fare coi suoi rivali, vinti sì, ma ancora pericolosi. L’inflessibile protestantesimo dei primi missionari, con la loro ardente condanna del paganesimo, aveva ceduto il posto all’agile politica, alla facile tolleranza, alla larga carità di ecclesiastici opportunistici, i quali si accorsero chiaramente che se il cristianesimo voleva conquistare il mondo, ci sarebbe riuscito soltanto allentando i princìpi troppo rigidi del suo fondatore, e allargando un poco la stretta porta che conduce alla salute.
Tratto da Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, 1983, pp. 588-589
Il Tempo Cronologico, , la "danza delle stelle", come lo chiamava Platone, non era una semplice misura angolare, un ricettacolo vuoto, com'è diventato ora, per contenere la cosiddetta storia 8cioè quelle sorprese paurose e senza senso che la gente si è rassegnata a chiamare fait accompli). Si pensava che esso fosse abbastanza possente da esercitare un controllo inflessibile sugli eventi, plasmandoli alle proprie sequenze in un sistema cosmico dove passato e futuro si chiamavano l'un l'altro, da profondità a profondità. Maestosa e tremenda, la Misura ripeteva e riecheggiava la struttura in molti modi, scandiva il Tempo, era fonte delle inesorabili decisioni che determinavano la "scadenza" di un dato istante.
[...]
Gli uomini hanno imparato a rispettarla senza pensarci. Ancora oggi, nel celebrare il Natale, si invoca il dono impareggiabile di quel tempo ciclico - il dono di non essere nella storia, il suo aprirsi nel senza tempo, la sua virtù di delineare tutto quanto se stesso in un presente vitale, pregno di vosi ancestrali, di oracoli e riti del passato. Con quel tanto di sincerità loro rimasta, gli uomini invocano la remissione di antichi peccati e la rinascita dell'Anima, così come si faceva molti millenni fa. Si implora da quel Tempo la rinnovata forza per continuare a vivere a dispetto di una realtà senza senso - e si chiede ancora ai figli di venire in soccorso alla propria incredulità.