13 gennaio 2024

Hannah Arendt e il sogno di una federazione post-nazionale e post-coloniale.

Octave Lamargnac-Matheron
Prima parte

La versione originale dell’articolo, in lingua francese, è stata pubblicata da Philomag il 23 ottobre 2023 e si può leggere online all’indirizzo.

La traduzione è di Angela Peduto, che ha curato la breve ricostruzione storica (in corsivo) e le note di approfondimento. Le citazioni presenti nel testo sono tutte tratte da H. Arendt, Ebraismo e modernità, ed. Feltrinelli, 1993. Le immagini sono tratte da Wikimedia Commons ed Europeana.

Dalla critica al sionismo (1940) alla vittoria di Israele (1948)

Se c'è una filosofa che ha mantenuto un rapporto complesso con lo Stato di Israele e la questione palestinese, è senza dubbio Hannah Arendt. Ebrea critica nei confronti delle organizzazioni ebraiche, che accusò di complicità con la Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale, la Arendt si volge a Israele con un misto di solidarietà e di forte inquietudine. È entusiasta della creazione in Palestina di un "focolare nazionale ebraico" e a Parigi, negli anni Trenta, si occuperà del trasferimento di bambini ebrei nella "Terra promessa": sarà l’occasione per recarvisi una prima volta nel 1935. Ma guarda con sospetto alla trasformazione di questo nucleo di innovazione sociale e politica in uno Stato nazionale, avviato ad una guerra senza fine con i suoi vicini arabi. Nel 1961 torna nella Palestina israeliana per seguire il processo ad Adolf Eichmann: pur approvando il rapimento del dignitario nazista, contesta abbastanza apertamente l’utilizzazione del processo come strumento di coesione nazionale, in un momento in cui il giovane Stato ebraico cerca di consolidare la propria posizione. "Il processo riguarda le sue azioni [di Eichmann], non le sofferenze degli ebrei; non riguarda il popolo tedesco o l'umanità e nemmeno l'antisemitismo e il razzismo”. Tuttavia, quando il conflitto con il mondo arabo si andrà intensificando, la stessa filosofa si lascerà talvolta conquistare da una forma di preoccupato patriottismo. Soffermiamoci su un percorso intellettuale ed esistenziale ricco di sfumature.

Anni 1940: esame del sionismo

Alla fine del XIX secolo emerse un movimento sionista che sosteneva la necessità di uno Stato ebraico. In risposta all’inasprirsi dell’antisemitismo in Europa orientale e all’affare Dreyfus in Francia, Theodor Herzl, il suo principale rappresentante, organizzò il Congresso di Basilea (1897), dove furono tracciate le linee programmatiche del movimento. Si evidenziarono tre tendenze: la prima, pratica, vedeva nella colonizzazione agricola della Palestina il mezzo per restituire agli Ebrei la loro dignità umana e per far valere in futuro effettivi diritti sul territorio; la seconda tendenza, etico-religiosa, si batteva per un ritorno alla tradizione e la rinascita di uno spirito nazionale e dei valori culturali e religiosi dell’ebraismo; infine la tendenza politica mirava a ottenere la concessione di una ‘carta’ internazionale che autorizzasse e tutelasse l’immigrazione ebraica in Palestina. Nel 1901 fu istituito il Qeren qayyemeth le Yiśrā’ĕl (“Fondo permanente per Israele”, noto come Fondo nazionale ebraico), il cui scopo era acquistare terreni in Palestina.

Attraverso ondate successive di immigrazione (Aliyot) decine di migliaia di Ebrei europei arrivarono in Palestina. Tra il 1881 e il 1914 affluirono dall’Europa orientale, dallo Yemen, dalla Russia. L’immigrazione si fermò con la Prima Guerra mondiale.

La fine della Prima Guerra mondiale, con la sconfitta degli ottomani, portò all’istituzione del mandato britannico sulla Palestina. Nel novembre 1917, con la dichiarazione Balfour, il governo britannico aveva preso posizione, dichiarandosi favorevole alla creazione in Palestina di “una dimora nazionale per il popolo ebraico”, allora parte dell’impero ottomano. La dichiarazione sarà inserita nello statuto del mandato assegnato dalla Società delle Nazioni al Regno Unito, punto di partenza per quella vasta azione politica, economica, colonizzatrice e militare che porterà alla costituzione dello Stato di Israele. Dopo il 1922 si costituisce un esecutivo sionista in Palestina, nel 1925 a Gerusalemme viene inaugurata l’Università ebraica, mentre proseguono le aliyah, sostenute da ingenti finanziamenti provenienti dalla Jewish Agency. Esse incontrano una crescente ostilità da parte delle popolazioni arabe, culminanti nello scoppio di episodi di violenza contro gli inglesi e contro la comunità ebraica.  

Negli anni trenta l’ascesa del nazismo e l’inizio delle persecuzioni razziali portano a un esodo di massa verso la Palestina. In questi anni la politica britannica tende a frenare l’immigrazione, cosicché si sviluppa un’immigrazione clandestina. Nel 1939 il Libro bianco di Malcolm MacDonald rappresenta la risposta britannica alla grande rivolta della popolazione araba di Palestina: viene limitata la vendita di nuove terre agli ebrei, come pure il flusso di persone, affinché la popolazione ebraica non superi il terzo della popolazione complessiva del Paese. Inoltre viene formulato un progetto di Stato unitario e indipendente, da realizzarsi in dieci anni, che “dovrà garantire una condivisione del governo tra arabi ed ebrei tale che siano salvaguardati gli interessi essenziali di entrambe le comunità”.

Queste decisioni, già anticipate con i precedenti Libri bianchi del 1920 e del 1930, non placano l’opposizione araba e suscitano reazioni di forte contrarietà politica da parte delle istituzioni sioniste ufficiali.

Nel maggio del 1942 centinaia di sionisti americani si riuniscono all’Hotel Biltmore di New York e Ben Gurion fa approvare il programma che impegna il movimento sionista a creare un commonwealth o entità politica alla fine del conflitto. (NdT)

La riflessione di Hannah Arendt sulla questione israelo-palestinese è indissociabile dalla sua riflessione sul sionismo. Nato nel XIX° secolo, il sionismo segna per  lei una svolta nella storia ebraica, “qualcosa di nuovo e assolutamente rivoluzionario”: alla rassegnazione, all’accettazione del dolore dell’erranza infinita si sostituisce “il desiderio di fare qualcosa del problema ebraico”, “la volontà di agire e di risolvere questo problema”. Si trattava, per il giudaismo, di politicizzare la propria esistenza.

Questo grande movimento fu plurale fin dall’origine. Arendt identifica grosso modo due grandi tendenze: da un lato, quella rappresentata da Theodor Herzl (1860-1904) e dal giudaismo dell’Europa occidentale.

L’obiettivo di Herzl è di farla finita con l’antisemitismo. Ai suoi occhi, l’antisemitismo è innanzitutto una reazione delle altre nazioni alla presenza diasporica degli ebrei. La soluzione si impone allora quasi meccanicamente: occorre “trasformare gli ebrei in una nazione come le altre”. Il modello al quale Herzl si riferisce – che è in definitiva il modello di riferimento della sua epoca – è quello dello Stato-nazione, ripiegato su sé stesso in una forma di isolamento immunitario rispetto agli altri. “La realtà non poteva esprimersi in una forma diversa da quella dello Stato-nazione”: i fondamenti del sionismo venivano posti in un’epoca nella quale nessuno poteva immaginare una soluzione ai problemi delle minoranze o delle nazionalità che non fosse uno Stato-nazione autonomo con una popolazione omogenea. Per Herzl solo in questo modo l’antisemitismo sparirà. Occorre “trovare un luogo nella struttura eterna e immutabile della realtà”, la realtà dei “popoli organizzati in corpi immutabili”, “dove gli ebrei saranno al riparo dall’odio e dalla persecuzione”: “Un popolo senza un paese potrebbe rifugiarsi in un paese senza un popolo, dove gli ebrei potrebbero sviluppare il proprio isolato organismo”. “La soluzione di Herzl al problema ebraico consisteva, in ultima analisi, nella fuga, ovvero nel mettersi in salvo in una patria”; ma così facendo Herzl sognava “una fuga dal mondo”. Evidentemente, ed è per lei il punto cruciale, “il paese che sognava non esisteva, non c’era un posto sulla terra in cui un popolo potesse vivere come l’organismo nazionale che egli aveva in mente”. “Qualsiasi cosa possa essere, la Palestina non è un luogo in cui gli ebrei possano vivere isolati, né una terra promessa dove potrebbero essere al sicuro dall’antisemitismo”. La corrente nazionalista del giudaismo lo ignorerà: Arendt sottolinea il “rischio di condurre ancora una volta gli ebrei fuori dalla realtà”.

E, di fronte alla realtà, tenace, di un antisemitismo che non era evidentemente scomparso con l’avvento dello Stato di Israele, la filosofa presagiva una reazione epidermica, un irrigidimento nazionalistico come conseguenza di questa cecità: “Alcuni leader sionisti pretendono di credere che gli ebrei possano rimanere in Palestina nonostante l’opposizione del mondo intero e credono di poter essi stessi perseverare nella rivendicazione di tutto o nulla contro tutti e contro tutto […] Dietro questo falso ottimismo, comunque,  si celano un’assoluta disperazione e un’autentica disposizione al suicidio”[1].

Accanto a questo sionismo nazionalista si disegnava una nebulosa antinazionalista. Formata principalmente dagli ebrei dell’Europa orientale, quelli che per primi partirono verso la Palestina, questa corrente è spesso improntata ad idee socialiste. Si accorda di più con la “tendenza costante della tradizione ebrea, estranea al nazionalismo: l’universalismo, la prevalenza del sapere e la passione per la giustizia”. Il suo obiettivo, in Palestina, è utopico: si radica nel “desiderio di costruire un nuovo tipo di società, dove non esisterebbe più lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo”, una “società fondata sulla giustizia, sull’uguaglianza e l’indifferenza al profitto”. Questo movimento plurale “vedeva nella Palestina un centro di cultura ebraica che avrebbe ispirato lo sviluppo spirituale di tutti gli ebrei degli altri paesi, ma senza che fossero necessarie l’omogeneità etnica e la sovranità nazionale”. Questo sogno utopico ha avuto due grandi realizzazioni che per Arendt possono essere fonti di “fierezza nazionale”: da un lato l’Università, dall’altro i kibboutzim, dove una fertile inventività generò forme sociali e politiche nuove. Senza questo “potente fermento rivoluzionario” non sarebbe stato possibile lavorare nemmeno “un palmo di terra”.

1942-44: il programma di Biltmore e il congresso di Atlantic City

Finita la guerra, è sempre più chiara l’ingovernabilità della Palestina, in preda ormai a una vera e propria guerra civile. L’immigrazione ebraica dopo la Shoah è stata inarrestabile e la contrapposizione con le popolazioni locali sempre più violenta.

Nel 1947 la Gran Bretagna annuncia la fine del suo mandato rimettendo la soluzione della questione palestinese nelle mani delle Nazioni Unite. Un Comitato speciale per la Palestina dell’ONU elabora un piano di spartizione territoriale. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approva con una maggioranza di due terzi il piano, che prevede la spartizione della Palestina occidentale in uno Stato ebraico e in uno arabo, mentre Gerusalemme rimarrebbe sotto il controllo ONU. Il piano è accettato dagli ebrei, ma respinto dagli arabi: così, mentre la rivolta araba cresce, i sionisti preparano la nascita di Israele.

Alla vigilia della scadenza del mandato britannico, il 14 maggio 1948, Ben Gurion, leader del movimento sionista, proclama la fondazione dello Stato di Israele. Il 15 maggio gli Stati coalizzati di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania lo attaccano da tutti i fronti. Vengono respinti e Israele contrattacca, occupando centinaia di città e villaggi. La guerra si conclude l’anno seguente, dopo vari armistizi. L’esodo forzato della popolazione fa parte della memoria storica degli arabi e viene ricordato ogni anno il 15 maggio: è la nakba, letteralmente “catastrofe”. Più di 700.000 arabi palestinesi abbandonarono città e villaggi distrutti o ne vennero espulsi con la violenza e, successivamente, fu loro rifiutato ogni diritto di tornare nelle proprie terre, malgrado la risoluzione 194 emessa dall’ONU alla fine del 1948. Inizia qui il dramma, mai sanato e mai risolto, dei profughi palestinesi. Nel 2023 l’ONU ha ufficialmente e per la prima volta nella sua storia commemorato la Nakba. Considerata l’importanza capitale di questi eventi e le controverse interpretazioni che ne vengono date, si rinvia agli opportuni approfondimenti [2].  (NdT)

Tra il 1942 e il 1944 Arendt guarda con inquietudine alla radicalizzazione delle posizioni sioniste, sempre più impregnate di una visione nazionalista e incapaci di “ricordare e ancora ricordare che la sola realtà permanente in tutta questa situazione era la presenza degli arabi in Palestina”, presenza incancellabile a meno di non creare uno “Stato totalitario”. I sionisti hanno “fatto di tutto per minimizzare la questione araba”, per fare come se essa non esistesse. “I dirigenti sionisti erano così occupati dal pensiero che il popolo senza un paese avesse bisogno di un paese vergine di ogni popolo che semplicemente dimenticavano l’esistenza delle popolazioni locali”. Col programma di Biltmore, messo a punto nel 1942 da seicento delegati del movimento sionista internazionale, si afferma la volontà di un Commonwealth ebreo comprendente tutta la Palestina, in seno al quale gli arabi, benché demograficamente maggioritari, sarebbero stati giuridicamente una minoranza. Con la risoluzione di Atlantic City, presa durante la Conferenza straordinaria di guerra dal Congresso mondiale ebreo, la posizione degli arabi dentro lo Stato ebreo non è nemmeno menzionata. I “revisionisti”, la tendenza più nazionalista, cominciano ad esprimere apertamente l’idea di uno “spostamento di tutti gli arabi della Palestina” nei paesi limitrofi. Per Arendt è chiaro che, con questo genere di discorsi, “i sionisti hanno perso per molto tempo a venire ogni possibilità di trattativa con gli arabi”. Ma anche in loco, nei loro insediamenti in Palestina, i socialisti, col loro utopismo concreto, occultano il problema. “L’esistenza effettiva degli arabi nemmeno li sfiorava […] I pionieri si contentavano della piccola sfera all’interno della quale potevano realizzare i propri ideali”. In definitiva, la questione araba restava “la questione nascosta della politica sionista”.

La fine del mandato britannico in Palestina e la proclamazione dello Stato di Israele (1948) cambierà evidentemente le carte. Innanzitutto, nota Arendt, le due parti rimangono su posizioni fondamentalmente inconciliabili. Gli ebrei si appellano alla “decisione originaria delle Nazioni Unite” – la divisione della Palestina in due Stati. Al tempo stesso riaffermano la loro presenza storica in Terra Santa per rinforzare le proprie rivendicazioni. Gli arabi, da parte loro, rivendicano il “diritto morale di attenersi al principio di autodeterminazione stabilito dalla Lega delle Nazioni, secondo il quale la Palestina dovrebbe essere governata dall’attuale maggioranza araba, mentre agli ebrei dovrebbero essere garantiti i diritti della minoranza”. Da quel momento la situazione è di contrapposizione apparentemente insuperabile e questo non potrà che condurre al confronto bellico. Riferendosi al massiccio esodo delle popolazioni locali, Arendt dichiara che “gli arabi hanno deciso di evacuare intere città e villaggi, piuttosto che rimanere nel territorio occupato dagli ebrei”.

Con l’evacuazione di Haifa e Tiberiade, per lei uno degli eventi più significativi della guerra del 1948, i leader arabi “colpivano i luoghi dove le relazioni di vicinato tra arabi ed ebrei non erano ancora del tutto distrutti; con ciò puntavano ad eccitare la collera degli arabi per impedire ai leader ebrei di cedere alla tentazione di un negoziato [3]”. Israele, da parte sua, si concepiva sempre più come una “piccola isola circondata da un mare di arabi” minacciosi.

La conseguenza di questo antagonismo non poteva essere che “l’ascesa al potere di gruppi terroristi”, avidi di battaglie, il che si produsse da entrambe le parti. “Le ultime settimane di guerriglia avrebbero dovuto mostrare agli ebrei e agli arabi quanto la guerra in cui si sono impegnati si prospetti costosa e distruttiva […] Se si tiene conto degli interessi vitali oggettivi dei popoli arabo ed ebraico […] l’attuale desiderio di entrambi i popoli di combattere ad ogni costo e fino in fondo non può essere che pura e semplice irrazionalità”. E tuttavia, questa evidenza, che dovrebbe invitare al compromesso, a dispetto di ogni buon senso non produce nessun cambiamento.

1947: bilancio della vita in Palestina sotto mandato britannico

Come spiegarlo? Perché è così difficile – e il diplomatico Bernadotte ne farà l’amara esperienza – far riconoscere che “due popoli diversi coabitano in Palestina e che hanno bisogno di vivere in pace”? Come spiegare che “le due parti [sono] così ostinatamente determinate a ignorare completamente il punto di vista dell’altro”, ma anche a ignorare il loro “denominatore comune”? Disgraziatamente, scrive Arendt nel 1948, “il denominatore comune alle due comunità [è] la ferma convinzione che solo la forza, e non la ragione, risolverà il loro conflitto”. Se la violenza appare l’unica soluzione è perché questi due popoli, che pure vivono da decenni in Palestina a stretto contatto, si sono sempre largamente ignorati. Per tutta la durata del mandato britannico la tutela del Regno Unito li ha dispensati dall’imparare concretamente, realmente, a vivere insieme. Arendt evoca un clima di “irresponsabilità”, “un’atmosfera dove niente era veramente preso sul serio”, perché la gestione riguardava altri uomini. “È naturale che in un’atmosfera priva di qualsiasi serietà entrambe le parti diventassero sempre più imprudenti, sempre più inclini a considerare esclusivamente i propri interessi e a trascurare le vitali realtà del paese nel suo complesso. Così gli arabi non si sono preoccupati della rapida crescita della forza ebraica e delle conseguenze di lungo termine dello sviluppo economico, mentre gli ebrei hanno ignorato il risveglio dei popoli coloniali e la nuova solidarietà nazionalistica nel mondo arabo […] Nella speranza o nell’odio […] entrambi i popoli si sono ignorati a vicenda”, incapaci di “considerare i loro vicini come concreti esseri umani”. I decenni di coabitazione, di prossimità talora molto stretta, non hanno cambiato nulla. “Tre decenni di stretta vicinanza hanno mutato pochissimo l’iniziale sensazione di completa estraneità tra arabi ed ebrei”. Arendt esamina soprattutto il caso degli ebrei. “Gli ebrei hanno dimenticato che erano gli arabi, e non gli inglesi, a costituire la realtà permanente della politica nel Vicino Oriente. […] Per gli ebrei gli arabi, incontrati per tanti anni in ogni città, villaggio e distretto rurale, con i quali hanno avuto continue relazioni e scontri, sono rimasti dei fantasmi”. Il fatto è che tutta l’impresa di costruzione della patria ebraica in Palestina, da un punto di vista economico “non è mai dipesa da una cooperazione arabo-ebraica”, ma esclusivamente dall’intraprendenza e dallo spirito pionieristico dei lavoratori ebrei e dal sostegno finanziario della comunità ebraica mondiale. “I settori arabo ed ebraico erano separati da barriere per così dire impermeabili” e, aggiunge, “finché sarà assicurato un sostegno finanziario esterno su larga scala, la cooperazione arabo-ebraica potrà diventare difficilmente una necessità economica per il nuovo Stato di Israele”. Il focolare ebraico si è sviluppato “in completo isolamento dai suoi vicini”, “come una pianta da serra”; e “senza troppa considerazione per quel che accadeva nel mondo circostante”.

La comunità ebrea in Palestina “non ha accordato nessuna attenzione alle condizioni economiche degli arabi” e lo scarto economico tra i due popoli ha nutrito “un profondo risentimento […] Gli ebrei hanno introdotto nel paese qualcosa di nuovo che, per mezzo della semplice produttività, è diventato il fattore decisivo. Confrontata con questa nuova vita, la primitiva economia araba ha assunto un aspetto spettrale, e la sua arretratezza e inefficienza sono sembrate prossime a una catastrofe che l’avrebbe spazzata via”.

Quanto ai pionieri, essi rifiutarono di usare la mano d’opera araba, meno onerosa, per ragioni paradossali: influenzati dagli ideali socialisti, temevano che il loro progetto potesse “degenerare in un’impresa coloniale dell’uomo bianco per mezzo, e alle spese, del lavoro dei nativi”. Di conseguenza “non una singola istituzione comune, non un solo corpo politico comune” furono edificati nel periodo del mandato britannico. “Se avessero vissuto in seno ad una economia comune, la fuga degli arabi non sarebbe stata possibile”.  Così, “nessun rapporto di buon vicinato [che pure in alcuni luoghi ci fu] poteva cambiare il fatto che gli ebrei considerassero gi arabi, nel migliore dei casi, come un interessante esempio di tradizioni popolari e, nel peggiore, come un popolo arretrato privo di importanza, e che gli arabi considerassero l’intera impresa ebraica, nel migliore dei casi, come uno strano interludio uscito da una fiaba e, nel peggiore, come un’iniziativa illegale, che un giorno sarebbe diventata una buona occasione per saccheggi e rapine”.

Il “rifiuto di prendersi reciprocamente sul serio” si accentua col conflitto del 1948, l’uno e l’altro accusandosi di essere marionette di potenze straniere, quasi a derealizzare le reciproche aspirazioni. Si affermò l’ipotesi del complotto internazionale nel quale “gli arabi non avevano di fronte 700.000 o 800.000 ebrei di Palestina, ma la forza schiacciante dell’imperialismo americano o russo o di entrambi, mentre gli ebrei sostenevano di combattere non tanto contro i membri della Lega araba quanto contro il potere assoluto dell’Impero britannico Gli arabi tentavano di trovare una spiegazione plausibile al fatto che sei Stati arabi non fossero riusciti a conseguire una sola vittoria contro le esigue forze ebraiche di Palestina e gli ebrei non potevano accettare l’idea di essere in permanenza circondati da vicini ostili e tanto più numerosi di loro”.

Complessivamente Arendt sottolinea gli effetti nefasti di una “propaganda […] che tratta gli oppositori reali alla stregua di fantasmi o di marionette”, il che rende i negoziati impossibili, creando una “situazione completamente irreale”, dove ciascuno pretende senza accettare il minimo compromesso. “Per più di venticinque anni ebrei e arabi si sono fatti richieste reciproche assolutamente incompatibili. Gli arabi non hanno mai abbandonato l’idea di uno Stato arabo unitario in Palestina”, non meno degli ebrei quanto a “uno Stato ebraico unitario in Palestina”. Questi ultimi, per fondare le loro rivendicazioni, si sono appellati al fatto che “il mondo – o la storia o qualche etica superiore - deve loro la riparazione dei torti di duemila anni e, più specificamente, un risarcimento per la catastrofe dell’ebraismo europeo che, secondo loro, non fu semplicemente un crimine della Germania nazista bensì dell’intero mondo civile”. Gli arabi, d’altro canto, hanno risposto che “nessun codice morale può giustificare la persecuzione di un popolo nel tentativo di riparare alla persecuzione di un altro”. Da una parte e dall’altra, “l’ideologia” impedisce che si consideri la complessità della situazione. Gli arabi vedono gli ebrei come “invasori” che cercano di “cacciarli dalle loro case”, ma usano secondo Arendt il prisma di un “romanticismo” anticoloniale che non corrisponde al modo con cui gli ebrei si sono installati in Palestina. Dal canto loro, gli ebrei percepiscono la situazione attraverso le lenti deformanti di un “tribalismo” nazionalista. L’inconciliabilità è, da una parte e dall’altra, il segno di “un’astrazione dai fattori concreti della situazione”, che “impedisce ogni sforzo per trovare un denominatore comune tra due popoli i cui interessi comuni appaiono con evidenza a tutti salvo che a loro stessi”. La prima guerra, a dire il vero, ha reso ancora più difficile la possibilità di trovare un denominatore comune: “Ha distrutto tutti i settori di una economia mista ebraico-araba e, con l’espulsione di quasi tutti gli arabi dai territori conquistati dagli israeliani, ha eliminato il piccolo fondamento economico sul quale riposavano le speranze” di una conciliazione, di una pace.

(continua)

  1. “Tutto considerato, un isolazionismo tanto folle da spingersi fino al punto di fuggire dall’Europa si trova solo nel sionismo. Ma la filosofia che ne è alla base è di gran lunga più generale; a dire il vero, essa è stata l’ideologia della maggior parte dei movimenti nazionali del centro Europa. Essa non è altro che l’accettazione acritica del nazionalismo di ispirazione tedesca. Questo ritiene che una nazione sia un corpo vivente immortale, il prodotto dello sviluppo naturale e inevitabile di caratteristiche intrinseche; definisce inoltre i popoli non in termini di organizzazioni politiche, ma di organismi biologici superumani. In questa concezione, la storia europea viene scissa in più storie di altrettanti corpi organici senza rapporto tra loro e la grande idea francese della sovranità del popolo viene pervertita nelle rivendicazioni nazionalistiche di un’esistenza autarchica”. (H. Arendt, Ebraismo e Modernità, p. 109).
  2. Ci pare interessante segnalare il libro curato da Bashir Bashir e Amos Goldberg, The Holocaust and the Nakba. A New Grammar of Trauma and History, Columbia University Press (trad. it., Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Ed. Zikkaron, 2023).
  3. “Le evacuazioni di Haifa e Tiberiade da parte delle popolazioni arabe sono, fino a questo momento, gli avvenimenti più infausti di tutta la guerra arabo-ebraica. Senza un’accurata preparazione queste evacuazioni non si sarebbero potute compiere ed è poco probabile che ese siano avvenute spontaneamente. Ciò nonostante, è molto dubbio che la leadership araba, il cui intento è quello di creare una condizione di sradicamento tra gli arabi di Palestina per smuovere il mondo musulmano, avrebbe potuto convincere decine di migliaia di abitanti ad abbandonare i loro beni entro breve tempo se il massacro di Deir Yassin non avesse seminato il terrore degli ebrei tra la popolazione araba. E solo qualche mese prima era stato commesso, nella stessa Haifa, un altro crimine che ha fatto il gioco della leadership ebraica, quando l’Irgun [gruppo paramilitare sionista, considerato organizzazione terroristica da parte del Regno Unito e delle stesse autorità ebraiche, NdT] aveva gettato una bomba in un gruppo di lavoratori arabi, fuori dalla raffineria di Haifa, uno dei pochi luoghi in cui ebrei ed arabi avevano lavorato per anni fianco a fianco”. (H. Arendt, op. cit., p. 169)

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