La memoria della Shoà: due posizioni in conflitto

Stefano Levi Della Torre
15 giugno 2024
Anselm Kiefer, Nubes pluant, 2016

Il testo di Stefano Levi Della Torre è stato pubblicato sulla rivista "Gli asini" in occasione della Giornata della Memoria del 2024. Riteniamo necessario riproporlo per la lucidità e l'ampiezza delle riflessioni e per il contributo che può portare allo smarrimento del pensiero nel caos che attraversiamo.

Ringraziamo l’Autore per averne cortesemente autorizzato la pubblicazione.

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Questa è una tragica lezione della storia: i discendenti di un popolo perseguitato per secoli dall’Occidente, cristiano e poi razzista, possono diventare al tempo stesso i persecutori e il bastione avanzato dell’Occidente nel mondo arabo.

Edgar Morin (“La resistenza dello spirito”, La Stampa, 24 gennaio 2024)

"Le vittime che si fanno carnefici"?  Fino a ieri, ho sempre obiettato a questa formula accusatoria, per l'incommensurabile sproporzione tra gli atti subiti dagli ebrei come vittime fino alla Shoà, e gli atti compiuti da ebrei come persecutori o carnefici. Ma ora questi due termini, vittime e carnefici, si confrontano in modo ravvicinato: il 7 ottobre 2023 ebrei - e Israele nel suo insieme - sono stati vittime della terribile aggressione, strage, stupro, rapimento di massa di Jihad e Hamas, ma in sequenza immediata degli ebrei e Israele, perché vittime, sono diventati carnefici, e da settimane stanno devastando e facendo strage indiscriminata nella Striscia di Gaza, con 25000 morti finora [37.000 alla data del 10 giugno 2024], e un numero imprecisato di feriti e mutilati. Il fatto che le vittime si sono fatti carnefici è evidente. È contestabile?

Sullo sfondo di questa parabola compiuta, che le parole di Edgar Morin descrivono in breve, si svolge la Giornata della Memoria del 2024.

1- Sulla memoria della Shoà, si sono contrapposte in questi anni due tesi. Secondo la prima, la Shoà è paradigma di ogni strage programmata e genocidio in quanto riassume tutte le modalità che in altre persecuzioni compaiono in parte, e che la memoria della Shoà vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra “crudeltà di massa” del passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano né per gli Ebrei né per altri. A questa impostazione si contrappone la tesi secondo cui lo sterminio degli Ebrei è un fatto estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata, e ciò favorirebbe chi ha l’interesse a render marginale la Shoà nella storia, fino a negare la quantità e l’identità delle vittime, le intenzioni e la modalità dello sterminio, o il fatto stesso che sia avvenuto. 

In questo scritto io argomento a favore della prima tesi, e concludo col sostenere che la seconda tesi finisce per degradare la memoria delle vittime di Auschwitz riducendola a strumento e giustificazione di una politica nazionalistica.

Per chiarire i termini della controversia, parto da una domanda e da quelle che ne conseguono: quale funzione attribuiamo alla memoria della Shoà? La Shoà è un fatto storico che dobbiamo difendere dalle falsificazioni semplicemente in nome della verità oppure dobbiamo anche trarne qualche insegnamento per il nostro agire? Perché, dunque, fare memoria della Shoà? La risposta è diventata giustamente rituale: perché nulla di simile si ripeta. Perché non si ripeta per gli Ebrei, o perché nulla di simile si ripeta, né per gli Ebrei né per nessuno?  E se la Shoà, l’annientamento totale riservato agli Ebrei è un estremo a cui nessun altro evento è equiparabile, ciò esclude forse che altre atrocità di massa siano con essa confrontabili? E confrontabili per mobilitare le coscienze e l’azione a prevenirli, o a contrastarli se in atto, o a punirli se già compiuti.

 

 2- Sulla questione ascoltiamo Primo Levi, che afferma esplicitamente l’unicità dei campi di sterminio e della Shoà, ma si diffonde di continuo in comparazioni. Leggiamo nella prefazione a I sommersi e i salvati (Einaudi 1986): 

                  […] fino al momento in cui scrivo, e nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà. (pp. 11-12)

Scrive anche:

Questo libro intende contribuire a chiarire alcuni aspetti del fenomeno Lager […]. Si pone anche un fine più ambizioso; vorrebbe rispondere alla domanda più urgente (…): quanto del mondo concentrazionario è morto e non tornerà più […]? Quanto è tornato o sta tornando? Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata? (p. 11).

Qui Primo Levi dice che il confronto tra i campi nazisti di sterminio e altre atrocità di massa ha senso; che dal confronto risulta che il sistema nazista del Lager è un unicum; che tale confronto è utile per la conoscenza e la coscienza  riguardo alle atrocità di massa del passato e del presente; questo, affinché si consideri “che cosa può fare ognuno di noi”, oggi e nel futuro, per renderne attuale la memoria e prevenirli, avvertendone la minaccia fin dai sintomi; che questo confronto non banalizza ma anzi da risalto all’unicità del sistema nazista dei Lager.  

I Lager costituivano un sistema esteso, complesso, profondamente compenetrato con la vita quotidiana del paese; si è parlato con ragione di “univers concentrationnaire”, ma non era un universo chiuso. Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche di armamenti, traevano profitto dalla mano d’opera pressoché gratuita fornita dai campi (p. 7). Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori (p. 27).

Dunque, Primo Levi estende la comparabilità dell’universo concentrazionario fino alle logiche quotidiane dei rapporti sociali di potere. Il Lager è un unicum, ma non indecifrabile. Ne I Sommersi e i salvati Primo Levi si pone il compito di decifrarlo, di rendere per quanto si possa comprensibile a noi, estranei alla sua esperienza dell’estremo, ciò che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale (p. 27-28). “Anche soltanto ciò che avviene in un grande stabilimento industriale”!? Immagino che chi rifiuta ogni confronto tra Auschwitz e altre situazioni si chiederà con indignazione fino a che punto Primo Levi intenda banalizzare il Lager se vi trova somiglianze persino con una situazione aziendale consueta. Ad alcuni potrà forse bastare questo per inscrivere Primo Levi tra le file dei potenziali negazionisti? In nessun momento Primo Levi smentisce il fatto che Auschwitz sia un unicum, e tuttavia ne estende enormemente la confrontabilità con situazioni persino a noi familiari e di tutt’altre dimensioni e gravità. Nel fare questo, compie due movimenti: il primo è quello di avvicinare a noi l’esperienza per noi inaccessibile del male estremo; il secondo è quello di avvertire che il male estremo non è alieno, non viene dalla luna, ma giace in latenza nella nostra stessa normalità. 

Questo impatto tra la normalità e l’unicum di Auschwitz lo incontriamo accentuato nell’ultima pagina de I sommersi e i salvati, in un’affermazione che ci sorprende e ci spiazza. Parlando degli operatori del Lager, Primo Levi arriva a mettere tra virgolette la definizione di “aguzzini” perché lo ritiene “improprio” (sic, p. 166): nei campi di sterminio, dice, tra i tedeschi i sadici erano una presenza trascurabile. Ciò che nel Lager è accaduto fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni non erano mostri, avevano lo stesso nostro viso, ma erano stati educati male (p. 166-167).

 

Che cosa ci saremmo aspettati? Che quell’atrocità organizzata su vasta scala e senza limiti non potesse venir condotta se non da esseri “disumani”. Questa era la nostra aspettativa “logica”. Un’aspettativa in un certo senso rassicurante: gente normale come noi non arriverebbe mai a fare simili cose; solo dei sadici patologici potrebbero spingersi a tanto, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Questo ci viene in mente, ed è un nostro meccanismo di riparo dall’orrore: spontaneamente cerchiamo un sollievo dall’angoscia pensando “logicamente” che, nel suo complesso, il personale del Lager fosse di una specie animale diversa da noi. Invece il Reich hitleriano e il sistema dei Lager erano la gigantesca e mostruosa organizzazione della normalità umana, la mobilitazione ideologica verso obiettivi mostruosi della banalità che è in ognuno di noi. 

L’affermazione di Primo Levi sulla normalità dei funzionari del Lager (“erano fatti della nostra stessa stoffa; avevano lo stesso nostro viso”) non diminuisce l’orrore; al contrario lo aumenta, perché ci dice come la normalità, la nostra stessa normalità, possa trovare mille giustificazioni private che la rendano disponibile a far funzionare, ciascuno per la sua parte, un colossale sistema di distruzione dell’uomo (e dell’ambiente, aggiungeremmo oggi). Ora, consideriamo che quando viene avanti l’idea che la nostra vita o la nostra sicurezza possa valere mille volte la vita e la sicurezza degli altri; o quando in nome di una superiorità morale, civile o religiosa ci si abbandona ad atti che contraddicono e smentiscono proprio i principi di cui ci si vanta; o quando nella concorrenza per le risorse del pianeta si decide che alcuni gruppi umani hanno diritto alla libertà e al benessere  e si condannano altri alla fame, alla schiavitù e alla morte; allora Auschwitz non apparirà solo come un gigantesco crimine del passato, ma anche come una oscura profezia di qualcosa che è sempre possibile, se non in atto.

 

  3-    La memoria di Auschwitz ci pone due domande simmetriche, l’una che guarda alle vittime, l’altra agli esecutori. La prima è questa: per quali circostanze storiche e politiche che non avremo saputo arginare, e per quale isolamento nell’indifferenza altrui, potremmo diventare vittime di persecuzione e di strage? La seconda domanda è questa: per quali circostanze storiche e politiche a cui non avessimo saputo o voluto trovare alternative, potremmo diventare carnefici, o collaboratori, attivi o passivi, dei carnefici?  Che cosa ci può accomunare oggi, se non ai carnefici diretti, al conformismo consenziente o anche solo prudente, o indifferente al destino altrui, o al non voler sapere per evitare responsabilità o inquietudine, a tutti quegli atteggiamenti, insomma, individuali e sociali, che hanno permesso che Auschwitz avvenisse? O che una grave negazione d’altri, anche meno estrema di Auschwitz, possa prodursi? Al di là della indignazione e memoria per le atrocità di massa, del necessario ricordo delle vittime, la domanda che si pone per la nostra attualità è questa: che ne è della nostra normalità, dove può portare o essere portata? Come è successo che nella nazione di più alta cultura e scienza grandi masse siano state “educate male”, educate cioè al conformismo di regime, al risentimento, al nazionalismo, al vittimismo istigato alla rivalsa sul mondo, al narcisismo di “razza”, a tal punto da generare un unicum eccezionale e mostruoso?  Queste sono le domande al centro della nostra memoria.

La proposta di Primo Levi non è dunque di isolare l’unicum di Auschwitz in un idolo negativo terrificante e indecifrabile, ma quella di farne un avvertimento decifrato “perché il mondo conosca sé stesso”, un insegnamento, una lente di ingrandimento che riveli i germi che l’hanno generato, che continuamente si rigenerano nella società di massa, nell’individualismo di massa, nel gregarismo di massa, nei rapporti sociali di potere. La memoria di Auschwitz non è un idolo negativo, ma l’avvertimento di una possibilità latente, un messaggio vivo e un insegnamento attuale.

  4- Al confronto con gli stermini del passato e del presente, la Shoà è un unicum, per movente ideologico, per intensità nell’unità di tempo, per modalità di esecuzione. È  l’esito ribaltato dell’intera civiltà dell’Occidente e del suo progresso tecnologico e amministrativo: la burocrazia, le logiche d’impresa, il sistema ferroviario a scala continentale per la deportazione, i criteri tayloristico-fordisti della parcellizzazione delle mansioni nel lavoro di strage,  le catene di montaggio o più precisamente di s-montaggio dell'essere umano (nelle vittime e nei carnefici), il criterio industriale della produttività del lavoro (di strage, delle camere a gas), della restaurazione dello schiavismo di massa come sistema di sfruttamento illimitato e di morte,  di smaltimento dei rifiuti (forni crematori e fosse comuni), il riciclaggio  e la commercializzazione dei residui utili della materia prima umana importata da quelle “miniere” d’uomini, donne e bambini che erano i popoli d’ogni dove ( pelle umana, capelli, saponi, denti d'oro, farina d'ossa...). Tutta la razionalità tecnica, economica e amministrativa che la civiltà occidentale aveva raggiunto si è ispirata dall’irrazionalità di un mito fantasmatico: quello di una superpotenza ebraica che minacciava l'umanità; per cui col genocidio degli Ebrei la Germania nazista si ergeva ad eroe egemonico che liberava sé stessa, e i popoli sottomessi, dalla “minaccia mortale” incarnata negli Ebrei. 

Il mito della superpotenza ebraica è ciò che più distingue la Shoà (“distruzione”, in ebraico), la “soluzione finale” prospettata per gli Ebrei, dal Porrajmos (“devastazione”, in romanì), la “soluzione finale” prospettata per i Sinti, i Rom e altre popolazioni affini. Per la Shoà e il Porrajmos lo sterminio non aveva la logica della conquista territoriale, di strage di popolazioni autoctone, quali erano ad esempio gli Slavi, per invaderne lo spazio: si trattava di popolazioni considerate senza radici, senza territorio proprio e perciò socialmente invadenti. Il genocidio degli “Zingari” intendeva portare a compimento una condanna sociale antica, di genti considerate intrinsecamente straniere. Il genocidio degli Ebrei aveva un altro senso, intendeva portare a termine una condanna ancora più antica, quella ispirata all’antigiudaismo cristiano, che aveva sedimentato per secoli nel senso comune europeo gli stereotipi poi ereditati dalla demagogia antisemita nell’epoca dei nazionalismi.  L’emancipazione ebraica nel clima dell’illuminismo ispirò l’idea che gli Ebrei fossero i massimi beneficiari della crisi degli antichi regimi, e dunque di quella crisi fossero i promotori; l’dea cioè che fossero i dominatori occulti dei cambiamenti storici, dall’alto e dal basso (il capitalista Rothschild, il rivoluzionario Marx); fossero, come diaspora, un occulto impero diffuso, fossero cioè un’occulta super- potenza ramificata in ogni nazione. Il mito della potenza invasiva degli Ebrei fu l’ossessione dell’antisemitismo del XIX sec., mito poi ripreso e reso parossistico dal nazismo. Per questo, alla base della demagogia nazista, troviamo l’allarme vittimistico: “siamo minacciati, perseguitati dagli Ebrei, dalla loro occulta potenza. La nostra volontà di annientarli non è che legittima e doverosa difesa”. Anche la memoria di questo aspetto ci affida un insegnamento: il vittimismo è il veleno demagogico che alimenta ogni oltranzismo: nel vantarsi come vittime ogni nazionalismo aggressivo, ogni fondamentalismo ideologico o religioso fonda la giustificazione del proprio arbitrio, la trasformazione del proprio arbitrio in diritto illimitato di rivalsa, della propria aggressività in legittima difesa, del proprio terrorismo in difesa dal terrorismo. Ieri come oggi.

 

 5- Come fatto specifico, la Shoà mette di fronte Ebrei e regimi nazifascisti, nel quadro di una diffusa indifferenza alla sorte di quelle vittime “diverse”. Lo sterminio sistematico dei bambini è un segno caratteristico di genocidio, di annientamento del futuro di una compagine umana. Il termine stesso “genocidio” è stato coniato in riferimento alla Shoà. (Fu formulato dall’ebreo polacco Lemkin, nel 1944, per essere adottato dalla Convenzione ONU nel 1948 e come pratica legale dei Tribunali Internazionali negli anni '90).  La Shoà è un crimine specificamente contro gli Ebrei, ma non si limita a un cortocircuito tra Ebrei e regimi nazifascisti: questa era la visione “universalistica” dei nazisti che nell’annientamento degli Ebrei presumevano di agire per conto dell’umanità, per “liberarla” dalla “minaccia ebraica”. Se l’annientamento degli Ebrei era per i nazifascismi una missione per conto di un’umanità in prospettiva sottomessa, ora la memoria della Shoà è intesa come un avvertimento per conto di un’umanità in prospettiva liberata, e perciò chiamata a impegnarsi a che nessuna sua parte venga disumanizzata, oppressa o soppressa. L’ idea nazista è stata ribaltata: la Shoà è un crimine contro gli Ebrei che ha la dimensione di un crimine contro l’umanità. Questa estensione dell’idea della Shoà ne diminuisce forse la portata, ne diluisce forse il senso? Al contrario lo rafforza: della tragedia degli Ebrei è chiamata a farsi carico l’umanità intera, non come spettatrice indifferente o pietosa, ma come parte in causa. 

 

Da tragedia di una minoranza specifica e isolata, la Shoà si pone ora come un paradigma universale. La Shoà è un paradigma non malgrado la sua unicità, ma in virtù di essa, perché in essa si compendiano tutti gli elementi che, per parti, si presentano in ogni altra atrocità di massa, del passato, del presente e del futuro prevedibile. È un paradigma proprio per la sua peculiarità di compendio. E “paradigma” non vuol dire “un fatto a sé stante”, ma pietra di paragone, modello con cui ogni atrocità di massa si commisura e in cui guarda la propria tendenza al limite. Per questo la Shoà non è equiparabile, ma è confrontabile con ogni atrocità di massa, è termine di paragone di ogni persecuzione, è il parametro dell’intollerabile. Per questo non è relegabile in una memoria chiusa su sé stessa, per preservarne il record del male, come un monumento congelato perché non si contamini con i confronti. La memoria della Shoà è un insegnamento attivo e attuale.   D’altra parte, la memoria come esperienza elaborata per guidarci nell’attualità è un’idea ben radicata nell’ebraismo stesso: per i nostri maestri, gli avvenimenti narrati nella Torà sono paradigmi che illuminano la casistica, che si riverberano nei casi concreti, grandi o minuti, della vita pratica e delle vicende degli Ebrei nella storia. 

 

 6- Sulle orme di Primo Levi, ho sostenuto fin qui le ragioni del confrontare l’unicum di Auschwitz con altri avvenimenti anche molto diversi, e il messaggio che ne deriva. Ora ritorno a coloro che denigrano questa impostazione. Contro di essa, si presentano come chi vuole preservare la verità storica della Shoà che, in quanto “male assoluto”, è un unicum che non ammette d’ essere turbato, relativizzato da confronti. Ma, che io sappia, non dicono chiaramente quale messaggio vogliono che il mondo comprenda da quel fatto. E poiché finora non conosco una loro risposta esplicita su questo punto, gliela chiedo: che cosa volete dire al mondo a partire dalla vostra posizione? E poiché, forse per mia distrazione, non dispongo di questa risposta, mi azzardo a interpretare quello che mi sembra nascosto nella loro reticenza. Dunque, che cosa può voler significare chiudere la Shoà nel suo assoluto, impermeabile ad ogni altro destino umano, ad ogni generalizzazione? Significa voler rovesciare l’idea che tale crimine contro gli Ebrei venga concepito come crimine contro l’umanità per indurre invece l’idea che sia un crimine dell’umanità contro gli Ebrei. Significa voler porre l’umanità sotto il ricatto di un debito inestinguibile, e gli Ebrei come creditori inesauribili a cui tutto debba essere riconosciuto ed ogni arbitrio legittimato. Significa voler separare gli Ebrei dall’umanità, e con ciò rivestire i panni che l’antisemitismo ci attribuisce, perché per paradosso questo sembra conferire ora un effimero vantaggio politico. Significa voler fare della Shoà un monumento  all’ebraismo  come eterna vittima che impone all’umanità un eterno debito, entrando in contraddizione con lo stesso sionismo la cui aspirazione fondamentale, e in particolare a seguito della Shoà, era quella di riscattare gli Ebrei dalla condizione di vittima per tradurre la tragedia ebraica in una prospettiva positiva, perché gli Ebrei fossero annoverati tra i popoli; significa erigere la Shoà a un idolo del proprio destino di vittima,  e ciò contraddice l’insegnamento fondamentale dell’ebraismo, dei suoi testi, delle sue sapienze e tradizioni, che non esalta l’essere vittima ma la tenace resistenza alla condizione di vittima, la tenace resilienza attraverso i secoli. Non nell’essere vittima, ma nella resilienza sta il nerbo dell’identità ebraica; non nella pretesa vittimistica e parassitaria di un infinito risarcimento, ma nella resilienza sta la capacità di durata dell’ebraismo, che in questo è un unicum tra le culture e i popoli. Da un lato sta una memoria della Shoà, deformata in culto idolatrico della propria identità di vittima, dall’altro una memoria della Shoà necessaria “perché il mondo conosca sé stesso” (Primo Levi), perché si sappia fino a che limite estremo l’uomo può spingersi per distruggere l’uomo, nelle sue vittime e nei loro oppressori o carnefici; perché il mondo cerchi le vie per contrastare queste tendenze sempre attive e attuali ovunque si presentino.

     

 7- Del vittimismo come anima fondamentale di ogni demagogia nazionalistica, di ogni oltranzismo ideologico o religioso ho detto sopra. E dunque concludo. Ciò che è nascosto in quello che mi sembra una reticenza in chi polemizza con la confrontabilità della Shoà sta semplicemente questo: voler ridurre la Shoà a strumento del vittimismo ricattatorio che anima ogni nazionalismo, e in particolare quello che si manifesta in una parte degli Ebrei e in una parte di Israele.  Netanyahu  ha portato ad estrema chiarezza questa intenzione, quando ha proposto a dirigere lo Yad Vashem il generale Eitan, un nazionalista fautore della deportazione dei palestinesi e della “pulizia etnica”: lo Yad VaShem, il memoriale del genocidio degli Ebrei rivolto alla coscienza del mondo, perché vigili e agisca contro ogni crudeltà di massa che ha nella Shoà il suo paradigma; lo Yad VaShem ridotto invece ad esaltare il proprio nazionalismo; il monumento alle vittime ridotto a monumento al vittimismo con cui una politica nazionalistica ostile ad ogni compromesso di pace pretende legittimazione, e dell’oppressione di un altro popolo, protratta senza soluzione, esige giustificazione come propria “legittima difesa”. E questo pare a me, come a tanti tra gli Ebrei in Israele e nel mondo, un insulto a 6 milioni di morti, e ai giusti delle nazioni che hanno saputo vedere nella persecuzione e nel genocidio degli Ebrei un crimine contro l’umanità.

Per un ulteriore approfondimento, segnaliamo le interviste a Stefano Levi Della Torre apparse su JoiMag del 22 febbraio 2024 e sull’Unità del 24 aprile 2024

Stefano Levi Della Torre insegna alla Facoltà di Architettura del Politecnico di MIlano. Scrittore, pittore e saggista, discende da una famiglia ebraica piemontese di tradizioni laiche e socialiste-liberali di matrice gobettiana. Ha sempre attivamente sostenuto i movimenti promotori della pace tra israeliani e palestinesi.  Attento e fine conoscitore della Bibbia e del Talmud, ha studiato per molti anni la storia e la cultura ebraica, è stato membro del Consiglio della Comunità Ebraica di Milano, ha firmato e firma editoriali e approfondimenti per le principali testate culturali italiane e ha partecipato più volte alla trasmissione radiofonica di Rai Radio 3 "Uomini e profeti". È autore di numerosi saggi, tra i quali Il forno di Akhnai. Una discussione talmudica sulla catastrofe (2010), Democrazia, legge e coscienza (con Claudio Magris, 2010), Laicità, grazie a Dio (2012), Dio (Bollati Boringhieri, 2020)

 

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