La catastrofe che si avvicina (La catastrophe qui vient). Prima parte

La catastrofe che si avvicina (La catastrophe qui vient)
Prima parte
Tra catastrofe climatica, guerre devastanti e avvento dell’intelligenza artificiale, come articolare una resistenza che faccia appello all’umano e alla vita? Il filosofo francese Jean Vioulac propone una lucida analisi della situazione critica in cui si trova oggi l’umanità, alle prese con la sua stessa potenza di annientamento, capace di agire a scala geologica e di provocare un’estinzione di tutte le forme di vita.
L’articolo è stato pubblicato da Le Grand Continent il 30 marzo 2024. (trad. it. di Angela Peduto)
Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione.
Jean Vioulac, filosofo, è autore di numerose opere (L’époque de la technique. Marx, Heidegger et l’accomplissement de la métaphysique (Puf, 2009), Approche de la criticité (Puf, 2018), Anarchéologie. Fragments hérétiques sur la catastrophe historique (Puf, 2022), La Logique totalitaire. Essai sur la crise de l’Occident (Puf, 2023), Nihilisme et totalitarisme. Métaphysique de l’Anthropocène I (Puf, 2023), Métaphysique de l'Anthropocène, 2: Raison et destruction (Puf, 2024).
Ha ricevuto il «grand prix de philosophie de l’Académie française » nel 2016 e nel 2023 il « prix Cioran ».
Scienza e letteratura
Il pensiero non è un semplice epifenomeno della corteccia cerebrale, tantomeno viene da un cielo ideale: è sempre un fenomeno storico e sociale: noi pensiamo in quanto siamo eredi di una tradizione, non foss’altro che una lingua, e per questo ogni pensiero che si voglia lucido deve innanzitutto circoscrivere la propria situazione storica.
Uno degli elementi importanti che caratterizzano oggi la nostra situazione è l’egemonia planetaria della razionalità scientifica; essa non solo domina il campo teorico del sapere, ma regola le infrastrutture tecnologiche la cui rete determina le nostre pratiche. Questa configurazione della razionalità fu elaborata in Europa nel XVII secolo, grazie alla ripresa del progetto che i Greci antichi avevano chiamato “filosofia”.

Secondo la tradizione, il primo “filosofo” fu Pitagora, che definì le cose per mezzo del numero e le fondò sull’Uno, cioè sull’unità numerica concepita come principio unico dell’universo: la digitalizzazione totale che oggi caratterizza scienza e tecnica corrisponde al pieno dispiegamento di questa razionalità numerica. La filosofia altro non è che scienza, è il progetto stesso della scienza: le scienze contemporanee non rifiutano la filosofia, la portano a compimento.
Questa è la logica della nostra situazione, ma dobbiamo anche supporre che non le siamo totalmente assoggettati, che abbiamo ancora un margine di manovra per poterla mettere a distanza e così conquistare uno spazio di gioco per la nostra lucidità.
Ora, la razionalità numerica e statistica, il pensiero calcolante, domina proprio perché è perfettamente omologico ai dispositivi contemporanei cui consente di funzionare efficacemente, e in ciò resta totalmente determinato dall’epoca che si tratta di pensare.
Nell’Arte del romanzo Kundera constatava che, nel momento stesso della rivoluzione scientifica moderna, cioè della matematizzazione del sapere, appare in Europa il genere romanzesco, che oppone i personaggi ai concetti, la narrazione alla deduzione, la soggettività all’oggettività, la singolarità delle passioni all’universalità della ragione, l’anarchia tragica alla gerarchia logica: nessun dubbio che ci sia un pensiero profondo. “più profondo di quello del giorno” (Nietzsche) nelle opere di Dostoevskij, Melville, Kafka, Orwell, Proust o Celine, e tanti altri, che ha dato parola alla carne oltraggiata dall’impero dell’idea, come rivendicava Balzac quando diceva: “Faccio parte dell’opposizione che si chiama vita”. La filosofia si è avviata con la rimozione platonica della poesia e della tragedia: nell’epoca del suo compimento, la letteratura rappresenta una risorsa sotterranea di senso alla quale attingere per conquistare lucidità, per contestare e ricusare i discorsi funzionali degli “intellettuali intercambiabili, già presi nella macchina o poco lontani dall’esserlo” (P. Valéry).
Lo stesso vale oggi, e più che mai: la parola degli scrittori è preziosa, tanto più quanto più regnano incontrastati i discorsi degli “specialisti” formati, informati e formattati dalla macchina, i quali non sono altro che la voce del loro padrone e a questo titolo ignorano tutto, fino all’identità stessa del padrone. Il 13 dicembre scorso, Emmanuel Carrère, che da L'Adversaire del 2000 pubblica libri essenziali e sconvolgenti, ha rilasciato questa dichiarazione al termine di una trasmissione televisiva a lui dedicata:
“Credo che ci siano oggi due modi di vedere le cose, uno radicalmente ottimista e l’altro radicalmente pessimista. I relativamente ottimisti pensano che l’umanità attraversi una fase di caos, temibile e tragica, ma che questo è già accaduto nella sua storia e sarà superato. I radicalmente pessimisti pensano che un simile caos non si è mai verificato, che non si tratta di una fase ma della fine. L’analisi della situazione non è troppo complicata, non c’è bisogno di essere né molto intelligenti né molto informati per avere coscienza di tre o quattro fenomeni: 1. Il disastro climatico, malgrado le COP presiedute dai petrolieri, è irreversibile; 2. La crisi migratoria. Una metà del pianeta diventa inabitabile, perciò gli abitanti di questa metà vogliono andare nell’altra e gli abitanti dell’altra dicono che non c’è posto, che la barca è piena; 3. L’intelligenza artificiale, che si abbatte su di noi e probabilmente ci divorerà. Si potrebbe aggiungere la fine della democrazia, la fine dei nostri valori, ma è meno importante perché riguarda solo noi. Come scrittore penso che dovrei dire qualcosa intorno a tutto questo: se veramente è quello che sta accadendo, non ha senso parlare d’altro. Ci provo, seguo i processi per gli attentati del 13 novembre, vado in Ucraina, ma in realtà non ci riesco, sono come un coniglio preso dai fari... E allora cosa faccio? Chiudo i boccaporti, scrivo della mia infanzia, della giovinezza dei miei genitori, non è una soluzione, ma nessuno ha detto che c'è una soluzione".
Un simile discorso è inammissibile e non può che suscitare diniego, immediatamente respinto come "catastrofista" e inghiottito nel flusso di insignificanza dello spettacolo: eppure definisce un compito tanto necessario quanto urgente: pensare l’essenza dei "tre o quattro fenomeni" descritti da Emmanuel Carrère.
La filosofia, oggi
Questo pensiero dell’essenza appartiene precisamente a ciò che chiamiamo “filosofia”: sebbene in effetti la filosofia si sia innanzitutto definita attraverso il progetto della conoscenza scientifica, non vi si è identificata e ha conquistato il proprio dominio allontanandosi dai fenomeni per rivolgersi alla loro essenza. Allora la filosofia ha potuto definirsi metafisica, perché ha localizzato questa essenza al di là (in greco meta) della natura (in greco physis), in un cielo ideale e infine in Dio. Oggi tuttavia la razionalità scientifica ha abbandonato ogni fondazione teologica (“Non avevo bisogno di questa ipotesi”, dice Laplace a Napoleone che gli chiedeva dove fosse Dio nella sua fisica) e, nei suoi sviluppi, ha fatto emergere i fondamenti archeologici, compresi quelli psichici, delle credenze religiose: la nostra è l’epoca della “morte di Dio” (Nietzsche), che ha fatto rimpatriare il fondamento essenziale, per situarlo non più in un Dio creatore trascendente ed eterno, ma in una comunità di produttori, immanente e storica. A partire da quella che Kant chiamava “rivoluzione totale”, tutti i pensatori essenziali del nostro tempo - Marx, Nietzsche, Husserl ... - hanno compiuto questo capovolgimento, per raccogliersi nell'"opposizione che si chiama vita" evocata da Balzac. Questo capovolgimento impone di accettare la finitudine e la storicità dei "regimi ontologici", come fa ad esempio oggi Philippe Descola in etnologia, e di chiarire la situazione fondamentale di una comunità di "uomini reali, in carne ed ossa, accampati sulla terra solida e rotonda" (Marx), a partire dalla quale si definisce una prospettiva sul mondo.
Pensare un’epoca, una situazione, un “regime ontologico”, non vuol dire dunque interpretare dei fenomeni o dei dati in un sistema concettuale, in una griglia di lettura immodificabile, ma tentare di chiarire il nuovo sistema che viene messo in atto e portare alla luce le strutture fondamentali che ci determinano. La nostra situazione è in effetti senza precedenti: tutti i concetti, le categorie o gli ideali elaborati nel corso della storia sono obsoleti, tutti i valori sono sviliti e il loro mantenimento forzato fa sì che non si prenda la misura della novità dei processi in corso. Certo, i valori attuali non mancano, anzi non sono mai stati così numerosi perché tutti, senza eccezioni, sono disponibili in uno stesso campo di equivalenza, dove ciascuno sta sul mercato secondo il valore d’uso che gli viene attribuito: ma proprio per questo essi, senza eccezioni, sono svalorizzati e, se permettono a chi vi si aggrappa di sopravvivere nella tempesta, non permettono affatto di pensarla.

Così è per la “crisi migratoria” citata da Carrère: le migrazioni oggi sono massive, il loro potenziale di destabilizzazione su società già fragili è considerevole, ma è anacronistico interpretarle a partire da concetti come “nazione”, “territorio”, “frontiere” o “popolo”, non soltanto perché l’impero del ciberspazio e del mercato mondiale ha imposto una nuova deterritorializzazione, ma anche perché il cambiamento climatico è oggi la prima causa di migrazioni: e su un pianeta con otto miliardi di esseri umani, dove diventano inabitabili regioni intere, “che cosa fare se non spingere per farsi posto?”, come scriveva E. Carrère nella sua Lettre à Renaud Camus del 2012. I luoghi dove viviamo perdono così progressivamente lo statuto di paesi per acquisire quello di zattere dopo un naufragio: è questo naufragio che occorre tentare di spiegare.
Non si tratta di confrontarsi con fenomeni pericolosi che minacciano una situazione suscettibile di essere mantenuta così com’è, ma di pensare la nostra stessa situazione come pericolosa: “Non un pericolo qualunque, ma il Pericolo”, diceva Heidegger. Un simile pensiero è in sé stesso pericoloso, Heidegger lo riconosceva e l’ha catastroficamente verificato: ma oggi, per la filosofia, “non ha senso parlare d’altro”.
L’era della Ragione

Ogni pensiero che pretenda di essere filosofico deve innanzitutto prendere atto delle acquisizioni delle scienze contemporanee. Georges Cuvier fu, agli inizi del XIX secolo, un pioniere della paleontologia. L’analisi dei fossili che riportava alla luce nella pianura parigina mostrava che numerose specie erano vissute e poi scomparse. Per spiegare la loro sparizione egli parlò di “catastrofi” e fu così il principale promotore in biologia di quello che lo storico della scienza William Whewell ha chiamato dal 1837 “catastrofismo”. In seguito il catastrofismo fu marginalizzato dal gradualismo di Lyell e di Darwin, ma fece ritorno alla fine del XX secolo grazie alla scoperta delle cinque estinzioni di massa che hanno ritmato l’evoluzione della vita sulla terra. Il concetto di catastrofe è stato così riabilitato e si è imposto quello di “neocatastrofismo”, così chiamato negli anni 1990 dal paleontologo Richard Leakey.
Nello stesso momento la biologia ha evidenziato un processo contemporaneo di distruzione del vivente di una tale ampiezza che occorre concepire la nostra epoca come quella della “sesta estinzione”: cioè come catastrofe. Il catastrofismo non è una forma di pessimismo, è realismo, è la determinazione scientificamente rigorosa del momento geologico presente: dall’ultima volta che il momento è stato così grave sono passati 65 milioni di anni, e i dinosauri non sono sopravvissuti.
L’estinzione del Cretaceo-Paleogene si spiega con la caduta di un asteroide, quella di cui noi siamo contemporanei si spiega con l’impatto delle attività umane: non c’è infatti dubbio alcuno sull’origine antropica della catastrofe in corso, il che ha condotto Paul Crutzen, nel 2000, a proporre il nome di “Antropocene” per indicare l’epoca che si inaugurava e che qui è presa come suddivisione di un periodo, in questo caso il Quaternario. Non si tratta quindi semplicemente di formalizzare la fine della Modernità e l’inaugurazione della Post-modernità, né la fine della Storia e l’inaugurazione della Post-storia, ma la fine dell’Olocene e l’inaugurazione dell’Antropocene, collocandoci così non più sula scala del tempo storico ma su quella dei tempi geologici, la cui scoperta è una delle rivoluzioni epistemologiche contemporanee: la cronologia biblica dava alla terra circa 6.000 anni, oggi sappiamo che ne ha più di 4,54 miliardi e dobbiamo anche sopportare la vertigine di trovarci di fronte al “cupo abisso del tempo” (G.-L. Buffon).
La difficoltà di concepire un simile evento è enorme: nella misura in cui esso è di origine antropica, la sua elucidazione richiede un’antropologia, ma un’antropologia radicalmente nuova, capace di rinunciare a ciò che credeva di sapere sull’”uomo” per prendere atto di ciò che la nostra epoca rivela, fosse anche al prezzo delle più severe revisioni. L’Antropocene impone di concepire l’uomo nel suo rapporto col sistema terra: la nostra epoca è il momento in cui il tempo della storia (umano), che si era separato dal tempo dell’evoluzione (vivente), che si era separato dal tempo minerale (materia), si congiunge col tempo geologico per fare della stessa umanità una potenza geologica, in grado di modificare la composizione chimica dell’atmosfera, di fondere la calotta artica e i ghiacciai e di alterare i cicli oceanici.
Situare l’umanità nel tempo, pensare per epoche, impone di prendere atto del fatto che non è un qualunque uomo in un qualunque momento della storia ad essere implicato nella catastrofe contemporanea, ma l’uomo che, a partire dagli anni 1770, ha gettato (tra l’altro) più di 1500 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio nell’atmosfera. Questi rifiuti derivano dalla combustione massiva di idrocarburi e, dunque, da un dispositivo di produzione che richiede certe quantità di energia. La creazione di questo dispositivo di produzione definisce la Rivoluzione industriale. La potenza che oggi domina è antropica, non proviene dall’uomo in quanto organismo ma da un uomo che, attraverso questo dispositivo di produzione, ha preso possesso di carbone, gas, petrolio: l’uomo è diventato potenza geologica nell’esatta misura in cui non è più semplicemente un essere biologico ma in quanto libera forze che sono esse stesse geologiche.
Ora, la liberazione di queste forze è possibile solo a partire dalle scienze contemporanee - geologia, mineralogia, chimica, elettromagnetismo -, cioè dalla configurazione della razionalità oggi dominante. Vladimir Vernadskij, fondatore della geochimica e pioniere dell’ecologia scientifica, constatava già nel 1924 che “una forza geologica nuova è certamente apparsa sulla superficie della terra con l’uomo”, per precisare subito dopo che questa forza non veniva dal suo organismo ma dal suo sapere; egli finì per caratterizzare la “nostra epoca geologica” attraverso “l’azione della coscienza dello spirito collettivo dell’umanità sui processi geochimici” e per definirla “era psicozoica, era della Ragione”. La potenza oggi effettivamente dominante non è tanto “l’uomo” quanto la razionalità scientifica, la ragione greca, il logos, cosicché la nostra epoca è più precisamente Logocene.
L’esplosione atomica
L’elucidazione della catastrofe in corso richiede un pensiero del logos e compete alla filosofia. Aristotele chiamava i primi filosofi physiológoï: coloro che tengono un discorso razionale (logos) sulla natura (physis): il pensiero greco è fondamentalmente una fisica, che determina l’essente (tà ónta: ciò che è) attraverso il concetto. “La fisica è uno sforzo per afferrare l’essente (das Seiende) come qualcosa di concettuale”, scriveva Einstein nel 1949. La scienza contemporanea prosegue e completa il progetto greco e, così facendo, arriva a indicare tutta la materia come energia in potenza (E=MC2): oggi la razionalità scientifica si fonda sulla fisica relativistica e quantica, che definisce la natura come un potenziale energetico. Seguendo le analisi di Philippe Descola, è possibile definire la Rivoluzione neolitica che inaugura la storia con l’avvento di quel “regime ontologico” che è il naturalismo, nel quale e attraverso il quale la realtà è “natura”, vale a dire oggetto per un soggetto. La Rivoluzione industriale – ed è il motivo per cui essa è rivoluzione – instaura un nuovo regime, definito dall’atomismo, dove il reale è un insieme di particelle elementari per la ragione matematica: la disseminazione dei radionuclidi provenienti dai 2057 test nucleari comprovati dal 1957 in poi, fornisce d’altronde uno dei possibili marcatori isocroni stratigrafici in grado di definire il nuovo strato sedimentario caratteristico di una nuova era geologica.
Così ogni materia, e non solo il carbone o il petrolio, è una riserva di energia suscettibile di essere convertita: il processo in corso si fonda su questa conversione. La Rivoluzione industriale è in effetti caratterizzata da un aumento esponenziale della produzione di energia: dai 305 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) nel 1800, il consumo energetico mondiale è passato a 1.000 Mtep nel 1900, per raggiungere i 9.242 Mtep nell’anno 2.000; oggi supera i 14.000 Mtep e continua a crescere. La produzione di energia è stata ottenuta grazie ad una demoltiplicazione delle fonti, che non si sostituiscono mai le une alle altre ma si addizionano, il che porta a trasmutare sempre più materia in energia: una liberazione brutale di energia che definisce un’esplosione. Svante Arrhenius, chimico che ha messo in evidenza le conseguenze dei tassi di CO2 sull’effetto serra e dimostrava già nel 1896 la possibilità di un riscaldamento climatico, nel 1923 constatava che “abbiamo consumato in dieci anni tanto carbone fossile quanto l’uomo ne ha bruciato per tutto il tempo passato. Lo sviluppo è stato, per così dire, esplosivo, e corriamo verso una catastrofe. Questo progresso esplosivo è il segno distintivo dell’industrialismo”.

L’Antropocene non può che collocarsi sulla scala dei tempi geologici e, in effetti, un processo che consuma nel giro di due o tre secoli i miliardi di tonnellate di idrocarburi accumulatisi nel sottosuolo in centinaia di milioni d’anni, e questo per produrre energia e calore, dev’essere considerato un’esplosione.
La nostra epoca si caratterizza per il dominio totale della ragione e questo dominio è atomizzazione: la storia della scienza è una tragedia, il cui epilogo (in greco katastrophè) è esplosione. Ci sono voluti meno di vent’anni per passare dalla fisica fondamentale (quinto congresso di Solvay, 1927) alla bomba atomica (Hiroshima e Nagasaki, 1945). Quando, il 31 gennaio 1950, il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman ordina la fabbricazione della bomba a idrogeno, Einstein reagisce con un’arringa televisiva dove sostiene che “l’annientamento di ogni forma di vita sulla terra è entrato nel campo delle possibilità tecniche” e che “si profila sempre più chiaramente la distruzione generale”. Il New York Post allora titola: “Deportate l’impostore rosso Einstein!”: reazione inevitabile, in quanto denigrare il messaggero, oltretutto imputato di marxismo, è il modo più semplice per non tenere conto del messaggio. Einstein, in un’altra conferenza dello stesso anno 1950, osservava che “un tragico destino è toccato allo scienziato”, che si è “svilito fino a perfezionare, quando gli è stato ordinato, gli strumenti della distruzione totale dell’umanità”. Ancora più significativa la reazione di Oppenheimer che, più di ogni altro e riprendendo il titolo della sua biografia (Jai Bird e Martin Sherwin), ha incarnato “il trionfo e la tragedia” della scienza contemporanea quando, dopo il 16 luglio 1945, citando la Bhagavadgītā, disse che la scienza era “diventata la Morte, distruttrice dei mondi”.
Crepuscolo (dell’Occidente)
L’avvento della razionalità scientifica nella Grecia antica coincise con il superamento dell’empirismo che, in Egitto, in Mesopotamia o in Persia, accumulava casi particolari. Questo avvenne a beneficio di un idealismo che determina forme ideali, universali e astratte, quali sono, in modo paradigmatico, quelle della geometria: ma la forma deriva dall’eliminazione di ogni contenuto, l’universale dall’eliminazione di ogni particolarità e l’astrazione dall’eliminazione del concreto. La ragione conquista l’idealità grazie alla negazione della realtà, conquista l’oggettività grazie alla negazione della soggettività, cioè mediante il rifiuto del corpo e del suo rapporto intuitivo e sensibile con l’ambiente terrestre: la scienza è innanzitutto, e per essenza, negazione dell’ambiente, sempre relativo a soggetti concreti, a vantaggio dell’universo, oggettivo e astratto, la cui validità non è relativa a niente, e in tal senso assoluta. La ragione accede così al punto di vista dell’universale e può formulare verità che valgono per tutti, per tutto il tempo: questo caratterizza la conoscenza scientifica.
Questo punto di vista, che deriva dalla negazione della prospettiva che ogni essere vivente ha sul proprio ambiente e che è definito dall’antagonismo rispetto a questa prospettiva, altro non è che quello della morte. I tragici greci chiamavano l’uomo “il mortale”, i filosofi “l’animale provvisto di ragione”, ma l’uomo è questo solo nella
misura in cui è quello: è il vivente la cui vita è accompagnata dalla morte, il cui essere stesso è penetrato dal nulla e si definisce per una potenza di negazione che è radice dell’astrazione, della formalizzazione, dell’universalizzazione e dell’assolutizzazione. Il linguaggio stesso è opera di morte: ogni lingua è una lingua morta, e per questo gli scrittori sono così importanti: il loro lavoro consiste precisamente nel ridarle vita. Celine lo dice meglio di chiunque altro: “La lingua cosiddetta pura, il francese impeccabile, raffinato, è una lingua sempre morta, morta dall’inizio, cadavere, dead as a door nail (morta stecchita). Lo sanno tutti, non lo dice nessuno, nessuno osa dirlo. Una lingua è come tutto il resto, muore continuamente, deve morire. Occorre rassegnarsi, la lingua dei soliti romanzi è morta, sintassi morta, tutto morto. Anche i miei moriranno, presto senza dubbio, ma avranno avuto una piccola superiorità rispetto a tanti altri, per un anno, un mese, un giorno avranno vissuto”.
L’avvento della razionalità in Grecia antica è inestricabilmente legato a una lingua, il greco, alla sua potenza di astrazione – in particolare l’uso del neutro, che permette di trasformare verbi e aggettivi in concetti -, di cui l’opera di Platone è l’esplicitazione sistematica. Tutto il pensiero di Platone punta contro la tesi di Protagora secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”, alla quale egli oppone che “Dio è misura di tutte le cose”: questo Dio altri non è che Ade, il dio della morte, “un saggio perfetto, un grande benefattore”. Platone ripete costantemente che il filosofo raggiungerà la saggezza alla quale aspira solo dopo la morte, gli dà come regola di vita il “tendere verso uno stato alquanto vicino alla morte”, concepisce la vita come una malattia la cui guarigione è la morte e definisce la filosofia come desiderio di morte. Quando si tratta di precisare lo statuto delle “idee” alle quali ciascuno accede con la “purificazione” di tutto ciò che viene dal corpo, ne fa la reminiscenza di un “tempo anteriore”, che egli identifica col regno dei morti perché, dice, “i vivi vengono dai morti”. La reminiscenza è revenance (ritorno spettrale) e Platone scopre lo statuto fantomatico delle idealità: noi siamo fondamentalmente eredi: ereditiamo le idee con le quali pensiamo, che restano in noi malgrado la morte del loro creatore, e stanno dunque in noi come fantasmi. Ogni società è fatta più di morti che di vivi e noi pensiamo solo nella misura in cui ci lasciamo abitare (hanter-infestare) e possedere dallo spirito dei morti: uno spirito che è, dunque, dopotutto, uno spettro.

La configurazione greca della razionalità sistematizza così l’approccio a tutte le cose sub specie mortis, dal punto di vista della morte, ed è questo che definisce l’Occidente: dal latino Occidens, “tramonto”, “fine del giorno”, “crepuscolo”. L’Occidente è la luce crepuscolare nella quale si rivela la verità di ogni cosa, ed è la tragedia della conoscenza, per la quale la verità oggettiva si conquista solo con la morte, effettivamente universale, mentre la vita, soggettiva e singolare, produce e richiede l’illusione: “La verità, è un'agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire”, scriveva Céline nel Voyage. Perciò non dobbiamo confondere Europa e Occidente: l’Europa è una regione geografica particolare, l’Occidente è il crepuscolo dell’Europa, non è una regione geografica ma una dimensione spirituale, cioè spettrale, il che fonda la sua universalità e lo rende indipendente da ogni luogo particolare – la potenza dell’Occidente nel XX secolo non fu peraltro esercitata dall’Europa, autodistrutta nelle guerre 1914-1945, ma dagli Stati Uniti, il cui impianto nell’America del Nord ha comportato la morte di 18 milioni di autoctoni, nonché la deportazione e la schiavitù di 500.000 africani. La nostra epoca è il trionfo assoluto dell’Occidente, che, nel momento in cui la Cina sta per diventare la prima potenza scientifica del mondo, è effettivamente universale; a dispetto dello slavismo pseudo-dostoevskiano che gli serve da ideologia, Vladimir Putin non rappresenta in niente un’alternativa all’Occidente e si limita a scatenare la potenza distruttiva dell’atomismo e del numerismo: siamo tentati di consigliargli di (ri)leggere L’idiota, forse prenderebbe coscienza di non essere altro che un posseduto.
L’Occidente si è definito attraverso un principio di morte che non traspare soltanto nelle speculazioni metafisiche ma anche nelle istituzioni che l’hanno attuato: le religioni monoteiste medievali – tra cui l’Islam, che (occorre precisarlo nel caos ideologico contemporaneo) è parte integrante dell’Occidente – furono neoplatonismi e hanno imposto a interi popoli la metafisica dell’Uno e, quindi, la “rinuncia alla carne“ (Peter Brown), l’ascetismo, la mortificazione, la claustrazione, la rimozione del desiderio, il sacrifico di sé, l’odio del mondo e delle donne: hanno visto il loro ideale di sottomissione nell’inerzia del cadavere (perinde ac cadaver) e hanno sistematizzato la concezione della vita come semplice anticamera della morte.

La modernità ha tentato, certo, con un debole successo, di chiudere con questo impero dell’Universale (in greco katholikón, che ha dato origine a “cattolico”), ma solo per proporne una nuova elaborazione: Galileo fonda la scienza moderna rifiutando l’empirismo aristotelico a favore dell’idealismo platonico, cioè rifiutando il punto di vista del soggetto sul suo ambiente – che non può in effetti oltrepassare il geocentrismo – a favore del punto di vista matematico sull’universo, che procura la verità oggettiva ma al prezzo del sacrificio del soggetto. La modernità rompe con la sottomissione all’Uno (Dio) solo per scatenare la potenza dell’unità (il numerico), potenza che è quella dell’atomizzazione, cioè della distruzione. In un testo del 1971 intitolato La Thanatocratie, Michel Serres sottolineava il pericolo inerente alle scienze e alle tecniche contemporanee, e poneva la questione: “Da dove viene la nostra corsa al suicidio calcolato, che fa della nostra ragione una ragione di morte?”; ne abbozzava una genealogia per arrivare a Platone, e concludeva: “Tutto è già lì, a partire dal miracolo greco, questa immensa catastrofe storica dove dal logos trasudano distruzione e omicidio. La ragione è genocida fin dal suo concepimento. La scienza, quella vera, abita tranquillamente l'istinto di distruzione e di annientamento”. L’Antropocene è, più precisamente, Logocene, e questo è Tanatocene.
(continua)

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