La catastrofe che si avvicina (La catastrophe qui vient) Seconda parte

Jean Vioulac
8 febbraio 2025

La catastrofe che si avvicina (La catastrophe qui vient)

Seconda parte

(Leggi la prima parte cliccando qui)

La pulsione di morte

Da qui il compito di portare alla luce il rapporto primordiale dell’uomo con la morte e divulgare così un segreto inconfessabile, quel desiderio inconscio sepolto negli strati più arcaici che Freud concepì nel 1924 come “pulsione di morte”. Freud, contemporaneo della prima guerra mondiale, dei fascismi e dei totalitarismi, ha pensato l’uomo in base a ciò che la nostra epoca rivela; il suo pensiero appartiene anche alla rivoluzione filosofica che non situa più il fondamento in un al di là eterno ma in un al di qua temporale - l’abisso dello psichismo umano nel quale si sedimenta un passato rimosso -, e perciò pensa le acquisizioni delle scienze contemporanee a partire da una metapsicologia e non da una metafisica.

La biologia mostra che la vita appare con l’organismo e che la sua specificità è rappresentata dallo scambio costante con un ambiente e dall’autoregolazione. L’organismo è dunque esposto a perturbazioni provocate da questo ambiente, ma tende sempre a ritrovare il suo equilibrio interno, caratterizzandosi per una tendenza costante a ritrovare il suo stato anteriore. Se si estende la validità di questo principio alla vita in quanto tale, e poiché la vita appare sulla terra a partire dalla materia, bisogna supporre che ci sia n  ella vita una tendenza a tornare verso ciò che la precede, cioè lo stato inorganico, l’inanimato. La nozione freudiana di pulsione di morte fu spesso mal compresa, perché confusa con la tendenza suicidaria, ma la pulsione di morte non è incompatibile col mantenimento della vita, poiché è il tentativo di dare alla vita un modo d’essere che l’avvicini al minerale: è aspirazione a uscire dal “campo della lotta” (Houellebecq), è ripiego e anestesia, capitolazione del desiderio, tentativo di ridurre al minimo le attività vitali e accedere così all’impassibilità della materia.

La tendenza suicidaria è patologica ed eccezionale, la pulsione di morte è la norma e la regola, si manifesta in tutto ciò che permette alla vita di rinunciare alla spontaneità e di sbarazzarsi dell’attività a vantaggio dell’abitudine, della routine, del conformismo, del rituale, è evidente in tutte le religioni tese alla rinuncia, all’ascetismo, all’astinenza, è alla base dell’etica filosofica di Platone, che raccomanda espressamente di “tendere verso uno stato sufficientemente vicino alla morte” (Fedone?). Il linguaggio stesso, che è sempre innanzitutto lingua morta, è ciò che permette a ciascuno di noi di non pensare ripetendo macchinalmente luoghi comuni, stereotipi, frasi fatte. Se il destino di Jean-Claude Romand non è un semplice fatto di cronaca, è perché, come mostra Emmanuel Carrère ne L’Adversaire, “lui, la morte fatta uomo” non era più nient’altro che questa pulsione: “solo, egli diventava una macchina che guidava, camminava, leggeva, senza veramente pensare, né sentire, un dottor Romand residuale e anestetizzato”, incapace di suicidarsi perché in lui non c’era più nulla di vivente che potesse essere ucciso. La pulsione di morte è il desiderio dell’organico di tornare al meccanico, si traduce nella tendenza ad automatizzare i comportamenti, non si realizza nel suicidio ma nell’automatizzazione e nell’attività meccanica. Ora, automatismo e meccanica sono ciò che caratterizza precisamente il dispositivo industriale di produzione.

Il Macchinario (La machinerie)

Il lavoro nella pittura contemporanea | Associazione Nuova Civiltà delle  Macchine
Fortunato Depero, 1949

Il problema dell’impatto delle attività umane sull’ambiente mette in gioco la questione della tecnica perché, a partire dai primi ciottoli incisi da Homo habilis, l’uomo è sempre stato definito dall’uso di strumenti attraverso i quali agisce sulla materia naturale e la trasforma; la tecnica è uno dei principi dell’ominazione e ogni mutazione tecnica ha effetti antropologici. Ora, la Rivoluzione industriale è rivoluzione tecnologica, che ha fatto passare lo strumento dallo statuto di attrezzo a quello di macchina. L’attrezzo è uno strumento che l’uomo maneggia per agire sul mondo e accrescere così il suo dominio su di esso, la macchina spossessa l’uomo di strumenti, ormai azionati da un sistema automatizzato; l’uomo non è più padrone del suo gesto, come era l’artigiano, è subordinato a un processo che gli impone le sue procedure e il loro ritmo, come accade a un operaio su una catena di montaggio. Il macchinismo non accresce le competenze tecniche dell’uomo, al contrario; ne Le particelle elementari Michel Houellebecq fa dire a uno dei suoi personaggi: “Messo al di fuori del complesso economico-industriale, io non sarei capace di assicurare nemmeno la mia propria sopravvivenza; non saprei come nutrirmi, vestirmi, proteggermi dalle intemperie; le mie competenze tecniche personali sono largamente inferiori a quelle dell’uomo di Neanderthal”. Metteva così in luce come il passaggio dall’attrezzo alla macchina non sia un “progresso” della tecnica, ma la sua alienazione sistematica, che spossessa l’uomo di tutto il suo saper fare per trasferirlo a un dispositivo, al quale egli è totalmente e sempre più assoggettato.

Che un tale transfert di sovranità, che una tale delega di competenze, sia in grado di istituire una potenza nuova di dominio, Hobbes l’ha messo in evidenza quando ha concepito la forma specificamente moderna dello Stato – cioè l’apparato di Stato -, che ha chiamato “Leviatano” per sottolineare la mostruosità di un’entità derivata dall’alienazione degli uomini, e in questo inumana: la storia delle tecniche moderne altro non è se non questo transfert di sovranità e questa delega di competenze, che non istituisce lo Stato, ma quello che Marx chiama “Macchinario” (Machinerie), che definisce “mostro meccanico” dalla “forza demoniaca” in quanto totalmente emancipata dai limiti del corpo umano e che richiede precisamente le smisurate potenze nascoste nei sottosuoli geologici.

Fortunato Depero, 1930, Creative Commons

La “macchina dello Stato” indicava per Marx la potenza alienata della società che si rivolta contro di essa per dominarla, ma si trattava soltanto di un prototipo rudimentale che ha ancora bisogno di un uomo – il capo di Stato – per incarnare la sua ipseità, il suo sé (in greco autos): il macchinismo (machinisme) è definito dall’automatizzazione, dove un sistema di oggetti conquista la sua ipseità attraverso il suo stesso automatismo. Nel Macchinario “è l’automa stesso ad essere soggetto, mentre i lavoratori, organi coscienti, sono semplicemente affiancati in aiuto ai suoi organi incoscienti”, scriveva Marx nel 1867: l’automatizzazione è l’alienazione della soggettività, che procura a oggetti lo statuto di soggetto, spossessandone gli esseri umani, che diventano pezzi intercambiabili e rimpiazzabili e ben presto rimpiazzati. Marx è fondamentalmente il pensatore dell’”inversione del soggetto e dell’oggetto”, della “soggettivazione delle cose e cosificazione delle persone” caratteristiche della Rivoluzione industriale, ed è così che è possibile definire la macchina: un sistema di oggetti provvisti degli attributi di soggetto.

L’avvento dello Stato fu quello di un nuovo soggetto, che dominava uomini ridefiniti dal loro assoggettamento e il cui potere di nocività, nelle guerre e nei totalitarismi, si è rivelato considerevole; Hobbes parlava di “uomo artificiale” dotato di un’”anima artificiale” per definire questa nuova potenza. Similmente il Macchinario è l’avvento di un nuovo soggetto artificiale che, con l’interconnessione e la messa in rete, si è esteso a dimensione planetaria, ed è questo soggetto che ora impatta sull’ecosistema: perché la sua potenza è incommensurabilmente superiore a quella degli esseri umani in carne ed ossa e perché è l’unica in grado di mettere in gioco “l’azione della coscienza dello spirito collettivo dell’umanità sui processi geochimici” che caratterizza, secondo Vernadski, l’”era della Ragione” nella misura in cui è essa stessa dotata di un’”anima artificiale”.

L'originalità della macchina sta nel fatto che si basa su un sapere scientifico: dalle sue origini nel Paleolitico, la tecnica si è sviluppata senza alcun rapporto con la scienza, e dalle sue origini in Grecia, la scienza si è sviluppata senza mai avere un'applicazione tecnica; il legame tra scienza e tecnologia va datato dal XVII secolo in Europa. La macchina è quindi un sapere scientifico oggettivato e reificato, la cui funzione è mettere in pratica un sapere scientifico, la mineralogia, la chimica, l'elettromagnetismo, la fisica atomica. Lo strumento è ciò che permette al soggetto di realizzare un'idea che ha “in testa” – è così che Marx caratterizza il lavoro umano rispetto all'attività animale -, la macchina realizza un sapere oggettivo, universale e astratto, la cui elaborazione è ormai opera di un dispositivo di ricerca basato sulla divisione del lavoro e la specializzazione dei compiti, un sapere che è esso stesso un prodotto del Macchinario.

La macchina include dunque in sé un proprio sapere, che è il principio della sua attività, è ciò che la anima, è la sua anima (dal latino anima, ciò che anima un corpo)

“La macchina, che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso che, per via delle leggi meccaniche in essa operanti, possiede una propria anima”, scriveva Marx, che fin dal 1858 constatava come, nel dispositivo industriale di produzione, l'operaio sia “al servizio di una volontà e di un'intelligenza estranee, diretto da questa intelligenza –la sua unità animatrice essendo collocata al di fuori di sé. Allo stesso modo, nella sua unità materiale, egli appare subordinato all'unità oggettiva del macchinario che, mostro animato, oggettiva il pensiero scientifico”. E concludeva che “il sapere sociale universale, la conoscenza, è diventato una forza produttiva immediata e di conseguenza le condizioni del processo vitale della società sono passate esse stesse sotto il controllo dell'intelletto generale”. Questo “intelletto generale”, questa “intelligenza estranea” in cui Marx vedeva l'“anima” del mostro-macchina, è ciò che oggi si produce come “intelligenza artificiale”. 

Lo spirito ordinatore (esprit ordinateur

La questione dell’”intelligenza artificiale” non può ridursi all’analisi delle performance di questo o quel computer, né al suo paragone col funzionamento del cervello umano: l’intelligenza, il pensiero, la mente … si tratta sempre di un fenomeno storico e sociale; l’intelligenza è sempre innanzitutto spirito comune, che può prendere forme molto diverse, come ha messo in evidenza l’antropologia del XX secolo mostrando la complessità e la profondità del “pensiero selvaggio” (Lévi-Strauss).

Oggi il pensiero egemone è la razionalità scientifica, figlia della matematizzazione del sapere avvenuta in Europa nel XVII secolo; il suo modello era il sistema assiomatico-deduttivo della geometria euclidea che, a partire da assiomi, deduce le sue proposizioni in modo necessario; in questo modo il rigore del ragionamento è garantito dall’eliminazione di ogni traccia di soggettività, per arrivare a un’oggettività pura dove le verità si deducono l'una dall'altra: automaticamente, dunque. L’eliminazione di ogni elemento soggettivo è resa possibile dall’algebra, che riduce tutti i dati a quantità numeriche, suscettibili di essere trattate mediante un calcolo. Leibniz alla fine del XVII secolo ha sistematizzato l’automatizzazione dei ragionamenti, l’identificazione del pensiero al calcolo, la numerizzazione integrale della razionalità e l’atomizzazione integrale di un reale definito da unità numeriche (gli “atomi metafisici” che egli chiama “monadi”); ha universalizzato il modello della macchina per pensare l’universo, il ui divenire è l’adempimento di un programma calcolato da Dio, cioè l’Uno. L’opera di Leibniz è “la fine del tempo di incubazione del principio di ragione” (Heidegger), ne esplicita, spiega e dispiega tutte le potenzialità, ne evidenza la logica di automatizzazione, numerizzazione, programmazione, atomizzazione e meccanizzazione. La ragione, diceva Leibniz, è principio in quanto “mente ordinatrice” (mens ordinatrix): prima ancora che venissero fabbricate le prime macchine, il pensiero è totalmente automatizzzato, è esso stesso una vasta macchina logica.

Ivo Pannaggi, 1925

Fin dal 1679 Leibniz aveva concepito un “calcolo binario”, che permetteva di ridurre ogni dato a una serie di 0 e 1: questo calcolo binario è all’origine dell’informatica, i cui principali fondatori (Gödel, Turing, von Neumann…) si sono in effetti riferiti a Leibniz. L’informatica è stata resa possibile dalla “numerazione di Gödel”, che ha consentito di universalizzare la riduzione a numeri, e dalla “macchina di Turing”, che ha oggettivato gli “stati mentali” del calcolatore umano per affidarli a un dispositivo meccanico. La teoria dell’informazione riposa sul riconoscimento della sua indipendenza sia rispetto alla materia che all’energia: la digitalizzazione dell'informazione le ha così permesso di esistere in modo autonomo rispetto ai supporti fisici in cui può essere implementata (differenza tra software e hardware), ha portato alla proliferazione di entità ideali e formali, quasi-immateriali (la cui unica materialità è quella dei flussi di elettroni che trasferiscono i dati digitali - ma la materialità degli elettroni è essa stessa problematica), capaci di attivare sistemi materiali, che esse animano, e di sopravvivere alla loro distruzione: esse sono, in questo senso, come la loro anima.

L'avvento dell'informatica negli anni Quaranta è il momento in cui la razionalità automatizzata e macchinica concepita da Leibniz acquisisce un potere esecutivo, dove le idealità formali sono in grado di comandare sistemi materiali: è il momento in cui il logos diventa software (logiciel), quello che Norbert Wiener, lui pure appellandosi a Leibniz, riconobbe e ribattezzò “cibernetica” (dal greco kubernêtikè, “tecnica di pilotaggio”, “arte di governare”) perché ne comprese immediatamente le conseguenze politiche e sociali.

Da allora la storia dell'informatica è quella della digitalizzazione di ogni cosa e della crescita esponenziale della quantità di entità formali e ideali (l'universo digitale equivale oggi alla capacità di stoccaggio di oltre 60 miliardi di SSD da 1 TB), ormai definitivamente al di là della portata dell'intelletto umano (la suite di software di Google ha più di 2 miliardi di linee di codice) e che possono essere elaborate solo dalla macchina stessa, la cui potenza di calcolo cresce a sua volta in modo esponenziale (il solo computer Frontier di Hewlett-Packard è capace di oltre un miliardo di miliardi di operazioni al secondo). Ma la storia dell’informatica è anche quella della presa tentacolare di questo universo digitale sugli uomini reali, in carne ed ossa: ci sono oggi più di 5,16 miliardi di internauti collegati in media 6 ore e 37 minuti al giorno, di cui 2 ore e 30 sui social network; 5,44 miliardi di persone hanno un telefono cellulare a cui dedicano 4 ore e 48 minuti al giorno. La scrittura alfabetica nell'antica Grecia ha permesso l'avvento di una "ragione grafica" (Jack Goody) che ha potentemente contribuito a strutturare la razionalità; i linguaggi informatici hanno stabilito il dominio di una ragione digitale, i cui effetti sono altrettanto considerevoli. In tal senso, l'informatica è un "fatto sociale totale" (Mauss), che ha profondamente riconfigurato la politica, la giustizia, la medicina, l'insegnamento, le relazioni sociali e familiari, il rapporto con il tempo e lo spazio, il pensiero, ovunque e sempre sottoposto all’imperativo del calcolo di ogni cosa.

La funzione cibernetica dell'informatica si manifesta oggi nella "regolazione algoritmica", che consiste nel delegare al software (ragione digitale) le funzioni dell'amministrazione (ragione grafica): il codice tende così a sostituire la legge, e la macchina dello Stato - la cui inefficienza, che gli rimproverano i suoi critici neoliberali, era la sua più grande virtù - viene sostituita da una macchina informatica - la cui efficienza è il più grande pericolo.

L'"intelligenza artificiale" non è dunque uno strumento che gli informatici avrebbero tra le mani, ma definisce il regime ontologico di un'epoca fondata su una ragione digitale automatizzata, in cui giunge a compimento quella razionalità che Leibniz aveva concepito come mens ordinatrix, "mente informatica", e Platone come noûs kubernétikos, "intelligenza governante", o "intelletto cibernetico"; è l'avvento dell'"anima artificiale" di un nuovo Leviatano, massa colossale di dati digitalizzati autoregolata da una smisurata potenza di calcolo, che conquista capacità sempre nuove e poteri sempre più estesi.

Lo Spirito di autodistruzione e del nulla

Vladimir Vernadskj per primo, nel libro eponimo del 1929, ha parlato di “biosfera” per circoscrivere lo strato del sistema terra definito dal vivente, ma ha anche proposto il concetto di “noosfera” (dal greco nóos, intelligenza) per sottolineare che con l’uomo si è aggiunto tutto un universo intellettuale e spirituale che ha esso stesso un impatto sul sistema terra; aveva capito fin dal 1924 che l’uomo era diventato una nuova forza geologica e questo non in quanto essere vivente ma in quanto essere intelligente. Nel 1943 egli concluse che “la noosfera è sul nostro pianeta un nuovo fenomeno geologico. Per la prima volta l’uomo diventa una forza geologica a grande scala”. Si chiarisce così l’identità sostanziale tra i due fenomeni descritti da Emmanuel Carrère: il disastro climatico è lo scatenarsi della potenza atomizzante della ragione numerica, nel che la nostra epoca è Logocene, ma il lógos può diventare potenza dominante solo perché è diventato il software di un Macchinario planetario e si è quindi esso stesso autonomizzato e automatizzato, conquistando così la sua ipseità (autós); la noosfera, diventata infrastruttura reale nel dispositivo informatico planetario, è quindi la potenza che si scatena contro la biosfera.

Umberto Boccioni, 1911

Questa potenza è indissociabile dall’alienazione degli esseri umani, che sempre più spesso rinunciano alle loro funzioni intellettuali e le delegano a sistemi automatizzati: calcolare, memorizzare, analizzare, osservare, sorvegliare, decidere, prevedere, pianificare, immaginare, scrivere, parlare... tutto ciò che era appannagio dei soggetti è trasferito a oggetti. L'“intelligenza artificiale” non va dunque cercata nel disco rigido di un computer, ma nella società globalizzata e in un'umanità ridefinita dall'impero cibernetico della ragione numerica, sempre più connessa e integrata al Macchinario - e sottomessa a un “progresso” vissuto come provvidenza. ChatGPT è l'innovazione tecnica che ha conosciuto la diffusione più rapida di tutti i tempi, il milione di utilizzatori è stato superato in cinque giorni per arrivare a 100 milioni in due mesi: questo mostra con chiarezza la profondità e la forza del desiderio che la macchina soddisfa: non pensare, non agire, obbedire in tutto. Questo desiderio è la pulsione di morte.

Si impone così la rivelazione antropologica che Dostoevskij formula ne I quaderni del sottosuolo: “Essere uomini, questo ci pesa, uomini con un corpo reale, nostro, fatto di sangue; ce ne vergogniamo, cerchiamo di essere uomini astratti, universali. Siamo tutti nati morti, e da molto tempo, i padri che ci hanno generato sono morti a loro volta, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto inventeremo un mezzo per nascere da un'idea”. L’animale si definisce per eredità, l’uomo per ereditarietà, e in questo senso, in effetti, egli nasce in un mondo di fantasmi, sempre abitato dai morti: lo spirito è spettrale, la potenza dominante della Storia, conclude Dostoevskij nella parabola del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, è “lo Spirito dell'autodistruzione e del nulla”, “quello Spirito di morte e di rovina” che ha “dimostrato di essere lo Spirito eterno e assoluto”. Questa potenza spettrale domina oggi attraverso la digitalizzazione e la virtualizzazione, e l'“intelligenza artificiale” è essa stessa intelligenza morta; le sue capacità di creazione sono nulle, può solo digitalizzare un’eredità e codificarla per farne un software, e dare così alle anime dei vecchi maestri il potere di ossessionare la macchina all'infinito, come Rembrandt, il cui spettro digitale ha dipinto un nuovo quadro nel 2016; sarà possibile produrre a volontà pseudo-romanzi del ciber-Balzac o del ciber-Zola – o del ciber-Carrère. La potenza del Macchinario è quella della morte, e per questo è distruzione del vivente.

Capitalismo e distruzione

La potenza e l’autonomia conquistati dal digitale, dall’astrazione, dallo spettro dello spirito, restano tuttavia difficili da concepire; il tentativo di pensare ciò che è in corso impone di radicalizzare l’inchiesta archeologica per mettere in luce l’essenza originaria dell’astrazione che definisce, a partire dai Greci, la ragione.

Nel pensiero di Platone, l'astrazione e l'universalità dell'idea derivano dall'eliminazione di tutte le caratteristiche concrete e particolari delle cose che permette, ad esempio, a partire da una molteplicità di cose belle, di circoscrivere l'idea di bellezza: questa è la loro “forma” o “essenza” (in greco eïdos). Questo processo di riduzione si opera attraverso il dialogo, scambio tra interlocutori che si svolgeva, su sollecitazione di Socrate, nell'agorà. L'agorà era in origine la piazza del mercato, dove avveniva un altro tipo di scambio, in cui si operava una riduzione simile: lo scambio commerciale implica infatti che le qualità particolari e concrete dei beni scambiati vengano messe tra parentesi, per ridurle a una quantità universale e astratta di cui essi ora sono solo una determinata frazione, il che li rende commensurabili. Questa quantità universale e astratta, puramente formale e ideale, è il valore, che è la ricchezza astratta, l'idea di ricchezza, l'essenza universale delle ricchezze reali, e che, inoltre, nella misura, si esprime in forma numerica (il prezzo).

È nella Grecia antica che inizia l’uso della moneta coniata, e la moneta impone l'uso di uno standard di misura e generalizza così la definizione delle cose attraverso una quantità numerica: definire le cose attraverso il numero e fondarle sull'Uno è ciò che Pitagora fece in teoria e che i Greci fecero in pratica; la scrittura alfabetica instaurava una ragione grafica, la monera istituiva già una ragione numerica, di cui il pitagorismo fu l'espressione sistematica. L'universale astratto non è quindi una semplice idea nella testa di un filosofo, è una potenza reale, efficace nel campo economico, sociale e politico: con la moneta, questo universale astratto diventa un oggetto, nel quale si cristallizza e si accumula, e attraverso il quale la forma ideale del valore acquisisce un'esistenza autonoma rispetto alla materia concreta di cui è la forma.

Fortunato Depero, 1930

 

Il valore è formale, ma ha un contenuto proprio, residuo della riduzione dei beni scambiati al loro più piccolo denominatore comune. Questo punto comune è che sono prodotti del lavoro: il contenuto del valore è il lavoro, esso stesso universale e astratto, l'essenza del lavoro. Ma questa essenza del lavoro (originariamente soggettivo) deriva dalla riduzione dei suoi prodotti (oggettivi) alla loro essenza formale: il lavoro è l'atto presente mediante il quale il soggetto mette in atto la sua potenza vitale; il prodotto è un oggetto, risultato inerte di questa attività; il valore è lavoro passato, lavoro morto, in qualche modo mummificato. Reificando il valore, la moneta permette a questo lavoro morto di sopravvivere. Le protomonete più arcaiche erano legate ai riti funerari e avevano la funzione di permettere ai vivi di appropriarsi della sostanza dei morti. La moneta permette sempre di materializzare un'eredità, di far sopravvivere il lavoro di un uomo dopo la sua morte, di far prosperare questo lavoro morto: la moneta, ha detto Hegel, è “la mutevole vita di ciò che è morto”.

Ora, la Rivoluzione Industriale si fonda su una rivoluzione economica che rovescia lo statuto della moneta: da mezzo di scambio, diventa fine della produzione; lo scopo di ogni attività è di produrre denaro, cioè di aumentare la quantità di valore. È ciò che chiamiamo “crescita”, che è illimitata e continua, poiché la quantità di valore prodotta è a sua volta reinvestita per accrescerla ancora di più: così il valore non è soltanto il fine del processo, ma anche il suo principio. Questa economia è il capitalismo, che solo Marx - perché erede di Hegel – ha saputo pensare: tutto il lavoro di Marx è consistito nel mostrare che c'è Capitale “quando il valore è soggetto” del processo, quando “diventa autonomo” e prende sé stesso come scopo; il Capitale, secondo la sua definizione, è “l'autovalorizzazione del valore”, e per questo richiede l'automatizzazione: Il capitale è un “soggetto automa”, è il software del Macchinario, di cui i capitalisti stessi sono soltanto “funzionari” e “schiavi”. Il Mercato, come riconosceva espressamente il suo apostolo Hayek, è un Macchinario cibernetico autoregolato, che universalizza la ragione numerica imponendo a tutto, dappertutto, tutto il tempo, il calcolo di ogni cosa, e producendo in massa individui incapaci di pensare se non in termini di rapporto costi/benefici.

La referenza a Marx si impone perché il capitalismo è una faccenda troppo seria per essere affidata agli economisti: un dispositivo che richiede un'infrastruttura tecnica ormai estesa alle dimensioni del pianeta, che mobilizza in massa tutti i popoli e riconfigura tutte le società, il cui fabbisogno di risorse naturali ha portato a una crisi ecologica di proporzioni geologiche, e che realizza in modo sistematico una razionalità la cui nascita e la cui elaborazione hanno occupato i venticinque secoli di storia dell'Occidente, un tale dispositivo non può essere affrontato a partire da questioni insignificanti come il “potere d'acquisto”, lo “spirito d’impresa” o la “libertà di commercio”. Occorre anche ricordare la differenza tra il pensiero di Karl Marx e quello che nel XX secolo è stato chiamato “marxismo”: una controrivoluzione teorica che ha operato un arretramento metodico di tutte le acquisizioni marxiane per ritrovare un monismo (Spinoza), un positivismo (Comte) e un industrialismo (Saint-Simon) precritici e diventare così un’ideologia industriale tra le altre, riducendo il problema del Capitale a quello delle disuguaglianze sociali.

Il capitalismo non è definito dalla sottomissione di una classe a un'altra - niente di nuovo sotto il sole - ma dalla sottomissione del lavoro al valore: il salariato riduce la molteplicità dei lavoratori concreti a una quantità di potenza di lavoro astratta, spossessa i lavoratori di questa potenza e la trasferisce al Macchinario globale, che la consuma per alimentare la turbina dell'autovalorizzazione. Il capitalismo universalizza e sistematizza 

l'alienazione della soggettività vivente in quella che Marx chiama “oggettività morta” o “oggettività spettrale” del valore. Il capitalismo non è lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, ma lo sfruttamento della soggettività vivente da parte dell'oggettività morta, che così conquista la sua pseudo-vita di macchina attraverso un parassitismo oggi evidente nell’influenza che il dispositivo digitale esercita su ciascuno di noi: la moneta, che era ciò che permetteva ai vivi di appropriarsi della sostanza dei morti, è diventata ciò che permette alla sostanza dei morti di vampirizzare i vivi. Marx - nato nel 1818, l'anno in cui Mary Shelley pubblicava Frankenstein o il Prometeo moderno - paragona sempre il Capitale a un vampiro, un lupo mannaro, un Moloch e, soprattutto, a un mostro:   “Incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività il capitalista trasforma il valore, cioè il lavoro passato, oggettivato, morto, nel Capitale, cioè in valore auto valorizzante, mostro animato che si mette a 'lavorare' come se avesse il diavolo in corpo”, scrive nel Capitale, dove precisa che ‘il Capitale è lavoro morto, che si anima solo succhiando come un vampiro dal lavoro vivente, e che è tanto più vivo quanto più ne succhia’.

Il sistema capitalistico di produzione è dunque -  la metafora è di Marx -, un vasto alambicco dove si realizza la transustanziazione alchemica di ogni realtà in quell'“identico sublimato” che è il valore: tutte le risorse, umane e naturali, sono mobilitate per produrre l'entità formale, ideale, astratta e spettrale del valore, la cui irrealtà si attesta oggi nella dematerializzazione di monete chiamate a diventare digitali, i cui scambi si identificano con giochi di scrittura informatici,  quindi con flussi di elettroni: tutte le risorse vengono così consumate, dunque distrutte, per trarne questo residuo, questa cenere, questa scoria, cioè l'irrealtà di un Capitale fittizio la cui bolla cresce proporzionalmente alla distruzione. Interamente basato sulla moneta, e quindi sul numerico, il capitalismo mette in atto l'atomismo, per il quale tutta la materia è valore potenziale da convertire secondo un coefficiente di massimo profitto. L'ipotetica “transizione ecologica” non cambierà nulla alla distruttività di un dispositivo che richiede risorse in quantità senza precedenti (i volumi di sabbia utilizzati per la produzione di cemento sono tali che si profila una carenza globale) e produce ogni anno miliardi di tonnellate di rifiuti, inquinando terre, fiumi e oceani a tal punto che nel 2050 più della metà dell'umanità si troverà in condizioni di stress idrico, con difficoltà di approvvigionamento di acqua potabile.

“Si direbbe”, lamentava Marx nell'aprile del 1856, ‘che tutte le nostre invenzioni e tutti i nostri progressi abbiano un solo scopo: dotare di vita e di intelligenza le forze materiali e ridurre la vita umana al rango di forza materiale’. Questo è in effetti il processo costantemente portato avanti e che oggi si avvicina alla sua soglia critica: il Macchinario globale riduce l'umanità a risorsa naturale e la fonde con le potenze geologiche, la solleva sempre più da attività sempre più automatizzate e la integra come ingranaggio, la ossessiona e la possiede con tutti gli spettri dello spettacolo; la sua potenza accumulata si scatena nella “guerra insensata e suicida contro la natura” evocata nel maggio 2023 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite. In questo senso, la nostra epoca segna la fine del tempo di incubazione della pulsione di morte, che prende la forma di ciò che Freud concepì come “pulsione umana di autodistruzione”. Mentre i climatologi avvisano che sono state toccate soglie di irreversibilità, il mondo sembra essersi messo d'accordo per preparare la prossima guerra mondiale, con spese di armamenti che hanno raggiunto i 2240 miliardi di dollari nel 2022, data alla quale l'obiettivo della COP15 di destinare 100 miliardi alla lotta contro il riscaldamento climatico non era stato raggiunto.

Anselm Kiefer, I Sette Palazzi Celesti (foto di Henz Bunse)

Lungi dall'essere una semplice ipotesi di Freud, la pulsione di morte è la verità interna della nostra epoca. Questa è definita dalla razionalità scientifica, e la scienza per eccellenza dell'era industriale è la termodinamica, fondata da Sadi Carnot nel 1824 e il cui secondo principio è stato formulato da Rudolf Clausius nel 1865: è il principio dell'entropia, che fa della morte termica dell'universo l'orizzonte di ogni cosa, e stabilisce così la pulsione di morte come principio cosmologico. La formulazione del principio di entropia è il momento in cui la razionalità, che aveva fondato l'universalità della sua verità sul punto di vista della morte, scopre nella morte il principio universale della realtà. È in effetti la prospettiva che ci è imposta dalle scienze contemporanee, compresa l’antropologia; sappiamo ormai che l'Homo sapiens è una specie tra le altre e che tutte le specie sono mortali; sappiamo anche che diverse specie umane sono vissute e scomparse; l'uomo di Neanderthal, che era dotato di linguaggio e di pratiche artistiche e funerarie, è scomparso circa 30.000 anni fa in condizioni climatiche per nulla critiche. Sapiens scomparirà e l'ipotesi di una sua scomparsa a breve o medio termine non è insensata: l'ipotesi vertiginosa prospettata da Emmanuel Carrère - “un tale caos, non è mai successo, non è una fase, è la fine” - questa ipotesi non può essere spazzata via da semplici proteste di ottimismo.

C’è urgenza di un’azione concertata, dunque della politica: ecco perché Emmanuel Carrère sottovaluta la posta in gioco della “fine della democrazia”, ovvero l'ascesa dei neofascismi e dei fondamentalismi religiosi: è precisamente la possibilità di un'azione comune e ragionata, basata su un sapere condiviso che, nell’era della Post-Truth e della guerra di tutti contro tutti, è messa in discussione. Ma giustamente riconosce che nessuno ha detto che c'è una soluzione: l'Antropocene confuta l'ottimismo di Marx, quando pensava che “l'umanità solleva sempre e solo problemi che può risolvere”; l'assenza di soluzione non significa che non ci sia un problema, così come l'incurabilità di una malattia non rende meno pertinente una diagnosi. Forse occorre pensare alla sua infanzia, all'infanzia dell'umanità, a ciò che fu l’uomo, “questa specie dolorosa e vile, appena differente dalla scimmia, che tuttavia portava in sé tante aspirazioni nobili, questa specie tormentata, contraddittoria, individualista e litigiosa, infinitamente egoista, capace di inaudite esplosioni di violenza, ma che non smise mai di credere alla bontà e all'amore”, alla quale Michel Houellebecq dedica Les Particules élémentaires.

Note:

1. Abbiamo voluto inserire alcune immagini di pittori futuristi, rappresentative di un nuovo mondo immaginato come esito e causa di inarrestabile progresso.   Citiamo dal Manifesto del Futurismo (1909) – scritto e firmato da Filippo Tommaso Marinetti: “Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta”.

2. Karl Marx, Frammento sulle macchine.

Finché lo strumento di lavoro rimane, nel senso proprio della parola, strumento di lavoro, così come, storicamente e immediatamente, è accolto e inserito dal capitale nel suo processo di valorizzazione, esso subisce solo una mutazione formale per il fatto che, ora, non appare più solo – dal suo lato materiale – come mezzo di lavoro, ma anche – e nello stesso tempo – come un modo particolare di esistenza del capitale determinato dal processo complessivo di quest’ultimo: come capitale fisso.

Ma, una volta accolto nel processo produttivo del capitale, il mezzo di lavoro percorre diverse metamorfosi, di cui l’ultima è la macchina o, piuttosto, un sistema automatico di macchine (sistema di macchine; quello automatico è solo la forma più perfetta e adeguata del macchinario, che sola lo trasforma in un sistema), messo in moto da un automa, forza motrice che muove se stessa; questo automa consistente di numerosi organi meccanici e intellettuali, in modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso. Nella macchina, e ancor più nel macchinario come sistema automatico, il mezzo di lavoro è trasformato – nel suo valore d’uso, e cioè nella sua esistenza materiale – in una realtà esterna adeguata al capitale fisso e al capitale in generale, e la forma in cui è stato accolto – come mezzo di lavoro immediato – nel processo produttivo del capitale, è tolta e trasformata in una forma posta dal capitale stesso e ad esso corrispondente.

La macchina non appare in alcun modo come mezzo di lavoro dell’operaio singolo. La sua differentia specifica non è affatto, come nel mezzo di lavoro, quella di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto; ma l’attività stessa dell’operaio è posta ora in modo che si limita essa a mediare il lavoro della macchina, l’azione della macchina sulla materia prima; a sorvegliare questa azione e a proteggerla dalle perturbazioni. A differenza dello strumento, che l’operaio anima – come un organo – della sua propria abilità e perizia, e il cui maneggio dipende quindi dalla sua virtuosità. Mentre la macchina, che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima nelle leggi meccaniche in essa operanti e consuma (come l’operaio mezzi alimentari) carbone, olio ecc. (matières instrumentales) per mantenersi continuamente in movimento. L’attività dell’operaio, ridotta a una semplice astrazione di attività, è determinata e regolata da tutte le parti dal moto del macchinario, e non viceversa. La scienza, che costringe le membra inanimate del macchinario – grazie alla costruzione in cui sono inserite – ad agire funzionalmente come un automa, non esiste nella coscienza dell’operaio, ma agisce – attraverso la macchina – come un potere estraneo su di lui, come il potere della macchina stessa. L’appropriazione del lavoro vivo ad opera del lavoro oggettivato – della forza o attività valorizzante ad opera del valore dotato di esistenza propria –, che è nel concetto stesso del capitale, è posta – nella produzione basata sulle macchine – come carattere del processo produttivo stesso, anche nei suoi elementi materiali e nel suo movimento materiale.

Il processo produttivo ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo trascenda e lo comprenda come l’unità che lo domina. Esso, il lavoro, appare invece solo come organo cosciente in vari punti del sistema meccanico nella forma di singoli operai vivi; disperso, sussunto sotto il processo complessivo del macchinario, esso stesso solo un membro, un anello del sistema, la cui unità non esiste negli operai vivi, ma nel macchinario vivente (attivo), che appare di fronte all’operaio come un possente organismo rispetto alla sua attività singola e insignificante.

L’accrescimento della produttività del lavoro e la massima negazione del lavoro necessario sono – come abbiamo visto – la tendenza necessaria del capitale. La realizzazione di questa tendenza è la trasformazione del mezzo di lavoro in macchinario. L’evoluzione del mezzo di lavoro a macchinario non è accidentale per il capitale, ma è la trasformazione e il riadattamento storico del mezzo di lavoro ereditato dalla tradizione in forma adeguata al capitale. L’accumulazione della scienza e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, rimane così – rispetto al lavoro – assorbita nel capitale, e appare quindi come proprietà del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo produttivo come mezzo di produzione vero e proprio. Il macchinario appare così come la forma più adeguata del capitale fisso, e il capitale fisso, se si considera il capitale nel suo rapporto a sé stesso, come la forma più adeguata del capitale in generale. D’altra parte, in quanto il capitale fisso è inchiodato alla sua realtà di valore d’uso determinato, esso non corrisponde (non è adeguato) al concetto del capitale, che – come valore – è indifferente ad ogni forma determinata di valore d’uso e può assumere o deporre ciascuna di esse come un’incarnazione indifferente. Per questo aspetto, e cioè se si considera il capitale nel suo rapporto verso l’esterno, il capitale circolante appare come la forma adeguata del capitale rispetto al capitale fisso.

Dai Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie [Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica], Dietz Verlag, Berlin 1953, pp. 583-594.

Il testo fu pubblicato su «Quaderni rossi», 4, 1964, pp. 289-300. La versione fu proposta a Renato Solmi da Raniero Panzieri, che nello stesso numero interviene sul brano dei Grundgrisse.

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