(Ri)accendiamo il Classico

Una guerra, tutte le guerre. Kiev, Sarajevo, Troia

26 novembre 2022

Giornata di studio

seguita da

proiezione della tragedia di Euripide Troiane

(Teatro Greco di Siracusa, 2019)

La quarta edizione di (Ri)accendiamo il classico si svolge quest’anno in collaborazione con l’associazione Orlando. La drammatica congiuntura storica esige una riflessione sulla guerra, nel convincimento che non si dà pensiero e costruzione di pace senza la piena, lucida consapevolezza della follia della guerra. Ancora una volta, come per le edizioni precedenti, sarà convocato un dramma antico per parlarci del presente.

Nel 415 a. C. fu rappresentata ad Atene una tragedia di Euripide che aveva come protagoniste le donne, quelle troiane che la sconfitta destinava all’esilio e alla schiavitù: Τρῳάδες, Troiane, tragedia di donne, che inscriviamo nel quadro della giornata mondiale contro la violenza sulle donne voluta dalle Nazioni Unite nel 1999.

Troia - archetipo di tutte le guerre – è specchio tragico della nostra attualità, in quel brevissimo arco di storia – trent’anni appena - che per l’Europa si tende tra le guerre balcaniche e l’attuale guerra in Ucraina – tra Sarajevo e Kiev. Di quest’ultima cercheremo di comprendere le ragioni attraverso la ricostruzione dello storico Simone Attilio Bellezza, di quelle accoglieremo la memoria grazie ad Elvira Mujčić, scrittrice figlia di quei luoghi.

Samanta Picciaiola, presidente di Orlando, ci condurrà verso i temi del pomeriggio e Antonella Cosentino, italianista e scrittrice,  ci introdurrà al dramma euripideo; a chiusura della giornata, sarà proiettata la registrazione dello spettacolo andato in scena a Siracusa nel 2019. Seppure solo per immagine, ci restituirà qualcosa della potenza del teatro e ci offrirà la profondità della parola poetica: a ricordarci che ogni creazione è baluardo dell’umano contro il disumano parossismo delle armi.

PROGRAMMA

h. 9.45

Introduzione generale

Angela Peduto (presidente di OfficinaMentis)

h. 10 - 13

Ragioni e prospettive della guerra in Ucraina

Simone Attilio Bellezza (Università Federico II di Napoli) 

Scrivere per rammendare: memoria e storia di una guerra

Elvira Mujcic (scrittrice) 

Pausa

h. 15

Introduzione

Samanta Picciaiola (presidente di Orlando)

h. 15.30-17.30

Troiane di Euripide

Antonella Cosentino (italianista, latinista, scrittrice).

Proiezione delle Troiane di Euripide,Teatro Greco di Siracusa, 2019 (durata un’ora e trenta). Regia di MurielMayette-Holtz, con Maddalena Crippa nel ruolo di Ecuba.

 

RELATORI

Simone Attilio Bellezza

Storico, ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università Federico II di Napoli,, studioso della storia ucraina di cui è profondo conoscitore, membro della sezione italiana di Memorial (la cui casa madre è stata chiusa in Russia nel dicembre 2021). Tra i suoi libri, ricordiamo Ucraina. Insorgere per la democrazia (La Scuola, 2014) e il recentissimo Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa (Scholé, 2022)

Elvira Mujčić

Elvira Mujčić, nata in Serbia, vissuta in Bosnia e poi, a causa della guerra, riparata in Italia dove vive da più di vent’anni, è scrittrice e traduttrice letteraria. Tra i molti suoi libri, Al di là del Caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (Infinito, 2007), La lingua di Ana. Chi sei quando perdi radici e parole? (Infinito, 2012), Dieci prugne ai fascisti (Eliot, 2016).

Antonella Cosentino

Docente di italiano e latino presso il Liceo Scientifico Giordano Bruno di Budrio, autrice di romanzi e testi teatrali. Tra i suoi libri, Come un ramo sull’acqua (Bononia University Press, 2016) e I silenzi di Medea(Project, 2021). Partecipa dal 2017 alla progettazione e realizzazione delle giornate di (Ri)accendiamo il classico.

Ringraziamo l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) per la cortese concessione a scopo di studio del materiale audiovisivo.

Introduzione

Angela Peduto

Dopo la lunga interruzione dovuta alla pandemia, possiamo finalmente ritrovarci per la quarta giornata di (Ri)accendiamo il classico. Una giornata che può oggi realizzarsi grazie al lavoro comune di due associazioni: OfficinaMentis e Orlando.

Chi ha partecipato alle giornate precedenti - Supplici (2017), Fedra (2018), Medea di Pasolini (2019) - sa che questo progetto culturale scaturisce da un punto preciso – una sorta di seme - che ne è insieme l’elemento generativo, la fonte di energia e il centro gravitazionale: un dramma antico. Da questo punto nascono riflessioni che, obbedendo ad una irrinunciabile esigenza di pluralità, affidiamo a studiosi che hanno provenienze e parlano linguaggi disciplinari diversi. Il momento della riflessione prepara la proiezione del dramma in forma teatrale, che conclude la giornata ed è di solito la registrazione dello spettacolo andato in scena nel Teatro Greco di Siracusa (all’INDA, Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, va tutta la nostra gratitudine per l’autorizzazione a rendere pubbliche le registrazioni in occasione di queste giornate di studio). C’è in questa struttura di (Ri)accendiamo il classico un preciso intento: articolare e connettere elaborazione teorica e azione teatrale, movimento del pensiero e movimento scenico, logos e skené, perché ciascuno dà all’altro una profondità e un’intensità che ogni volta ci sorprendono.

Il teatro, dice il regista e drammaturgo Peter Stein, è nato dal movimento originario della razza umana, “dalla sua ciclicità, nascita, crescita e morte e poi rinascita di un altro essere e così via […] Il teatro racconta proprio questa esistenza tragica, assurda, paradossale […] La nostra società tenta di sradicare la tragicità dell’esistenza umana, rendendo tutto facile, tutto liscio, tutto calmo. Questa facilità della vita va contro il teatro”. Peter Stein evoca qui la necessità di un risveglio della coscienza tragica: da essa sorge il pensiero, da qui muove la possibilità di trascendere la bruta fattualità degli eventi, qui giacciono le grandi domande sulla condizione umana. Queste domande il teatro greco non ha mai smesso di porre: per questo un teatro così lontano nel tempo e così sfuggente a una ricostruzione degli elementi che lo compongono – peraltro sempre e solo ipotetica -, continua ad essere nutrimento necessario per noi, donne e uomini del terzo millennio.

Non un omaggio culturale all’antichità, dunque, anima queste giornate, ma uno sforzo di conoscenza di noi stessi e del nostro mondo alimentato dai testi tragici del passato quali ci vengono restituiti dagli interpreti di oggi.

Quest’anno è tornato in Europa l’orrore della guerra. Se il pensiero corre non a chi la guerra l’ha voluta ma a chi, innocente, la subisce, ecco alzarsi subito dalle lontananze del mito tragico il lamento delle donne troiane, quello che Euripide osò mettere in scena nel 415 a. C. davanti ai Greci – vincitori e bellicosi - che si preparavano alla disastrosa spedizione in Sicilia e pochi mesi prima avevano ferocemente spento nel sangue la ribellione della piccola Melo (l’odierna Milos).  La realtà della guerra che Atene combatteva in quegli anni si specchiava nel mito di Troia perché il poeta, pur rispettando la regola greca della ‘distanza tragica’, potesse mostrarne tutta la verità di follia e di morte e additare ai vincitori la futilità della vittoria.

Oggi come allora, Troia è specchio del presente: così come Euripide ce la consegna, col suo carico di follia, di rovina e dolore: archetipo della guerra che in sé riassume tutte le guerre passate e anticipa quelle future.

Il dramma di Euripide, in una Troia vinta e data alle fiamme, ha come protagoniste le donne, che la sconfitta destina all’esilio e alla schiavitù. Euripide non esalta il trionfo dei vincitori, non è l’eroismo guerriero – la “bella morte” celebrata dai greci - a parlare, ma la disperazione di chi ha perso tutto, libertà, casa, patria, affetti. Quando lo sguardo delle donne si posa impietrito sulle macerie e contempla l’orrore e la devastazione che le circonda, quando il dolore scuote i corpi e la voce si tramuta in grido, di colpo precipitiamo nell’insensatezza di una guerra che dice la brutalità e la follia di ogni guerra: ieri, oggi, ovunque. L’assassinio del piccolo Astianatte – figlio di Ettore e Andromaca - svela il senso ultimo della logica guerresca, in ogni momento storico e in ogni luogo: l’uccisione del futuro, insieme al presente e al passato. Ma le donne resistono: la loro parola è testimonianza che si oppone alla distruzione. La pietà, l’unione, le lacrime, i canti, sono baluardi contro la rovina e il caos.

Le donne resistono, come i poeti.

Rendere attuale il dramma euripideo vuol dire riflettere sulla guerra come evenienza antropologica ricorrente, che si ripete nel passare dei tempi e nel mutare dei luoghi, pur cambiando nelle forme e nei mezzi. La guerra non smette di risorgere e rinnovarsi, come se fosse indissolubilmente legata alla vita collettiva. Se le guerre sono sempre diverse (dal punto di vista dei fattori sociali, politici, economici che le generano e le sostengono) restano sempre uguali dal punto di vista antropologico, attingendo ad una sorta di comune fondo strutturale su cui Freud si è interrogato a partire dalle devastazioni della Grande Guerra, nel 1915, data delle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte.

La guerra in Ucraina è solo l’ultima, in ordine cronologico, delle esplosioni devastatrici che accompagnano e segnano il corso della storia: tragica per l’immenso disastro umanitario che produce, per le ripercussioni avverse che ha e avrà su gran parte del mondo e per i destini imprevedibili che si preparano, all’ombra di un riassetto globale degli equilibri geopolitici.

Interrogare l’inquietudine che sprigiona dall’attualità: era la formula con cui il filosofo Günther Anders enunciava la sua filosofia dell’occasione e che faremo nostra. Occorre assumere pienamente questa inquietudine e scavare l’attualità per farne emergere il più possibile la complessità.

È quello che chiederemo alla ricostruzione storica: dipanare, almeno parzialmente, il groviglio delle forze in gioco e, del teatro odierno di guerra, chiarire alcune ragioni, a partire dagli eventi passati. Simone Attilio Bellezza, storico, studioso e profondo conoscitore dell’Ucraina, ci guiderà in questo primo tempo del nostro percorso.

L’analisi storica si sforza di illuminare la concatenazione degli eventi, ne mostra la complessità, individua i punti di instabilità dove l’accrescersi delle tensioni porta, in un certo momento, all’esplosione non più controllabile e alla caduta verso quel punto di non ritorno che è lo scoppio bellico.  È la ricostruzione storica che permette di far luce sul presente, quel presente che senza legami col passato ci appare inquietante e incomprensibile; ma permette anche di “impadronirsi del ricordo che lampeggia nell’attimo del pericolo” (Walter Benjamin).

Sarà il lampo di questo ricordo a portarci verso il secondo tempo del nostro percorso che, andando a ritroso, si sposterà in un altro teatro di guerra. 1991 – 2001: il decennio delle guerre jugoslave, con gli orrori che conosciamo e l’assedio di Sarajevo, rappresenta una tappa cruciale della storia d’Europa. Il secondo tempo sarà quello della testimonianza e della memoria e ci affideremo a una scrittrice, Elvira Mujčić, che è figlia di quei luoghi e di quegli eventi. Non si tratta di confrontare questi due momenti bellici, ma di riaprire la ferita delle terre balcaniche - quella ferita di cui Sarajevo è il triste simbolo -, per guardare alla guerra di oggi con la consapevolezza che il ‘pensiero della guerra’ richiede, con la lucidità del disincanto e la volontà ostinata della pace.

Sarajevo, come Troia, specchio del presente. Specchio delle nostre lacerazioni e della nostra incapacità di costruire equilibri duraturi di pace e di convivenza. Specchio di un continente capace di produrre le più alte realizzazioni culturali e le guerre più spaventose. Abbiamo voluto credere, dopo il carnaio della Grande Guerra e gli orrori di Auschwitz, alla possibilità di una pace duratura basata sulla nostra capacità di limitare gli scontri e sui valori difesi dalle nostre democrazie: la pace c’è stata, ma all’ombra della Cortina di Ferro e della minaccia nucleare. Nel 1989 il muro di Berlino cadeva, sull’onda di quell’evento sismico che fu la perestroika voluta da Gorbaciov. Per un attimo sembrò che soffiasse forte il vento della libertà; e soffiò, ma intanto si aprivano nuovi orrori, proprio nel cuore dell’Europa. Ieri Sarajevo - luogo della grande utopia multiculturale e del suo fallimento -, oggi Kiev: specchio delle nostre violenze, delle nostre fratture, di un progetto di unione costantemente minato da forze di disintegrazione. La guerra attuale fa ‘tornare’ qualcosa che l’Europa credeva scongiurato, una brutalità che voleva pensare sparita. Ma la nostra coscienza collettiva si è solo sforzata di respingerla altrove, lontano – in altri luoghi, in altri mondi - o, come nel caso della Jugoslavia, ha provato a rinchiuderla nella specie della guerra etnica o locale, per cercare poi, in fretta, di dimenticare.

In principio era l’odio: questa affermazione di Freud è molto meno rassicurante di quella che recita “In principio era il verbo”. Inutile farsi illusioni: le costruzioni della civiltà sono fragili, la barbarie si annida nel cuore dell’umano, pronta a risorgere nel reale della storia.

Kiev - Sarajevo – Troia. Troia è anche il nome di Aleppo e di Baghdad, di Groznyj, Kabul, Gaza … di Mariupol, di Teheran, dei tanti, troppi luoghi del pianeta dove si uccide e si muore…

Il dramma di Euripide si chiude senza riscatto: Troia brucia e le sue figlie si avviano verso la servitù e l’esilio. I semi dell’odio daranno i loro frutti avvelenati nelle generazioni a venire.

Confrontata con i due totalitarismi, hitleriano e staliniano, H. Arendt li associò nel medesimo ‘male’, quello che dichiara superflua la vita umana e si arroga il diritto di annientare l’altro, di cancellare l’esistenza di un altro gruppo umano. Contro questo male non c’è altra speranza che continuare a costruire e proteggere l’amore per la vita, sapendo coraggiosamente accogliere le parole che trasmettono e testimoniano la verità della sofferenza umana. Queste parole, nella letteratura come nella testimonianza, sono atti di resistenza, di immaginazione, di pensiero, per poter credere nella possibilità che il mondo si trasformi.

Il lamento delle sopravvissute messo in scena da Euripide concluderà la nostra giornata di lavoro. Samanta Picciaiola, presidente di Orlando, ci introdurrà ai lavori del pomeriggio e sarà poi Antonella Cosentino a portarci verso le Troiane di Euripide: la proiezione dello spettacolo andato in scena a Siracusa nel 2019, benché solo in eco, ci consegnerà qualcosa del grande rito che ogni anno si svolge nel Teatro Greco: e saranno i gesti, le voci, i canti, i corpi, la parola poetica di 2.500 anni fa a farsi requiem dolente. Per tutti: perché nessuno in guerra è vincitore.

I poeti continuano a cantare anche dopo Auschwitz e nonostante il monito di Adorno. Come loro, a noi, a tutti noi, spetta il compito di continuare, instancabilmente e malgrado tutto, la tessitura della vita, fatta di legami: tra gli individui, i popoli, le culture, le lingue. A questo compito noi obbediamo col lavoro di oggi, con l’augurio e la speranza di riuscire a trasmettere lo spirito che lo anima.

Ringrazio le ragazze e i ragazzi dei licei, tutti i professori, tutti i presenti e i nostri relatori che generosamente ci fanno dono del loro tempo, della loro parola e del loro sapere.

Simone Attilio Bellezza: Ragioni e prospettive della guerra in Ucraina

Russia e Ucraina: due società, due popoli, due culture, due lingue, intrecciati da continui rapporti di scambio, oggi sono tragicamente e irreversibilmente separati. L’aggressione russa ha distrutto tutto ciò che ancora creava legami tra i due paesi: legami familiari e linguistici, riferimenti culturali comuni, coscienza di una storia condivisa, benché segnata da eventi spaventosi come l’Holodomor (vedi approfondimento).

A partire dal crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, le traiettorie politiche, economiche e sociali di Ucraina e Russia si sono allontanate fino a diventare divergenti, benché sarebbe un errore pensare che prima della dissoluzione dell’URSS non ci fosse che un’unica società. La storia comune in realtà era stata scritta cancellando differenze e aspetti che non si accordavano col racconto ufficiale, ma erano presenti nella vita quotidiana e nelle memorie familiari. Compito degli storici è cercare di ricostruire e comprendere le ragioni degli eventi, sforzo che risulta particolarmente difficile quando, come oggi, si esercita su eventi ad esso contemporanei.

Nulla consente di colmare l’abisso che si è aperto né di pensare l’immensa ferita della guerra, ma è necessario trovare qualche chiave di lettura per orientarsi nell’intricato paesaggio che abbiamo davanti, dove l’analisi storica si scontra con le letture ideologiche, la propaganda, l’utilizzazione strumentale del passato. Simone Bellezza è storico di professione, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università Federico II di Napoli, esperto di storia dell’Europa orientale e membro di Memorial Italia, la cui casa madre è stata chiusa in Russia nel dicembre del 2022.  Come specialista della storia ucraina - uno dei più importanti a livello nazionale -, è la persona più adatta per fornirci quelle coordinate di cui, nell’oscurità dei tempi, abbiamo grande bisogno.

Elvira Mujčić: Scrivere per rammendare: memoria e storia di una guerra

Les biens culturels détruits par le terrorisme et la guerre (en images)

1991- 2001: è lo spaventoso decennio delle guerre jugoslave. Mentre nel cuore dell’Europa vengono perpetrati orrori inauditi - massacri, omicidi di massa, stupri -, mentre migliaia e migliaia di profughi si muovono creando in queste terre nuove rotte di dolore, la comunità europea assiste impotente, confusa, inefficace o, peggio, assopita in una colpevole inerzia.

Le tappe di questa tragedia dovrebbero di diritto appartenere alla memoria storica e civile dell’Europa, le sue radici alle tensioni e alle contraddizioni che accompagnano il lungo corso storico che precede la catastrofe. I primi scontri avvengono in Slovenia nel giugno 1991, poi il conflitto accende la Croazia, dove la minoranza serba dichiara indipendenti le proprie regioni; rapidamente il fuoco della violenza divampa in Bosnia e nell’aprile del 1992 serbi, musulmani e croati si uccidono tra loro. Sarajevo è assediata dal 1992 al 1995; a Srebrenica nel luglio 1995 i reparti serbi massacrano più di ottomila musulmani e li gettano nelle fosse comuni. I Caschi blu assistono impotenti ad un conflitto che pare riportare il mondo indietro, a una barbarie che si credeva superata: la guerra di tutti contro tutti, l’inimicizia che divampa tra “vicini di casa”, la violenza contro colui col quale si era convissuto fino a ieri fianco a fianco, lo spregio per ogni elementare “regola” di guerra, sembrano materializzare in un incubo reale le speculazioni freudiane sulla pulsione di morte e mandare in frantumi l’idea stessa di una comunità di popoli e lingue, quale da secoli era esistita in quelle terre. Nel 1999, quando l’orrore coinvolge il Kosovo, le bombe NATO cadono su Belgrado. La guerra finisce, ma sappiamo che la pace non coincide con la fine degli scontri. È un processo lungo e faticoso, i cui esiti restano incerti, come mostrano le tensioni che continuano ad affliggere i Balcani.

Il ponte di Mostar - YouTube

Al di là degli accordi politici e delle forme di convivenza sociale, resta la terribile eredità che la violenza ha lasciato. Come è potuto accadere tutto questo? Cosa fare di questo passato? Come pensare gli innumerevoli traumatismi generati dagli stupri e dalla “pulizia etnica”?

Come possono i sopravvissuti, i figli, i fratelli, in patria o in esilio, convivere con la memoria di quanto è accaduto senza esserne sopraffatti, senza cadere nella follia, senza abbandonarsi all’odio? È la domanda che attraversa l’intera opera letteraria di Elvira Mujčić, il cammino della scrittura tentando ostinatamente di trovare risposte.

(https://www.lefantomedelaliberte.com)

Elvira appartiene a una generazione di scrittori esuli che, abbandonata la lingua madre – lingua dell’infanzia ma anche del traumatismo -, scrive nella lingua d’accoglienza, alterità linguistica che consente al tempo stesso narrazione e riparo. Se il libro d’esordio, Al di là del caos, è un viaggio autobiografico capace di trovare espressione letteraria, l’ultimo, La buona condotta, indaga il fondo soggettivo su cui la manipolazione politica si innesta, trasformando le individualità e le differenze culturali in rivalità inconciliabili e riattivando quanto di barbaro si annida nel cuore dell’uomo.

Simone Bellezza, Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa.

Nel gennaio 2022 usciva un libro di Simone Attilio Bellezza intitolato “Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa”. Questo l’incipit: “Da diversi mesi i mezzi di informazione danno ampio risalto alla notizia di una possibile invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia: dopo la presa della Crimea e la guerra ibrida iniziata nelle regioni di Donec’k e Luhans’k nel 2014, Putin si starebbe preparando a un conflitto per conquistare l’intero Paese”. Parole che sembrano profetiche, ma S. Bellezza è storico di professione e studioso attento e rigoroso di questa parte del mondo, tanto da poter essere considerato uno dei più profondi conoscitori della storia ucraina.

Nel corso della conferenza tenuta a Bologna alla fine del 2022, S. Bellezza ripercorre il cammino storico che, a partire dal 1991, momento di nascita dell’Ucraina come Stato indipendente, giunge fino all’esplosione del conflitto. Un cammino che, attraverso crisi e rivoluzioni politiche successive, porta l’Ucraina a imboccare la via della democratizzazione, del progressivo avvicinamento all’Europa e allontanamento dal polo attrattivo russo.  Lungo tutti gli anni Novanta il tessuto sociale, economico e culturale di Russia e Ucraina resta tuttavia molto simile. In entrambi i paesi il vero potere appartiene agli oligarchi. Al volgere del secolo in Russia Putin, ex funzionario del KGB, sale al potere. Ci si aspetta da lui che riporti l’ordine in una società violenta e corrotta, cosa che fa per i primi anni di mandato. Ben presto diventa però chiara la tendenza a centralizzare enormemente il potere e a renderlo sempre più autoritario e repressivo. Uccisioni, persecuzioni, carcere, avvelenamenti, diventano il destino dei dissidenti, considerati “traditori” della patria; repressione dei movimenti civili di opposizione, complicità col sistema degli oligarchi, annientamento sistematico della libertà d’espressione e della libertà di stampa, accompagnano un processo inarrestabile di cui vediamo oggi tutte le drammatiche conseguenze.

Mentre in Russia il potere diventa autocratico e sistematicamente annienta ogni forma di opposizione, in Ucraina si avvia, benché in modo incerto e contraddittorio, un processo di democratizzazione e di riforme, sostenuto e talvolta “imposto” dalla società civile: è ciò che accade nella “Rivoluzione arancione” del 2004-2005, quando le proteste popolari hanno la meglio contro i brogli elettorali e ottengono un terzo turno delle presidenziali. Questo movimento culmina nella “Rivoluzione di Maidan” del 2014, scatenata dal tentativo del presidente filo-russo Viktor Janukovyc di trasformare il paese in senso autoritario e reprimere l’aspirazione verso la libertà e la democrazia. Qui matura irreversibilmente un senso di appartenenza nazionale che si nutre della contrapposizione con la Russia di Putin: questa apparirà d’ora in poi l’incarnazione del radicalmente “altro”, modello negativo a cui contrapporsi come paese democratico. La risposta di Putin passa per l’annessione della Crimea e l’attivazione di una guerra ibrida nelle regioni di Donec’k e Luhans’k: la conseguenza è il rafforzamento sempre più acuto e radicale dell’identità ucraina. Così due popoli fino allora completamente intrecciati l’uno con l’altro – famiglie miste, lingue ucraina e russa parlate indifferentemente da tutti, circolazione e scambi continui tra un paese e l’altro – tragicamente si separano. Le persone rinunciano spontaneamente alla lingua russa, perfino molti scrittori, che fino a quel momento scrivevano in russo, passano all’altra lingua. Il desiderio di entrare nell’UE e nella NATO diventa maggioritario. Un’Ucraina democratica che conquista la propria libertà a forza di rivoluzioni liberali diventa per Putin lo spettro della sua più grande paura, perché un processo simile potrebbe accadere anche in Russia. Da qui la necessità assoluta di annientare, con la propaganda, la retorica, la riscrittura storica e le armi, la realtà di una democrazia nascente e pericolosa nei suoi possibili effetti di contagio.

Su questo link è possibile ascoltare la registrazione dell’intervento tenuto a Bologna il 26 novembre 2022 nella cornice della giornata di studio “Una guerra tutte le guerre. Kiev, Sarajevo, Troia”

Bibliografia:

Simone Attilio Bellezza, Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa, Scholé, 2022

Id., Atlante geopolitico dello spazio post-sovietico. Confini e conflitti, Scholé, 2022

Stéphane Courtois, Galia Ackerman, Il libro nero di Putin. Cronache di una dittatura, Mondadori, 2023

Masha Gessen, Il futuro è storia, Sellerio, 2019

Andrea Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Laterza, 2022

Id., L’Unione Sovietica 1914-1991, il Mulino, 2011

Bengt Jangfeldt, L’idea russa. Da Dostoevskij a Putin, Neri Pozza, 2022

Garry Kasparov, L’inverno sta arrivando, Fandango, 2016

Nicolai Lilin, Putin l’ultimo zar. Da San Pietroburgo all’Ucraina, Piemme, 2020

Orietta Moscatelli, Putin e putinismo in guerra, Salerno, 2022

Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi, 2022

Ead., Diario Russo 20023-2005, Adelphi, 2022

Ead., Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006, Adelphi, 2009

La dissoluzione della Jugoslavia

Vedran Smailović suona tra le macerie della Vijećnica, la biblioteca nazionale di Sarajevo

Gli anni 1990 furono segnati dalla tragica disintegrazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, nata dalla seconda guerra mondiale. Una serie di guerre precipitò la regione in un cupo susseguirsi di massacri, pulizie etniche, massicci esodi di popolazioni che fino a quel momento convivevano fianco a fianco e che si ritrovarono improvvisamente nemiche. Gli accordi di Dayton del 1995 posero fine agli scontri e ridisegnarono la carta geo-politica di quelle terre, ma lasciarono da parte la questione del Kosovo, che esplose di lì a poco. Di fatto la dissoluzione effettiva della Jugoslavia durò per l’intero decennio e si prolungò lungo i primi anni 2000. Da essa sono emersi la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina (divisa in due entità autonome: Federazione Croato-Musulmana e Repubblica Serba), la Macedonia del Nord, la Serbia e il Montenegro. Nel 2008 il Kosovo ha proclamato la propria indipendenza, che però non è riconosciuta dalla Serbia né pienamente riconosciuta a livello internazionale.

L’Europa politica affrontò la tragedia jugoslava con un misto di inerzia, impotenza, disunione. Il fallimento dei vari piani di pace era la crudele testimonianza dell’inefficacia di una comunità europea peraltro in piena costruzione. L’impotenza europea si consumò nel tragico spettacolo della città di Sarajevo assediata per quasi quattro anni (1992-1995) malgrado la presenza delle forze militari e umanitarie delle Nazioni Unite [1] ed ebbe il suo culmine nel 1995, quando i Caschi blu non impedirono l’ingresso delle milizie serbo-bosniache comandate da Mladić a Srebrenica, cui fece seguito sotto i loro occhi il massacro di più di 8.000 civili.

Le immagini dell’assedio di Sarajevo e delle folle doloranti che si spostavano in un senso e nell’altro, così come le notizie dei massacri di civili, delle “pulizie etniche” e degli stupri, fecero il giro del mondo, rinnovando il sentimento di una barbarie che si credeva superata.  

Anne Madelain (ricercatrice presso il Centre d’études des mondes russe, caucasien et centre européen (EHESS-CNRS) e studiosa dello spazio post-jugoslavo) offre un’analisi delle fasi e delle responsabilità che si sono giocate in queste guerre sanguinose. Dalla dissoluzione dell’ex-Jugoslavia è nata una (ri)composizione fratturata, attraversata da tensioni e conflitti che non trovano pacificazione.

Traduciamo alcuni passaggi di un suo articolo pubblicato nel 2019.

Anne Madelain, Yougoslavie, le pays disparu (Jugoslavia, il paese scomparso, 2019) [2].

Si dice che, alla vigilia dello scoppio del conflitto in Jugoslavia, nel 1991, l'ambasciatore francese a Belgrado fosse solito rispondere a chi gli chiedeva della stabilità del Paese: "Se la Jugoslavia scoppia, ci sarà da ridere". Questa battuta incongrua, visti gli eventi che seguirono pochi mesi dopo, testimonia ironicamente la sorpresa suscitata dall'implosione di questo paese.

Eppure, in breve tempo, l’implosione della Jugoslavia ha preso la forma di una falsa evidenza: questo paese sarebbe sparito perché quel “mosaico” di popoli, religioni e culture non era praticabile. Era uno Stato ‘artificiale’, creato nel solco della Grande Guerra e nella nuova divisione dell’Europa. Tolta la ‘cappa di piombo’ del comunismo, si sarebbero manifestati conflitti antichi, rapidamente qualificati come interetnici, il cui esito non poteva essere che la frammentazione.

Questo equivale a dimenticare quanto l’idea jugoslava abbia attraversato tutto il XIX secolo. Questo Stato federale di quasi 24 milioni di abitanti nel 1991, che aveva costruito un modello di socialismo originale dopo la rottura con Mosca, era il risultato di una lunga serie di lotte per l’emancipazione politica portate avanti in seno ad imperi multinazionali, quello austro-ungarico e quello ottomano. Più che il carattere artificiale di uno stato, è il contesto politico dell’Europa agli inizi degli anni 1990 che occorre esaminare, con la caduta dei regimi comunisti in Europa e in URSS. Se ci siamo così rapidamente abituati alla sparizione della Jugoslavia è perché essa coincide con la fine di un periodo, quello della Guerra fredda e della divisione dell’Europa, dove la vita politica e i riferimenti degli individui erano strutturati da utopie progressiste e lotte ideologiche.

Attraverso la loro forma, insieme nuova e arcaica, i conflitti jugoslavi segnano l’ingresso nella “crisi del pensiero sulla guerra” messa in evidenza dallo storico Stéphane Audoin-Rouzeau, l’incapacità, cioè, di comprendere i conflitti contemporanei, dove gli attori sono molteplici e mal identificati, e dove spesso la vittoria militare non si accompagna ad una vittoria politica.

[…]

L’interminabile assedio di Sarajevo (aprile 1992-settembre 1995), diffuso dai media di tutto il mondo, è stato percepito dai contemporanei come il simbolo di un conflitto postmoderno, che intreccia disgregazione di uno Stato, fenomeni di milizie locali, presenza internazionale sotto l’egida dell’ONU, cui la nuova era post guerra fredda sembrava dare un ruolo di particolare importanza. Molte volte l’incomprensione si è mescolata all’orrore.  Nell’estate del 1992 i giornalisti occidentali denunciano l’esistenza di “campi” nei territori controllati dalle forze dell’autoproclamata “repubblica dei serbi della Bosnia-Erzegovina”, dove le violenze massive ricordano violenze che si credeva appartenessero al passato del continente europeo. Le persecuzioni secondo criteri etnici danno origine alla formula della “pulizia etnica”.

[…]

La disgregazione effettiva della Jugoslavia dura per l’intero decennio 1990: dall’estate del 1990, momento in cui la protesta della minoranza serba della Croazia contro lo statuto che le è assegnato dal nuovo governo di Zagabria vira verso la rivolta armata (crisi di Knin) fino al giugno 1999, quando il Kosovo è posto sotto amministrazione ONU. La Jugoslavia continua formalmente a esistere fino al 2003, quando lo Stato successore prende il nome di Serbia-Montenegro, mettendo fine alla finzione di una continuità col vecchio Stato comune. La disgregazione proseguirà con l’indipendenza del Montenegro (2006), poi quella del Kosovo (2008), il cui riconoscimento da parte della Serbia è ancora nel 2019 oggetto di trattative politiche; vent’anni dopo la disgregazione continua a operare nella difficile ricostruzione delle narrazioni su questo passato recente.

La crisi jugoslava è caratterizzata dall’idea che una “comunità internazionale” ha il dovere di impedire o arrestare il dramma. Ora, non soltanto la presenza delle forze di pace in mezzo al conflitto aperto non ha impedito niente, ma spesso ha aggravato la situazione. È particolarmente evidente nel luglio 1995, quando la città di Srebrenica, nella Bosnia orientale, viene conquistata dall’armata dell’autoproclamata Repubblica serba guidata dal generale Ratko Mladić. La città, dove si erano rifugiati migliaia di bosniaci, era stata dichiarata zona sicura, smilitarizzata e posta sotto la protezione delle Nazioni Unite nel 1993. Non riuscendo a tenere la città, le forze di pace dell'ONU permettono ai soldati di Mladić di entrare. Gli aggressori si danno al massacro di più 8.000 uomini di origine musulmana. Un atto che pochi mesi dopo il Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia qualificherà come genocidio. I soldati della missione ONU hanno ripetutamente descritto l'inadeguatezza dei mezzi e dei fini, l'obsolescenza dei loro concetti di guerra e persino l'assurdità del loro mandato. Con un mandato di peacekeeping in un contesto di conflitto aperto, i Caschi blu spesso sono diventati alibi per un atteggiamento politico attendista, fino ad essere presi in ostaggio e umiliati in diverse occasioni. Quando gli ufficiali di più alto grado hanno cercato di far rispettare il loro mandato con la forza, sono stati addirittura richiamati all'ordine dalle Nazioni Unite, come racconta nel 2007 Sir Rupert Smith, comandante della Forpronu in Bosnia-Erzegovina nell’ultima fase del conflitto. Più di vent'anni dopo, il trauma dei soldati stranieri continua ad essere testimoniato da racconti che denunciano la perversità e la parzialità di questo intervento, che spesso ha de facto avallato l'uso della forza. […]

La disintegrazione della Jugoslavia si produce mentre la Comunità europea – diventata Unione europea nel 1993 dopo il trattato di Maastricht – cerca di affermare la propria capacità di essere non soltanto un ambiente pacifico di sviluppo, ma anche un nuovo orizzonte di aspettative positive, là dove il crollo del comunismo reale ha lasciato un vuoto ideologico a sinistra. In queste condizioni la regione rischia di diventare uno spazio di proiezione delle paure degli europei. Risorgono i discorsi stereotipati che assimilano i Balcani a un territorio arretrato e barbaro, dove il tempo si è fermato e dove dalla mescolanza dei popoli non possono che sorgere conflitti atavici.

Questi discorsi affondano, come ha mostrato la storica Maria Todorova, nella lunga storia delle relazioni che gli occidentali hanno intrattenuto con questo spazio periferico, assoggettato agli interessi delle potenze e degli imperi europei. Le analogie con le forme di violenza e i simboli del periodo nazista e della Seconda Guerra sono onnipresenti e rinforzano questo tipo di lettura, suscitando l’ingiunzione morale ad agire per lottare contro il ritorno dei vecchi demoni.

La mobilitazione internazionale non ha impedito un pesante bilancio degli anni di guerra: quasi 100.000 morti nella sola Bosnia-Erzegovina, di cui la metà civili. Queste guerre hanno visto un assedio che si credeva appartenesse a un’altra epoca, uccisioni di civili, un massacro nel 1995 qualificato come genocidio, milioni di rifugiati e di profughi, distruzioni massicce del patrimonio storico e culturale; esse segnano anche la fine della fiducia nelle forme di intervento internazionale immaginate nel dopo 1945, soprattutto con i Caschi blu.

[…]

Se la qualifica di “conflitto etnico” resta in ogni caso improprio, è incontestabile che la politicizzazione delle identità etniche sia stato un fattore decisivo. In questo processo le élite politiche e intellettuali hanno giocato un ruolo di primo piano.

[…]

Mobili nel tempo, le categorie etniche non sono tuttavia finzioni. I rapporti tra questi gruppi, in particolare nelle zone di forte mescolanza come la Bosnia, sono di lunga data, segnate dalla competizione per il possesso delle terre, per il potere nell’amministrazione e nell’armata, nonché dall’esistenza di reti sociali concorrenti, come le associazioni culturali, sportive o religiose. Il che non significa affatto che gli indicatori etnici e le appartenenze nazionali fossero primordiali nei rapporti sociali della Jugoslavia di fine anni Ottanta. È nel contesto di crollo del paese poi nel conflitto aperto che si radica l’”etno-ideologia”. Resta da comprendere, qui e altrove, come la politicizzazione, durante la guerra, delle strutture comunitarie etniche o religiose possa aver giocata un ruolo decisivo nei “crimini tra vicini” in Bosnia-Erzegovina.

[…]

Vent’anni dopo il ritorno alla pace le forme che l’uscita dalla guerra ha preso determinano il nostro modo di interpretare gli eventi. Malgrado le centinaia di opere pubblicate, resta un sentimento di opacità. La storia della Jugoslavia nel XX secolo tende ad essere reinterpretata alla luce di questo epilogo come conflitto o competizione tra i popoli che la componevano, piuttosto che come idea culturale prima che politica, quella di unificare e raggruppare gli Slavi del Sud.

Un’altra scappatoia è stata quella di interpretare i conflitti degli anni Novanta come conflitti “etnici” o nazionali, quando la politicizzazione delle appartenenze etniche sovente è stata piuttosto una conseguenza dei conflitti e del modo con cui è stata imposta la pace. In Bosnia-Erzegovina l’etnicizzazione dei rapporti sociali si è considerevolmente rinforzata nel quadro della divisione del paese in due entità e della decentralizzazione voluta dagli accordi di Dayton, con le sue conseguenze in materia di educazione, di mobilità delle persone, di funzionamento politico. Ovunque nella regione il marasma economico e l’assenza di prospettive di una vita migliore continuano ad alimentare questo processo. A ciò si aggiunge il bilancio spesso modesto nella gestione del dopoguerra, in particolare in Bosnia Erzegovina e nel Kosovo.

Il paese scomparso gioca oggi un ruolo ambiguo nella memoria dei cittadini degli Stati successori. Mentre le storiografie ufficiali ne hanno fatto un colpevole designato per i mali del presente, la "jugonostalgia", benché diffusa e ambivalente, è onnipresente. A partire dagli anni 2010, una nuova corrente della storia sociale e culturale si concentra sul periodo socialista. Una delle sue sfide è l’abbandono di letture escatologiche che fanno della guerra la logica continuazione della Jugoslavia. Questi storici si interessano alla vita quotidiana dei cittadini comuni, alle particolarità del regime socialista e analizzano i complessi passaggi tra rottura dei legami sociali e rivendicazioni nazionali, richiesta di democratizzazione e ripiegamenti comunitari, per portare alla luce gli elementi che hanno permesso l'esplosione della violenza.

(Anne Madelain, trad. di Angela Peduto)

NOTE:

1. Cfr. Pierre du Bois, “L’Union européenne et le naufrage de la Yougoslavie (1991-1995)”, in Relations Internationales 2000/4, n. 104, PUF, Paris. Consultabile online (https://www.cairn.info/revue-relations-internationales-2000-4-page-469.html)

2. Anne Madelain, “Yougoslavie, le pays disparu”, in L’Histoire, giugno 2019, consultabile online (cliccando qui)

Elvira Mujčić e i suoi Balcani.

Come reagire alla guerra, alla violenza, al crollo di tutti i riferimenti mentali e culturali che i popoli dell'ex Jugoslavia hanno attraversato, senza esserne ancora veramente emersi? Ne parla Anne Madelain in un bel testo sulla situazione della letteratura jugoslava costretta a confrontarsi con il tragico ultimo decennio del secolo scorso.

"Difficilmente lo scrittore resta fuori dalla storia; al contrario, il bisogno di testimoniare l’evento spiega l’assoluta necessità di scrivere, che spesso prende la forma di generi letterari specifici, come il diario o la lettera aperta. Lo scrittore bosniaco Velibor Čolić spiega che per “scrivere dopo la guerra occorre credere nella letteratura. Credere che la scrittura può rimettere in movimento meccanismi che erano stati messi da parte quando si usavano le armi. Che può riportare l’orrore, incomprensibile e inspiegabile, alla misura umana”.

Passata la fase della testimonianza, nell'ex Jugoslavia la letteratura è diventata una posta in gioco politica, entrando nei dibattiti sulla legittimità storica dei popoli, sull'incompatibilità delle loro memorie o sul "numero" delle lingue... I politici hanno chiamato gli scrittori alla riscossa, incaricandoli di diffondere il genere epico e con "il dovere di scrivere per la patria". Ma sono sorte anche voci a-nazionali: scrittori emarginati o costretti all'esilio, o disperatamente aggrappati alla memoria di una "lingua comune" (il serbo-croato, che si declina ormai in tre lingue) di cui si cerca di privarli. È proprio intorno alla lingua che è avvenuta la frattura intergenerazionale, con l'emergere dal 2000 di nuovi prosatori, poeti e drammaturghi, sostenuti da iniziative di vario genere. Queste, che siano private, locali, regionali o internazionali, mirano a ricostruire istituzioni culturali, un tempo sovvenzionate, poi devastate negli anni di conflitto, poi rinate a fatica e messe al servizio dei dogmi nazionalisti. La "normalizzazione" culturale sarà lunga, tanto la moltiplicazione delle nuove frontiere ne frena il progresso favorendo i ripiegamenti identitari. Ma a fronte di queste tendenze soffocanti, emergono autori che non rivendicano alcuna appartenenza, se non il diritto di esprimersi prima di tutto come individui, nella pienezza della propria soggettività" [1].

A questa generazione di scrittori appartiene Elvira Mujčić: è nata nel 1980 a Loznica, una località serba, per trasferirsi piccolissima a Srebrenica, in Bosnia, dove ha passato l’infanzia. All'inizio della guerra, nel 1992, fugge con la madre e due fratelli più piccoli: dalla Serbia alla Croazia, in un campo profughi, per approdare infine in Italia, dove oggi lavora come scrittrice e traduttrice letteraria. Del padre e dello zio si perderà traccia nelle fosse comuni di Srebrenica.

Il libro d’esordio è, nel 2007, Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica. Seguono La lingua di Ana. Chi sei quando perdi radici e parole? (2012), E se Fuad avesse avuto la dinamite? (2009), Dieci prugne ai fascisti (2016), Consigli per essere un bravo immigrato (2019) e infine, per Crocetti, La buona condotta (2023). Filo conduttore di tutti i suoi libri sono le terre balcaniche, con le lacerazioni fratricide delle guerre che le hanno sconvolte, lo smarrimento esistenziale di chi è stato costretto all’esilio, le fratture identitarie, la domanda mai risolta di come sia potuto accadere tutto questo.

Elvira, che ha lasciato giovanissima la propria lingua per entrare in una lingua nuova e ignota, scrive in italiano fin dal suo primo romanzo.

"Non so mai dire fino a che punto sia stata una vera e propria scelta scrivere in italiano. Credo di aver seguito il flusso della vita: a un certo punto dopo un anno di permanenza in Italia nel diario segreto che tenevo e scrivevo nella mia lingua madre sono comparse le parole italiane. Dapprima poche, poi sempre più frequenti, fino a quando la pagina è stata del tutto colonizzata. Non potevo oppormi. Nel mio caso la lingua è andata di pari passo con la vita e mentre crescevo in questo Paese l’italiano mi adottava, diventando la lingua madre della mia età adulta. Ora ho due lingue madre ognuna legata a un tempo della vita: in bosniaco sono eternamente una bambina, basta una parola e le porte dell’infanzia si spalancano: è una magia davvero preziosa. In italiano sono nata già adulta, tutta astrazioni, ho bisogno sempre di escogitare metodi per ancorarmi a terra. L’esilio segna una crepa tra ciò che siamo stati in un luogo e ciò che poi diventiamo nel Paese di adozione, è una frattura anche linguistica, a un certo punto quella lingua che io possedevo non riusciva più a contenere la realtà che vivevo, tutto andava rinominato, bisognava di nuovo imparare il gioco del far coincidere le parole e le cose.

In questo senso entrare in possesso di una lingua nuova per raccontare il proprio Paese d’origine è davvero liberatorio, c’è un processo di trasformazione che, al netto di quel che si perde e di quel che si guadagna nella traduzione, ci permette di reinventarci e anche di traghettarci da una sponda all’altra".

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Breve presentazione dell’opera letteraria di Elvira Mujčić

Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica è il resoconto di un sofferto viaggio interiore, teso tra un’infanzia lacerata dalla guerra e una giovinezza che disperatamente cerca soluzioni a un male d’esistere onnivoro, onnipresente. Ricordi lontani e vicini si intrecciano sullo sfondo di quell’insensatezza che è la guerra, tessendo una trama che si sforza di annodare quanto si è slegato, di ricucire i frammenti, di opporsi al caos per poter vivere dopo Srebrenica.

La lingua di Ana affronta il problema dello sradicamento da un mondo e da una lingua. La protagonista, un’adolescente moldava migrata in Italia, si rende conto di non sapersi esprimere totalmente né in italiano né in moldavo. "Forse non parlare e non capire una lingua è un po' come perdere uno dei cinque sensi. O forse, più probabilmente, è come perdere un pochino di ogni senso. Come se la realtà fosse percepita solo a metà e il resto andasse perso nella confusione. Inoltre, il mio non voler parlare era anche il mio non voler vivere qui, non volermi interessare di nulla e lasciare che il mondo se ne andasse per i fatti suoi, senza che io ne dovessi fare parte..."

E se Fuad avesse avuto la dinamite? Il libro ci trasporta ancora una volta nella follia della guerra. Zlatan, il protagonista del romanzo, è fuggito adolescente da una Sarajevo assediata; lì sono rimasti i genitori, a Višegrad è rimasta la nonna. Zlatan ritorna in questi luoghi ormai adulto, per una vacanza che diventa doloroso cammino nel passato.

Višegrad è tristemente famosa. Qui tutto ebbe inizio, fu qui che la pulizia etica – tremila musulmani massacrati – anticipò di tre anni gli orrori di Srebenica. Torture, stupri di donne e bambine, saccheggi, esecuzioni sommarie, omicidi di massa, roghi di esseri umani furono la quotidianità: dal 1992 Višegrad divenne l’inferno in terra. La narrazione di Elvira Mujčić, si dipana sullo sfondo di questi spaventosi eventi storici. Quando Zlatan torna deve confrontarsi con quanto ha finora evitato: la realtà di ciò che è accaduto, incubo che assilla la memoria dei sopravvissuti o che ne fa ormai soltanto dei morti viventi. Quali risposte trovare a ciò che nel suo smisurato orrore non si può comprendere? Come convivere con questa memoria? Come fare i conti con l’inaudito della violenza umana, con l’odio che si è abbattuto sulle vite fino alle sue forme più oscene e indicibili?

Dieci prugne ai fascisti è il racconto di un funerale che si dovrà fare: ma non è cosa semplice, perché si dovrà fare in Bosnia e siamo in una famiglia di esuli fuggiti dalla guerra e riparati in Italia negli anni Novanta. Nana, la

nonna, ha espresso nei suoi ultimi anni di vita questa sola volontà: essere riportata nel paese d’origine almeno per la sepoltura. Trattato con scrittura lieve e ironica, il dramma familiare, mentre si intreccia col dramma collettivo, non diventa mai cupo fardello, perché, come Elvira Mujčić ha detto in un’intervista, occorre riflettere oltre che testimoniare, perché “rimanere immobilizzati dentro una tragedia ci fa perdere di vista il futuro” (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Dieci-prugne-ai-Fascisti-intervista-a-Elvira-Mujcic-172039).

La riflessione inevitabilmente tocca la perdita di quella che fu una realtà multilinguistica e multiculturale, una perdita che oggi appare non solo irreversibile ma ancora più amara da constatare davanti alle nuove fratture e alle nuove lacerazioni che investono l’Europa, a partire dai suoi confini orientali.

"Dov’era morta la Jugoslavia? Forse non in un luogo solo. […] Con quello Stato eravamo svaniti anche noi, quel noi composto da ventitré milioni di individui chiamati jugoslavi, cancellati dalle cartine geo-politiche, riallocati all’interno dei confini più stretti delle nostre piccole Repubbliche indipendenti, e gli altri, a quel punto nemici, erano sempre di più. Il noi era diventato altro, da fratelli siamo diventati nemici giurati. Persino la lingua che parlavamo, il serbo-croato, non si chiamava più così, hanno deciso che bisognava darle un altro nome, per non confonderci, per distinguerci. Quindi abbiamo chiamato la stessa lingua in tre modi diversi, ci siamo inventati dei termini nuovi per renderci incomprensibili gli uni agli altri, alcuni sono stati banditi per cercare di cancellare la storia e passare al setaccio la nostra cultura meticcia, e trarne un’identità pura, ripulita, e tenercela stretta, proteggendola dalle contaminazioni". (Dieci prugne ai fascisti, p. 104)

Consigli per essere un bravo immigrato. Ismail, arrivato in Italia dal Gambia, deve affrontare la Commissione che deciderà del suo destino: a Elvira, anche lei profuga e che da quell’esperienza è già passata, Ismail chiede lezioni “su come essere un immigrato di successo”.

Un immigrato, per avere un permesso, una protezione internazionale o un asilo, deve raccontare la sua storia e rimettersi poi al giudizio della commissione. Questa deciderà se la sua storia è attendibile utilizzando criteri stabiliti dalla commissione stessa: la storia, dunque, occorre saperla raccontare e renderla il più possibile conforme a come dovrebbe essere. Da qui la necessità di un vademecum, che si rivela insieme ironico e profondo, offerto a Ismail e al lettore perché si possa riflettere su questi temi e sul paradosso di un’esistenza impigliata in una macchina amministrativa dove saranno criteri esterni – con la loro discrezionalità, il loro cinismo, le stereotipie che vi si annidano -, a stabilire se si merita di restare oppure no. (https://www.pulplibri.it/ceci-nest-pas-un-vademecum/, https://ilmanifesto.it/la-storia-di-ismail-che-interpella-le-cattive-coscienze)

Con La buona condotta i nazionalismi e i conflitti che ne scaturiscono sono esplorati a partire da un lontano fatto di cronaca. Il romanzo è ambientato in un piccolo paese del Kosovo, abitato da serbi e albanesi, dove viene eletto un sindaco serbo che ha obiettivi pacificatori. A Belgrado la scelta non piace, così viene mandato un nuovo sindaco, più “serbo” dell’altro, col compito di alimentare il fuoco della rivalità etnica. Curiosamente - ma forse non dovrebbe sorprenderci -, la stessa vicenda si è replicata tra maggio e giugno di quest’anno, quando centinaia di manifestanti hanno chiesto di rimuovere dalle cariche di sindaco i funzionari albanesi eletti dal tre per cento della popolazione a causa del massiccio boicottaggio da parte dei cittadini serbi.

"Anni fa, più di dieci, grazie a un documentario scoprii le vicende rocambolesche di due sindaci in un paesino del Kosovo. Il documentario non era incentrato su di loro, erano solo una delle storie collaterali di un racconto sull’assurdità della politica in quel Paese neonato. Ma io ci immaginai immediatamente un romanzo, perché c’erano tutti i temi a me cari: la tensione e la possibilità dei luoghi di confine, la grande Storia che si abbatte sulle vite degli individui e li trasforma nel bene e nel male, mettendoli di fronte a scelte radicali, la burocrazia surreale, la comunità ristretta e isolata con le sue dinamiche, le relazioni famigliari e infine le tribolazioni dei vari personaggi alla ricerca di un modo per non soccombere. In questo tentativo di diventare quello che si è, una delle domande più grandi è rappresentata per me dal tema del bene, della bontà, dell’ambiguità della buona condotta, insomma per dirla alla Freud dal disagio della civiltà. Porsi domande sul bene in un contesto in cui i criminali di guerra da molti sono considerati eroi è una sfida, così come lo è raccontare il passaggio liminale tra disagio psichico e lo sguardo dal margine di chi non rientra nei criteri imposti dalla società, ma che proprio per questo si prende la libertà di smascherare il gioco".

(http://www.giudittalegge.it/2023/04/06/chiacchierando-con-elvira-mujcic/)

Il personaggio a cui l’Autrice si riferisce è Ludmila, la “matta” del paese. Ludmila è un archivio vivente: possiede “la dote bizzarra di ricordare tutto”, nomi, episodi, nascite, morti, matrimoni, anniversari, malattie, e questa ipertrofia della memoria, questa smisurata capacità di ricordare, seppure declinata nel modo patologico, fa da contrappeso alla voglia di oblio o alle amnesie dei suoi concittadini. Ludmila, che sa poetare in rime ed è finita in ospedale psichiatrico per un delirio amoroso, incarna, dalla marginalità della follia, il cammino della memoria e dell’amore.

Su questo link è possibile ascoltare la registrazione dell’intervento tenuto a Bologna il 26 novembre 2022 nella cornice della giornata di studio “Una guerra tutte le guerre. Kiev, Sarajevo, Troia”

NOTE

1. Anne Madelain, “Ex-Yougoslavie. La littérature face à l'éclatement... et après”, in Le Courrier des pays de l’Est, 2006/6, pp. 29-35, disponibile online all’indirizzo   (trad. it. di Angela Peduto)

Una pagina tratta da Dieci prugne ai fascisti, di Elvira Mujčić

Tra i miei ricordi risuonò la voce del nonno che, per telefono, ci informava che la data della partenza era il 4 marzo.

Il 4 marzo del 1998 il nonno e Nana caricarono i bagagli in macchina e intrapresero il viaggio per tornare a casa. Per la prima volta, dopo sei anni di guerra e vita da profughi, assaporarono qualcosa di molto simile alla gioia. Non ci sarebbe mai più stata un’autentica felicità, lo avevano accettato, però durante quel viaggio si sentirono come due veterani che s’erano guadagnati una seconda possibilità. Non era stata una scelta semplice. Ne avevano parlato per mesi, la sera, a luce spenta, nel letto. Non ne discutevano mai di giorno, era una sorta di segreto che apparteneva solo a loro, incomprensibile ai più, come lo erano state le loro decisioni degli ultimi anni. Non avevano mai voluto, per esempio, allontanarsi troppo dalla loro città assediata. Avevano rifiutato ogni proposta di esilio all’estero, dicendo che avevano due figli in quella città e dovevano aspettarli il più vicino possibile. Avevano incoraggiato, invece, gli altri due figli ad andarsene lontano a cercare un futuro migliore, cosa che, effettivamente, fecero, facemmo. I nonni restarono in un campo profughi a cento chilometri dalla loro città. Si trattava di una scuola e, assieme ad altre decine di persone, dormivano in un’aula, rannicchiati l’uno contro l’altra, tenendosi strette tutte le loro proprietà racchiuse in due valigie. Di giorno ascoltavano ininterrottamente la radio, di notte si consolavano l’un l’altra dalle notizie udite.

Nell’autunno del 1996 li sistemarono in un monolocale, sempre lì, a un centinaio di chilometri dalla loro città che non era più assediata, poiché la guerra era finita, ma prima di finire aveva fatto in tempo a ingoiare i loro due figli, senza nemmeno restituirne i corpi. Sopravvissero tra quelle quattro mura. Inizialmente in silenzio, poiché il loro dolore non aveva parole. Non si riconoscevano in tutta quella sofferenza, o forse si riconoscevano fin troppo bene, e quindi potevano solo sfuggire a loro stessi per guarire. Sopravvissero e presero a ricostruire la vita. A disagio in un monolocale anonimo ed estraneo, con la memoria tornavano alla loro casa: gli sembrava di dover e di poter ricominciare solo da lì. Tra tutto ciò che era venuto a mancare, sentivano di non avere più neanche un luogo che parlasse di loro, di ciò che erano stati, un centro dove poter sostenere al meglio la vita che rimaneva da vivere. A luce spenta, nella notte, si chiedevano: tu potrai sopportare di tornare lì? E tu potrai sopportare di rimanere sempre altrove?

Così la decisone era stata presa e quel 4 marzo si erano messi in viaggio, se non allegri, almeno speranzosi. Anzi, esageratamente speranzosi. Cosa credevano di trovare lo sapevano solo loro: gli ottimisti non riescono a gettare la spugna. Però non erano pronti a quello che i loro occhi videro dopo aver parcheggiato ed essere scesi dalla macchina.

In seguito il nonno ci disse che la casa sembrava un mostro sdentato dagli occhi bui: tenuta su da mura bruciacchiate, senza finestre, vuota, a eccezione, scoprirono poi, del televisore marrone in mezzo al salotto, il lavandino in cucina e lo scaldabagno. A testa alta scaricarono i loro pochi bagagli dalla macchina e li portarono dentro.

In quei sei anni da profughi non avevano accumulato molti oggetti; ogni volta che ci offrivamo di comprare qualcosa, rifiutavano, sostenendo che dopo aver perso tutto, non avevano intenzione di rifare l’errore idiota di circondarsi di cianfrusaglie. Ogni nostro accenno a una vita più comoda veniva liquidato con frasi lapidarie quali: «La vita non è comoda. Se volessimo qualcosa, di sicuro non sarebbe un nuovo materasso». Chiedevamo, allora, che cosa desiderassero, che cosa avremmo potuto fare, al che rispondevano con semplicità: «Vorremmo che almeno ci dessero i loro corpi, che li trovassero».

Ci zittivamo. Noi a pensare alla lavatrice, ai materassi comodi, noi a inventarci tranelli per ingannare la sofferenza, e loro, invece, sempre vigili; testardi anche nel dolore.

Arrivarono davanti alla porta d’ingresso, in tasca le chiavi che avevano conservato in tutti quegli anni come una sorta di garanzia di normalità, un certificato di residenza e appartenenza. Non ci fu bisogno di adoperarle, bastò dare una lieve spinta con la mano e la porta si spalancò. Entrarono: il corridoio, il bagno a sinistra, a destra la cucina, il salone, una camera, a sinistra ancora una stanza e poi in fondo la loro stanza matrimoniale. Non c’erano più le porte. Il nonno, esausto, si appoggiò al muro e con le dita ripulì i cardini impolverati. Ci raccontò che quei cardini gli avevano fatto più male di qualsiasi altra cosa. Forse avrebbero voluto gridare, invece si aggirarono in silenzio per la casa devastata e saccheggiata. Entrarono nelle camere che furono dei loro quattro figli: nessuna traccia di grammofoni e dischi, di libri e quaderni, di cartoline e fumetti. Il giorno seguente ci chiamarono per dire che avrebbero accettato l’offerta di un letto e un materasso.

Seguirono mesi, anzi, almeno un paio di anni, di attivismo frenetico: la ricostruzione della casa.

Non si trattò di rimettere semplicemente a posto ciò che la guerra e il tempo avevano snaturato, ma di una sistematica opera di resurrezione del passato. Nel giro di poche settimane i nonni vennero a sapere che gran parte del loro mobilio non era finito chissà dove, oltre il confine, ma si trovava sparso nelle case del vicinato. Proprio come gli aguzzini dei loro due figli e del loro genero vivevano a pochi metri dal loro uscio, così anche i loro tappeti e i divani si ricoprivano di polvere nelle case circostanti, bastava solo scoprire in quali esattamente, ma non sarebbe stato difficile, poiché la guerra non aveva estirpato la naturale tendenza della gente a spettegolare. «Vogliamo riavere le nostre cose e ce le riprenderemo» sentenziava il nonno per telefono. A nulla valsero le nostre proteste, gli ammonimenti, le domande del tipo: «Sapete con chi avete a che fare?», «Volete farvi ammazzare?». Non servirono a granché nemmeno i nostri ricatti emotivi. Incaponiti nella loro ricerca del tempo perduto, non sentivano ragioni.

«Volete mettere in piedi un’altra guerra per riavere la vostra stufa e la vostra poltrona?» chiese loro La Madre incredula.

Le nostre preoccupazioni si rivelarono immotivate, perché non avevano alcuna intenzione di riprendersi con la forza le loro proprietà. Pensavano invece di ricomprarle: e noi avremmo dovuto aiutarli, perché ne andava anche della nostra dignità.

«Dignità?» gridava La Madre. «Dare loro soldi per riavere ciò che hanno rubato, questa è dignità? Pagare chi ci ha massacrato mezza famiglia, è dignità?».

Lo era in qualche modo. Forse per la stessa ragione per la quale chiedevamo che rivelassero dove si trovavano le fosse comuni, dov’erano i resti dei nostri cari.

La ebbero vinta i nonni, ovviamente. Con dello stucco e qualche mattone tapparono i buchi sui muri, lo zio li aiutò a pitturare e rimettere porte e finestre. Tra una chiacchiera e l’altra fuori dal supermercato, davanti all’ospedale, in coda alla posta, ricostruirono la mappa del mobilio e, pezzo per pezzo, lo comprarono per la seconda volta. Mentre il nonno si occupava della sua personale compravendita di mobili, Nana faceva centrini all’uncinetto, raccoglieva fotografie della nostra famiglia, le incorniciava e ci tappezzava i muri. Mentre il nonno costruiva la cassetta della posta in legno e ci appiccicava i loro nomi musulmani in bella evidenza, Nana strappava le erbacce del giardino e potava le rose. A piedi nudi, il nonno con i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia e Nana con gli orli della gonna infilati all’altezza della vita, lavarono i tappeti nel cortile di casa. Con la canna dell’acqua e il detersivo al profumo di gelso, eliminarono le tracce altrui e, una volta che i tappeti si furono asciugati, li sistemarono nelle stanze, inondando la casa di quel profumo che sapeva di passato e di fresco insieme.

Nel giro di un paio d’anni la casa ritornò uguale a prima. Forse troppo uguale, impossibile non avvertire un che di sinistro. La casa ritornò identica, tutto il resto no.

Lo avranno percepito anche loro quando si sedevano a tavola a mangiare, quando, la sera, sprofondavano nei divani davanti alla televisione, quando sentivano bussare alla porta e per un istante i loro occhi si illuminavano di una pazzesca ma inestinguibile speranza, quando si coricavano sotto gli sguardi immutabili delle fotografie sui muri.

Finita l’euforia della ricostruzione, si trovarono immersi in una finta normalità e, come i viaggiatori imbrogliati che passeggiano in una ricostruzione moderna di un villaggio medioevale, si sentirono traditi. Non sapendo con chi prendersela, decisero di punirsi a vicenda delle proprie frustrazioni e dei propri rancori.

Non è vero che l’amore può reggere tutto, o forse non è stato vero per loro. Ognuno perde a modo suo. Ognuno perde a modo suo anche un figlio, due nel loro caso, e a volte non ci si incontra più in quella perdita. Se ci fosse stata almeno una tomba, si sarebbero incontrati lì, avrebbero incanalato il dolore in un luogo comune. Ma non ebbero questa fortuna.

Fecero di nuovo i bagagli, chiusero porte e finestre, spensero la luce, la casa sprofondò nel buio e loro chiesero il divorzio.

Antonella Cosentino, Troiane di Euripide

Nel quinto libro de “La guerra del Peloponneso” Tucidide racconta: “Gli Ateniesi mossero anche contro l'isola di Melo con 30 navi loro, 6 di Chio e 2 di Lesbo: vi erano imbarcati 1200 opliti ateniesi, 300 arcieri a piedi e 20 arcieri a cavallo; inoltre circa 1500 opliti forniti dagli alleati e dagli abitanti delle isole”. Melo è neutrale, ma alleata di Sparta. Prima dell’attacco, Atene invia degli emissari per convincere l’isola alla resa, ma i Meli non hanno dubbi: in ogni caso se non cedono avranno la guerra, se cedono la schiavitù e poiché la giustizia può esistere solo in caso di parità, se non c’è parità i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano. Stretti dall’assedio, i Meli si arrendono senza condizioni agli Ateniesi. Questi passano per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e rendono schiavi i fanciulli e le donne: quindi occupano l'isola e più tardi vi mandano 500 coloni. Così Tucidide. Lo storico. È il 416 a. C e la guerra è la trentennale guerra del Peloponneso che registrò poi il tracollo della potenza ateniese: il paese che attacca spesso alla fine non è il vincitore.

Se la storia registra i dati a volte con cruda impassibilità, la letteratura si fa carico del dolore di chi di quella guerra è vittima: così Euripide, davanti a quello stesso popolo che vittorioso aveva conquistato in maniera sanguinosa l’isola di Melo, prende posizione e mette in scena le Troiane. Siamo nel 415, qualche mese dopo la terribile vicenda; Euripide arriva secondo alla Grandi Dionisie, le più grandi feste teatrali di Atene. Degli altri due drammi, Alessandro e Palamede, che avrebbero dovuto completare la trilogia, restano solo frammenti.

Sicuramente Euripide non è il primo a parlare di guerra; sappiamo perfettamente che la tragedia greca mira spesso a demistificare la propaganda militarista, che viene celebrata come nobile ed eroica. Basti pensare all’Aiace di Sofocle, al coro dei marinai che maledicono l’inventore della guerra: “Quell'uomo che inventò la guerra, perché non sprofondò nel cielo, né Ade/ lo inghiottì nella sua tomba comune? / Egli mostrò ai Greci come combattere/ usando le armi comuni dell’odio e della guerra che genera guerra. / Quell’uomo ha ucciso l’umanità” (vv. 1185-1198). Se nella tragedia greca spesso e volentieri si parla dell’istinto aggressivo dell’uomo, insito in lui, connaturato alla sua essenza, in questa tragedia di Sofocle si palesa qualcosa di più ampio e profondo: la guerra come violenza organizzata e voluta da uno Stato, che si esplicita in eserciti organizzati, armamenti e soprattutto propaganda, indispensabile per sostenere un’impresa. Tra l’altro la patria di questi marinai è Atene, di cui il coro sottolinea l’imperialismo, quella stessa Atene che ha trucidato uomini, donne e bambini nella conquista dell’isola di Melo.

Sia il tema della guerra, sia quello delle donne dei vinti (pensiamo per esempio all’Agamennone di Eschilo) o delle figlie dei vincitori, compare nella tragedia attica, ma è Euripide a farlo diventare capitale nella sua produzione tragica. Certo, come gli altri - a parte Eschilo nei Persiani -, proietta la guerra e la sconfitta nel mito, stemperando ogni riferimento all’attualità; per il mondo greco tuttavia la proiezione nel mito non è allontanamento o volontà di smorzare le passioni, semmai di sublimarle facendone avvertire la forza e la pericolosità. Le sue donne vinte e violate nella loro condizione di madri, figlie, mogli revisionano il mito, lo svuotano di senso, rovesciano il principio della guerra giusta. Si comincia dall’Ecuba, passando per Andromaca e arrivando alle Troiane. Senza contare le tragedie che si focalizzano sulla sofferenza e la devastazione delle figlie dei vincitori che scontano le colpe dei padri, come Elettra.

Le donne protagoniste di questa tragedia sono paradigmi di un preciso status. La prima a comparire e a rimanere in scena per tutta la tragedia è Ecuba, madre, moglie, nonna. È con lei che si confrontano le altre: Cassandra, “la vergine folle” che smania come una baccante, a cui Apollo, “il dio della luce, ha fatto il dono di una vita senza nozze” , ma che sarà destinata ad essere concubina di Agamennone, innamorato di lei al solo vederla; Andromaca, la nuora, che ha perso Ettore il marito e sarà costretta a vedersi strappare dalle braccia il figlio Astianatte che, per preciso suggerimento di Odisseo, dovrà essere ucciso, per evitare che un domani possa far risorgere Troia: dei vinti si estirpano anche le radici, si annientano i semi, si cancellano perfino le ombre. E infine Elena, la responsabile di tutto. Di un’altra figlia di Ecuba, Polissena, che aleggia come un fantasma nel pensiero della madre e che acquista una vera e propria consistenza “di corpo” nelle parole e nel rimpianto di Ecuba, sapremo che è stata uccisa sul sepolcro di Achille.

Quattro figure diverse: Euripide le vede mentre agiscono, mentre si muovono sul palcoscenico di dolore che la guerra disegna, si lamentano, urlano, si disperano, inveiscono, maledicono.  Sono tutte perdenti, non solo degli affetti, delle cose che possedevano, delle case, ma di loro stesse. La distruzione di Troia comporta l’annientamento di quello che erano prima, la tragica perdita della loro identità, perché la guerra è anche questo, è soprattutto questo. È diventare “altro” da sé, da quello che si era prima: “Ero regina e mi sono sposata in casa di re […] e come schiava, io vecchia, giungerò in Grecia. E alle cose che per una tale vecchiaia sono le più disgraziate, a queste mi assegneranno: o serva alla porta a custodire le chiavi, io, la madre di Ettore, o preparare il pane, e avere un giaciglio sul suolo con le mie spalle rugose, dopo letti regali, indossando laceri cenci su un corpo lacero”: così dice Ecuba, assegnata all’odiato Odisseo. E Cassandra, la vergine consacrata ad Apollo, in preda al delirio, incita invece le “frigie fanciulle dai bei pepli, [a cantare lo sposo], destinato al letto delle mie nozze”. È Agamennone che la vuole, il crudele comandante dei Greci, che non ha esitato a sacrificare la sua stessa figlia Ifigenia per garantirsi l’esito felice della spedizione e della guerra. Cassandra entra in scena cantando un imeneo, per celebrare le sue nozze, ma quel canto è stravolto e dissacrante: è la vittoria dei vinti ad essere sancita con quel canto delirante e frenetico, a vincere sono gli eroi che rimangono a Troia sotto le mura bruciate, la cui gloria rimarrà in eterno, per i vincitori ci sarà solo rovina e morte. E Cassandra la profetessa preannuncia proprio questo: la sua stessa morte, ma anche la rovina di Agamennone e della sua discendenza.

Vorrei soffermarmi un attimo sulle voci di queste donne, perché sono esemplari: forse in nessuna come in questa tragedia Euripide riesce ad utilizzare la lingua nelle sue stratificazioni, dall’urlo barbaro al lamento di bestia ferita al ragionamento ordinato, implacabile. Anche il silenzio, nella sua non voce, ha la forza dell’urlo. Queste donne parlano per antitesi, per ossimori, per contrapposizioni, perché la lingua testimonia la scissione che vivono. Due registri fondamentali si alternano nelle loro parole: il registro elegiaco riservato al ricordo del passato, che viene sublimato e purificato, e quello dell’invettiva, del sarcasmo, della rabbia, del dolore, riservati ad un presente che si rifiuta e che si aborrisce.

È dominato dal logos il linguaggio di Elena, la donna che nella tragedia è la vera responsabile della guerra: come tale la identificano le altre. Le donne del coro, fatto di prigioniere troiane, tirate a sorte tra i nuovi padroni, sperano almeno di non essere portate a Sparta, “dimora odiosa di Elena”. I Greci “per inseguire una donna, una sola, e la sua passione, hanno fatto morire schiere di uomini”, dice Cassandra delirante, e Agamennone “ha distrutto le cose a lui più care per tutelare le più odiose: ha offerto a suo fratello la gioia di una figlia che gli cresceva in casa per portare indietro una donna, una donna scappata di sua volontà, non rapita a forza”: Andromaca la maledice: “Chi ti ha messo al mondo? Sei figlia del demone della vendetta, dell’invidia, della morte, della strage, di tutto quanto c’è di male sulla terra” e disprezza ogni donna “che dimentica il marito e ne prende un altro e lo ama”.

Una guerra per una donna: potrebbe esserci un motivo più banale? No e forse il mito stigmatizza proprio questo, il fatto che i motivi di un conflitto sono sempre irrisori. Questo si avverte in modo particolare proprio quando ad entrare in scena è lei, Elena, anticipata dalle parole del marito, di Menelao, che chiede di portare la spartana, così la definisce, non moglie, trascinandola per i capelli sporchi di strage. “Evita di guardarla”, gli intima Ecuba, “che il desiderio di lei non ti catturi [dato che] potenti sono i suoi incantesimi”. L’autodifesa di Elena davanti al marito tradito è un capolavoro di sofistica: non lei è colpevole, è colpevole Ecuba che ha generato Paride, è colpevole il pastore che non l’ha ucciso bambino nonostante i presagi funesti su di lui; non solo lei non è colpevole ma ha addirittura salvato la Grecia, visto che nella contesa fra le tre dee Paride aveva ricevuto da Atena, se fosse stata scelta, la conquista della Grecia alla testa di un’armata frigia e da Era il dominio su Asia ed Europa. Ma Paride aveva scelto Afrodite e lei era stata il premio assegnato: una guerra per “un corpo affascinante”, una guerra nata per il capriccio di tre dee senza contare che qualunque scelta Paride avesse fatto sarebbe stata in ogni caso foriera di guerra e dolore. “È spaventoso: lei sembra dire cose giuste, ma le sue azioni sono malvagie”, commenta il coro: ogni guerra è una costruzione perfetta, motivazioni inappuntabili, ragioni indiscutibili, tutto un mondo di parole che si sgretola di fronte a un dolore privo di senso, qualunque siano le ragioni che l’hanno motivato. Ragioni inconsistenti, come sottolinea Ecuba, a cui tocca il compito di “distruggere la forza delle parole" di Elena: quello che l’ha spinta è stato un amore dissennato, frenetico, pazzo, per la bellezza di Paride e la voglia bramosa di ricchezza. “Il palazzo di Menelao non era abbastanza per il tuo lusso senza misura” controbatte sdegnosa. L’odio per Elena, unica responsabile, rappresenta un asse portante della tragedia e manifesta la violenta polemica antimilitarista di Euripide: dieci anni di guerra, di distruzione, di morte avvenuti per motivi futili. Qualche anno dopo Euripide scriverà un’altra tragedia, Elena appunto, nella quale adotta la versione del mito tramandata da Stesicoro, secondo la quale i Greci muovono guerra a causa di una falsa Elena, un eidolon, un’effigie fantasma mandata a Troia da Zeus (che nel frattempo aveva spedito la vera Elena in Egitto ad aspettare pura e incontaminata Menelao). La causa delle ostilità viene così smascherata come totale falsificazione. Falsificazione nella quale però ad essere sconfitti sono tutti, anche i vincitori: all’inizio della tragedia è la stessa Atena che ha voluto e permesso la distruzione di Troia a chiedere a Poseidone di rendere amaro il ritorno dei Greci che hanno profanato il suo tempio, trascinando via a forza Cassandra dall’altare. Ed è la stessa Cassandra a profetizzare, nel suo delirio da invasata, grazie al dono che Apollo le ha concesso, l’atroce destino che spetta a coloro che hanno fatto grondare di sangue i templi della sua città: perché, come dice Poseidone, “pazzo è l’uomo che distrugge la città, lascia deserti i templi e i sacri monumenti dei morti: condanna anche sé stesso alla rovina”. Per Odisseo, dice Cassandra, “i mali miei e della mia gente sembreranno oro: altri dieci anni passeranno prima che arrivi a casa […] e tornato a casa, troverà ancora mali senza fine”; per Agamennone infame sarà la tomba che lo aspetta.

La guerra stravolge tutto: i valori politici, sociali, ideologici, le virtù patrie e le virtù domestiche sono rinnegate, nel mondo capovolto che si crea si intuisce che la bellezza, l’onestà, la devozione alla famiglia e alla patria sono solo illusioni momentanee, che la giustizia premia gli ingiusti, che gli dei giocano con la vita degli uomini, profondamente indifferenti, in fondo, al loro destino.

In questo mondo dominato dal caos Euripide celebra ancora una volta la crisi del logos, la crisi della ragione e, come giustamente sottolinea Nietzsche, chiude l’epoca del tragico, della sacralità del tragico: il mondo è dominato da impulsi irrazionali incontrollabili, da un relativismo esasperato, dall’assoluta mancanza di certezze, da un nichilismo senza speranza. In questo contesto anche la parola perde la sua valenza comunicativa e argomentativa: quello che colpisce è il lamento, il gemito, l’urlo disperato. “I miei dolori sono tanti, io non ho più voce, la mia bocca è inerte”, dice Ecuba quando le viene riferito del sacrificio di Polissena. In quest’ottica rientra forse anche quello che i critici hanno riconosciuto come elemento dominante di questa tragedia: la sua staticità. Se la tragedia greca, anche con lo stesso Euripide, gioca intorno allo sviluppo di situazioni e sentimenti, sullo scontro fra personaggi, sulle loro scelte dolorose che muovono l’azione, nelle Troiane non c’è evoluzione né colpo di scena finale e, per chi guarda, nemmeno una catarsi liberatoria. Questa è una tragedia delle emozioni, le emozioni che gli eventi suscitano nei personaggi e che passano nello spettatore lasciandolo tramortito.

Vorrei terminare sulla scena del rito funebre di Astianatte. Il bimbo su cui Troia contava per la sua rinascita è stato gettato giù dalle mura, la madre, che sta per imbarcarsi sulla nave che la porterà via da Troia con Neottolemo, chiede che venga sepolto nello scudo di Ettore, lo scudo “terrore degli Achei” che non vuole fare entrare nel palazzo di Peleo, nella stanza dove lei sarà di nuovo sposa. Ed è Ecuba che deve far rispettare questo desiderio, è lei che compiange le chiome recise dalle mura di Troia, i capelli da cui “ride il sangue delle ossa spezzate”, le mani, “dolce sembiante delle mani di Ettore”, ma soprattutto compiange sé stessa, “così vecchia, senza più patria, senza figli”, costretta a seppellire colui da cui si aspettava di essere seppellita. Questa è la guerra: gli eroi hanno potuto almeno dimostrare il loro valore, combattere e morire alla pari, alle donne e ai bambini non rimane nemmeno questo: sullo sfondo di una Troia che brucia, accartocciandosi su sé stessa come un castello di carta, alle troiane non resta altro che essere trascinate via e imbarcate sulle navi dei nemici.

La poesia di Gino Rago

Gino Rago, nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon). Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005), I platani sul Tevere diventano betulle (2020), Storie di una pallottola e della gallina Nanin (2022)

Nota di Gino Rago
Le liriche dedicate a Troia si basano sul destino dei vinti; meglio, sulla sorte delle donne quando sono ridotte a  “bottini di guerra”. Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità. Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.
Il destino dei vinti, omerico ed euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di défilé di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste donne (“Ecco, piego questo mio vecchio corpo/ e batto la terra con le mani”, un esempio della potenza di Ecuba.)
Noi siamo qui per Ecuba è paradigma su cui meditare e modello da riattraversare fino alle riscritture prossime a noi a riflettere gli snodi traumatici del Novecento: Troiane di Franz Werfel (1914 e 1920); Troiane di J.P. Sartre (1964); Troiane di Suzuki Kadasci (1977) in cui i fantasmi del mito “ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” (D. Susanetti), al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile, realtà del presente. Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”.
Ma in quale teatro d’azione Ecuba, Elena e Andromaca agiscono nelle liriche a comporre il poema/ciclo di Troia Noi siamo qui per Ecuba?
Per una attendibile definizione del perimetro, o dello scenario d’azione delle tre donne, non si può prescindere dalle memorie dello Schliemann, l’archeologo cui viene
attribuita la scoperta di Troia come acme d’una vita interamente consacrata a trarre dalla leggenda una storica verità.
Nelle sue memorie Schliemann scrive: “(…) Secondo Omero, Troia è vicina al mare, di fronte all’isola di Tenedo e il suo orizzonte va dalla vetta di Samotracia – ove ha sede Poseidon – al monte Ida dove siede Zeus. I Greci sono accampati presso il mare; la città non deve essere lontana; ogni sera i Greci tornano all’accampamento e i Troiani tornano in città. Quando Priamo va al campo greco a riscattare il corpo di Ettore, raggiunge il campo durante la nottata.
Tra i Greci e i Troiani scorre lo Scamandro. Ettore una volta oltrepassa il fiume e si accampa dall’altra parte, facendosi mandare dalla sua città le cibarie; e Agamennone sente i suoni di flauto e vede le luci del campo troiano dalla sua tenda. Sotto Troia si udivano scorrere due sorgenti, una fredda e una tiepida. In questo paesaggio soltanto Achille poteva essere in grado di inseguire Ettore tre volte di corsa intorno alla città… Perciò la mia attenzione si fissò sulla collina, assai prossima al mare, detta Hissarlik…”
Il poema Noi siamo qui per Ecuba adotta queste memorie a base del teatro, dello scenario d’azione in cui Ecuba e le altre agiscono, ancorché debba segnalare che
non ho mai perso di vista l’Ecuba dantesca del XXX Canto dell’Inferno: “Ecuba trista, misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva/ del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come un cane;/ tanto il dolor le fé la mente torta.”

Ecuba, figlia di Dimante, fu la seconda e fecondissima moglie di Priamo, re di Troia, cui diede 19 figli, morti quasi tutti nel corso o appena dopo la guerra contro i Greci. Caduta Ilio, fu schiava di Ulisse.

Roma, gennaio 2013

Dal Ciclo di Troia

La donna innamorata non smette mai d’amare

Ora Ecuba alza i lamenti.

Un corpo più non risponde ai comandi del cuore.

La sua mente. La vita in frantumi.  L’anima.  

Il fuoco.  Sul destino di tutte le spose troiane.

Donne infelici. Né più capaci di canti di lotta.

Nascondono il pianto della Regina privata del trono.

Del talamo. Delle orazioni alle statue divine.

Noi siamo qui per Ecuba.

La ferma postura nel rapido scarto

dell’aggressione. Dettata forse dal Fato.

Grida nel sangue l’ira di morte dei vincitori.

             ***                    ***

Tace la sposa di Priamo. Pestata dalla dura sorte.

Noi siamo qui per Ecuba. Nella furia dell’onda.

Sulla nave travolta dai flutti. Nel mare avverso.

Il remo vira d’un colpo la prua.  È la trama di Atena.

(La cavalla immortale.  Puledra verginale.

Senza giogo per l’acheo esperto d’inganni).

Noi siamo qui con Ecuba. Sotto il tragico peso

d’una condanna: essere schiava in casa di assassini.

               ***                 ***

La donna innamorata non smette mai d’amare.

Ecuba è dritta nei marosi. Troppo lunga è la notte senza luna.

Ma i fari degli occhi fanno viva luce. Ecuba compete con le stelle

nella sventura ordita dagli dèi.

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Rimane lei per sempre la Regina

Di fronte a noi si muove il re spartano.
A Telemaco vanta le molte virtù e l’astuzia del padre
per la cava insidia nel cavallo di legno. Fatale
ai Troiani ma che gli Achei sottrasse alla rovina.
Noi non siamo qui per Menelao.
Né siamo qui per Elena.
L’amante fuggiasca
che nonostante i crolli, i lutti, le rovine,
il sangue – per dieci anni a correre
ai bordi d’ogni corpo –
sul trono a Sparta siede ancora da regina.
Noi siamo qui per Ecuba,
la sposa ormai prona al suo destino,
la madre a ignorare l’inganno delle dee. Afrodite,
Era e Atena hanno di Paride fatto inerme preda.

“Eppure in cuor mio un tempo amavo i Greci.
Oggi hanno il fuoco negli occhi. Che fine hanno fatto
il rispetto dei vinti, la pietà, la sosta sulle ceneri dei morti.
Chi più ricorda il gesto moderato. L’armonia delle forme …
Sorelle d’Ilio. Fare senno pure nel male. A ciò tutte vi esorto.
Fare senno anche nella sventura. Conviene
alla calma, alla saggezza dopo la disfatta.”
Così la donna china sulla riva si rivolge a tutte le troiane.
Alle spose ferite nell’onore. (Gli sguardi opachi verso terre ignote).
Alle figlie d’Ilio (nel delirio turpe dei guerrieri vincitori).

Le mura franate. I cadaveri umiliati. Il Palazzo violato.
Priamo sgozzato. Lo scettro del Re frantumato…
Noi siamo qui per Ecuba ora che tutto perde.
Ma pure con il passo incerto sulla rena
rimane lei per sempre la Regina.

Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori

Ecuba ripudia il vecchio corpo.
Raschia la terra con le mani.
Si lacera il seno di fronte al bimbo morto.
Evoca la voce dei defunti
prima dei giorni della schiavitù.
Noi con Ecuba attendiamo Aurora.
La dea dalle ali bianche diffonde il giorno
chiaro sulla città in fiamme.
Le coste risuonano di morte.
L’urlo di Priamo si strozza nella gorgia
dinanzi alle sue terre a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui per Ecuba
già nelle fiamme del rogo finale.
Nuvole di polvere tagliano l’azzurro.
Trono, palazzo, torri merlate:
un tonfo di frantumi su macerie ardenti.
Ilio è un nome scritto sulla cenere.
I troiani senza numero periscono
per i capricci di un’unica donna.
Nemmeno Astianatte viene risparmiato:
il figlio di un eroe spaventa i vincitori.
Noi siamo qui per Ecuba.
Cos’altro ancora manca al suo disastro
perché gli Achei lo sentano completo…
La dimora della Bellezza va in fumo.
La casa dell’amore si sfarina.
La fiamma greca incenerisce Troia.
La Regina sul baratro maledice Atena.
E Thanatos danza
sull’uniforme grido dei frammenti.

Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
senza mai saperlo
forse un’idea. Una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro.
Senza carne.
Noi siamo qui per Ecuba. Tutto le fu tolto
per una bolla d’aria. Dissennato
il massacro sull’Acropoli
per la spartana rapita. Una sposa fuggiasca.
Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta.
A suo dire mossa dall’Olimpo
come fuoco nel sangue o fremito nei lombi
Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.
Siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Sconfitta va verso la nave.
Lo sguardo fisso nell’occhio dell’Acheo.
Quasi a sfida delle avverse dee
nel disastro aduna sulle schiave
la gloria d’Ilio. Eterna come il mare.
La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.
La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.
L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.
Per tutto il tempo viva.
Di cetra in cetra. Da Oriente a Occidente.
Quel sangue prillerà nel canto dei poeti.
Arrosserà per sempre il porfido del mondo.
L’unghia dell’Aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo
alla sua vela: “Si vada verso l’Isola…”
L’inno dei forti piega le Troiane. Si stacca dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

Ecco, Ecuba piega il vecchio corpo

Ecco, Ecuba piega il vecchio
corpo e batte la terra con le mani,
evoca la forza dei defunti
prima del giorno della schiavitù:
e con Ecuba noi attendiamo Aurora,
la dea che giù diffonde il giorno
chiaro, la dea dalle ali bianche
che vedrà un paese in fiamme
e la città di Dardano devastata. Le coste
del mare risuonano di urla
per la terra di Priamo messa a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui
per Ecuba, la regina privata
del trono, per le fiamme del rogo
finale, per i cadaveri sanguinolenti:

quale tribunale potrà
mai riparare la catastrofe di questa donna…
Unica consolazione all’imprecazione,
all’urgenza dolente del dirsi la sorte
è lavare Astianatte nell’acqua di Scamandro
e seppellirlo non già nella pietra
né in una cassa di legno
ma nello scudo bronzeo di Ettore
con la sagoma del suo braccio muscoloso.
E una nuvola di cenere si alza verso il cielo:
le case annientate, la furia del fuoco
dentro i palazzi, il sangue di Ilio
a urlare nel vento.


Oh Troia, città di donne dall’amara sorte

Oh Troia, città di donne
dall’amara sorte , noi non siamo qui
a cantare il gesto del figlio di Teti,
né per l’atto atroce contro Astianatte
scagliato con furia per le mura d’Ilio
per porre fine alla stirpe troiana:
noi siamo qui – e già lo affermammo –
per Ecuba, unica fra tutte le prede di guerra
a svelare il disegno di Elena
amante dei lussi e dell’adulterio:
Paride non c’entra in questa storia
che fece d’Ilio il regno
della morte; noi siamo qui per Ecuba
che verso il mare avanza
con le prigioniere, l’unica voce a dire

senza pianto: “Infelici, sollevatevi
da terra, drizzate la testa, alzate
lo sguardo: Priamo è morto,
Ettore non è con i vivi e il figlio
di Andromaca è qui senza vita
fra le mie braccia. Ilio più non esiste,
la fortuna ha mutato il corso e a noi
navigare tocca secondo il destino
e la corrente voluta dai forti. Da oggi
Troia è senza Re, senza Regina,
senza padri, mariti e figli.”
Oh Ilio, città di donne
ridotte a bottino di guerra, noi siamo qui
per Ecuba: incendiate le Mura, distrutti
i sacri Lari, perduti affetti e beni
alta mantenne la dignità umana,
un monito severo per tutti gli Ateniesi
memori del sacco all’isola di Melo.

Oh Troia, sventurata città

Donne di Troia, città sventurata,
non siamo qui per celebrar la gloria
né l’eroismo
di chi ha vinto. Qui siamo
con il cuore diviso dagli eventi
a denunciare
disperazioni, macerie, stragi,
ad abbracciar nelle rovine
il dolore dei vinti.
Noi siamo qui per Andromaca,
per Cassandra: qui siamo
in special modo per Ecuba
destinata dai forti a Odisseo,
per Ecuba in lacrime
sulla spiaggia di Troia
già nelle mani dei Greci.
Noi sulla rena udimmo
i lamenti di Andromaca.
E con lei piangemmo
la sventura di Troia
indirizzando i passi
verso le navi gonfie degli Achei…

Gli uomini uccisi, le donne
in attesa di sapere i nomi dei vincitori
cui essere assegnate
come schiave: qui Ecuba udì
il triste lamento di Andromaca in lutto:
“Per me più non esiste
nemmeno ciò che rimane alla gente
alla fine dei giochi: la speranza.”

Di Cassandra e Agamennone –
che invaghitosi di lei
la volle schiava e amante –
presso gli ateniesi
non apprendemmo nulla
né le troiane vollero parlare…

Oh Troia, città in fiamme

Donne infelici di Troia, città
in fiamme, noi siamo qui contro
la crudeltà dei forti
nell’atto d’ accusa levato dai vinti
che nessuno ascolta.
Noi siamo qui
non già per salire sul carro dei forti
né per lodare
l’ardore di Patroclo, l’ira di Achille,
la superbia del Re degli Achei:
noi siamo qui
per il forte richiamo di Ecuba
piegata dal pianto della Regina:
“Mio Ettore, avevo in te trovato
l’ideale compagno. Spiccavi
per valore, per sapienza e stirpe.
Vergine mi prendesti
dalla casa di mio padre, per primo
mi conoscesti nel talamo
nuziale. Ora Troia è in fiamme,
mia città sventurata
presa con l’inganno. E tutto è perduto.”

Donne di Troia, città di macerie

fumanti, noi siamo qui

per gridare la sorte dei vinti,

delle donne umiliate

sul teatro d’azione della riva

di Troia caduta

nelle mani dei Greci,

ma nulla da tempo sappiamo

del destino di Andromaca

dai forti assegnata a un padrone

noto agli Achei come Neottolemo…

Troiane, noi siamo qui

per il dolore di Priamo

su Ettore suo senza respiro:

noi siamo qui fra rovine fumanti

oh donne di Troia, città nelle fiamme,

all’ombra di Ecuba prona agli dèi

per fare nostra la sua disperazione.

Antonella Cosentino: Troiane di Euripide

Le Troiane vennero rappresentate nel 415 a.C., in piena guerra del Peloponneso. Il dramma è senza trama e senza sviluppo, interamente occupato dal dolore delle donne in cui si riverbera più potente la tragedia della città caduta. Troia è in fiamme e alle donne troiane viene annunciato il destino di schiavitù che le attende: Ecuba è stata assegnata a Odisseo, Cassandra ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo. Il piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, viene gettato dalle mura della città, significando con questo gesto brutale la volontà del vincitore di annientare il futuro dei vinti. Nessuna uscita catartica, nessuna speranza: soltanto desolazione, sofferenza, rimpianto, la cui espressione è affidata a voci di donne: una poesia, dirà Edoardo Sanguineti nella nota alla sua traduzione, “che tende al lamento e vi si scioglie, ed è al limite puro lamento”.

Euripide denunciava così l’orrore della guerra agli ateniesi che avevano appena distrutto Melo, la piccola isola ribelle, e si preparavano alla spedizione in Sicilia; ma ai vincitori additava anche, attraverso l’insistenza sull’insensatezza della guerra, sul dolore e le morti che essa provoca senza distinzione, la futilità della vittoria. Nulla di più profetico: nel giugno del 415 la grande armata di Atene mosse verso la Sicilia in quella che Tucidide definisce “la spedizione più imponente mai intrapresa da una sola città greca”. La disfatta sarà spaventosa e avvierà il definitivo declino politico e militare di Atene.

Donne di Troia, città di macerie
fumanti, noi siamo qui
per gridare la sorte dei vinti,
delle donne umiliate
sul teatro d’azione della riva
di Troia caduta
nelle mani dei Greci,
ma nulla da tempo sappiamo
del destino di Andromaca
dai forti assegnata a un padrone
noto agli Achei come Neottolemo…
Troiane, noi siamo qui
per il dolore di Priamo
su Ettore suo senza respiro:
noi siamo qui fra rovine fumanti
oh donne di Troia, città nelle fiamme,
all’ombra di Ecuba prona agli dèi
per fare nostra la sua disperazione.

(dal Ciclo di Troia, Gino Rago, 2020)

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