(Ri)accendiamo il Classico

Medea di Pier Paolo Pasolini

07 dicembre 2019
CostArena, Via Azzo Gardino 48, Bologna

Nel mese di dicembre del 1969, cinquant’anni fa, usciva in prima assoluta a Milano il film Medea di Pier Paolo Pasolini. Maria Callas era la protagonista. Interpretava il ruolo di Medea proprio quando la sua vita sembrava coincidere tragicamente con quella dell’eroina greca: abbandonata da Onassis per Jackie Kennedy, la carriera artistica in declino, la Divina pareva diventare sempre più fragile e vulnerabile, da maga e regina una donna qualunque, che ama ed è tradita.

Pasolini fece di Medea l’incarnazione di quel mondo che vedeva agonizzare e sparire sotto la trionfale avanzata delle merci e della tecnica, mondo che il poeta amava profondamente. Lo cercò nei paesaggi d’acqua della laguna di Grado, nella luce abbagliante e arida della Cappadocia, nei primi piani lancinanti del volto di Maria-Medea, nei silenzi abissali, nelle sonorità spaesanti delle musiche che ritmano il film.

“Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il tecnico abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello spirito, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due culture, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà. Potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica.” (P.P. Pasolini, in Jean Duflot, Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, Roma, 1983)

Introduzione alla terza edizione di Riaccendiamo il classico

Angela Peduto

Esattamente 50 anni fa, il 28 dicembre 1969, usciva in prima assoluta a Milano il film Medea di Pier Paolo Pasolini, girato tra la Siria, la Turchia, la Toscana e la lacuna di Grado. Si consuma in quest'opera il dramma dell’irriducibile conflitto tra un “universo arcaico, ieratico, clericale” - Medea - e un “mondo invece razionale e pragmatico” - Giasone -, tra il sacro che del mondo barbaro scandisce i ritmi e il cinismo che impietosamente attraversa la civiltà razionale: ad essa è dedicata la terza edizione di “Riaccendiamo il classico”.

E’ sul terreno della traduzione che Pasolini re-incontra la tragedia greca dopo gli studi classici: nel 1960 Vittorio Gassman deve mettere in scena l’Orestea di Eschilo al Teatro Greco di Siracusa e decide di affidare a lui il compito della traduzione. Pasolini accetta e, “impreparato” di fronte a un simile compito, scommette sull’istinto e la sensibilità. La traduzione è completata in tre mesi. Quel corpo a corpo con Eschilo segna una svolta nella sua vita artistica. "Da allora ho cominciato ad avere per il teatro greco un amore che è rimasto per molto tempo come sopito in me, ed è improvvisamente rifiorito con violenza e addirittura con irruenza in questi ultimi due anni [1966 e 1967] in cui ho scritto io stesso per il teatro, e scrivendo per il teatro sono stato incapace di uscire dallo schema del teatro greco".

Schema tuttavia profondamente reinterpretato, nella misura in cui il racconto mitico, a-storico e polisemico, trapassa nell’orizzonte storico per diventare forma interpretativa del presente e al tempo stesso tragedia, cioè rito culturale e sociale espresso in quella “lingua” così particolare che è per Pasolini il cinema: ecco perché Medea può farsi allegoria della fine di un mondo - il barbarico, l’onirico, il sacro - e dell’avanzare di un altro - il pragmatico, il tecnico, il razionale -,ma anche rappresentazione della loro tragica incompatibilità. Nessuno meglio di Maria Callas poteva essere Medea, il volto catturato nella fissità solenne e sontuosa di riprese quasi sempre in primo piano, immagine di un femminile ora terribile ora dolcissimo. Sul set nacque un’amicizia che per lei trascolorò in amore, per lui non lasciò mai il terreno dell’affetto. Restano le lettere, resta una piccola raccolta di poesie scritte per lei in quei mesi. "Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poi essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia".

“Sono una creatura del destino”: Maria Callas e Pier Paolo Pasolini

Gilda Tentorio

“Sono una creatura del destino”:
Maria Callas e Pier Paolo Pasolini

1968. Gira notizia che Pasolini voglia girare un film su Medea con Maria Callas come protagonista.

Tutto è iniziato su suggerimento di Franco Rossellini, che sarà produttore del film. Maria Callas, dopo la prima trionfale interpretazione dell’eroina tragica nel 1953 alla Scala, ha cantato Medea di Cherubini più di trenta volte nel giro di dieci anni. Ora, verso la fine degli anni 60, il suo periodo d’oro sembra volgere al tramonto: episodi di stanchezza, segni di logoramento della voce, crisi emotive e, soprattutto, l’immensa delusione per il fallimento della grande storia d’amore della sua vita: il 20 ottobre 1968 Aristotelis Onassis ha sposato Jackie Kennedy.

Il film si farà: Maria trova in Pasolini un maestro dolce e attento, Pier Paolo resta affascinato dalla sua fragilità. Egli ne riconosce e rispetta le ferite, ama quella passionalità impetuosa a cui Maria si è sempre abbandonata, sulla scena come nella vita, senza risparmiarsi, e che ha reso il suo canto unico e travolgente.
Nella Medea di Pasolini Maria non canta: è il suo volto a farsi interprete di tutte le sfumature dell’amore e dell’odio, dalla tenerezza lieve alla furia vendicativa alla nostalgia dolente.

"Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te e del tuo corpo: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica). Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare. Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora.

Tu sei come una pietra preziosa che viene frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so. Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l’intera, intatta luminosità.

Ti abbraccio." (lettera di Pier Paolo Pasolini a Maria Callas)

Oltre il mito: Medea di Pier Paolo Pasolini tra narrazione etnologica e piano sequenza

 Raffaele Riccio

“La nostra civiltà è in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente si configura il 'quid maius' “ (Ernesto de Martino, Naturalismo e storicismo nell'etnologia) [1]


[1] Ernesto de Martino, Naturalismo e storicismo nell'etnologia, 1941, Introduzione e cura di Stefano De Matteis, Lecce, Argo 1997, pp. 56-61.

Come un ideogramma: Medea di Pier Paolo Pasolini

Il mito e la tragedia non sono argomenti facili. Per districarsi tra questi due poli creativi occorre, come su un sentiero particolarmente difficoltoso, avere una carta che ci guidi.

Nelle opere cinematografiche di Pasolini le suggestioni mitiche, come la falsariga del rapporto con un mondo che cambia e che deve essere rappresentato, inducono ad una riflessione artistica ed etica.  Medea (1969), in particolare, è un'opera ideogramma nel senso che necessita di varie chiavi antropologiche per leggerne i tanti significati. Rappresenta più il simbolo di una civiltà che finisce - quella pre-borghese e pre-industriale – molto meno di una civiltà che si annuncia - l’Italia politica e sociale degli anni ’70 -, ed è riconducibile all’ultima fase dell’attività artistico-poetica di Pasolini.

Prima di girare Medea Pasolini vive un decennio fecondo (1960 - 1970). Tale periodo, legato al mito e agli studi sul mito stesso, era iniziato con la traduzione dell'Orestea di Eschilo, poi con la produzione di Edipo e quindi Medea.

Per comprendere appieno il valore e i significati sociologici attribuiti da Pasolini al suo film è opportuno rifarsi ad un’intervista di Oreste del Buono del 1970, rintracciabile nelle Teche RAI, in cui con chiarezza il poeta afferma che la Medea proposta non si discosta dagli altri film da lui diretti, quali Edipo e paradossalmente anche Accattone o La Ricotta.

L’intervista (Fuori Orario, http://www.teche.rai.it/2018/08/intervista-a-pasolini-sul-film-medea/ , messa in onda il 26/02/2010 con il Titolo: PASOLINI E IL PUBBLICO - MEDEA 1970, presenta  un classico pubblico televisivo della fine degli anni ’60 e mette in evidenza due modelli culturali diversificati: il primo è rappresentato da docenti universitari e studenti, legati comunque ad una interpretazione classica e canonica degli eventi culturali, il secondo è quello di Pasolini, attento ad una sorta di modello Past and Present, ovvero ad un gioco concettuale teso tra modalità tradizionali di rappresentare la realtà umana e modernità.

La prima domanda viene posta da Giovanni Ferrara (professore di Storia antica alla Sapienza) il quale afferma: “Di Edipo Re ho compreso il senso, il valore del film. Con Medea no, non sono riuscito a capire la chiave moderna che lei ha dato all'interpretazione del film".

La risposta di Pasolini è illuminante: "Non c'è una chiave moderna di interpretazione. Non è necessario presupporre una chiave moderna di interpretazione, diversa da quella di Edipo. Medea ed Edipo possono essere messi sullo stesso piano interpretativo. Non c'è differenza tra Edipo, Medea, come non c'è nemmeno con Accattone o il Vangelo....  Un autore fa sempre lo stesso film, almeno per un periodo di tempo piuttosto lungo. Il nesso va trovato nella contrapposizione tra mondo colto, borghese, tra mondo che vive nella storia dei fatti e un mondo per molti aspetti atemporale, un mondo del sottoproletariato. In Medea il discorso è ancora più accentuato. Medea è l'eroina di un sottoproletariato arcaico, magico, si potrebbe definire mondo arcaico e religioso, al di là del tempo storico. Anche l'amore tra Medea e Giasone rappresenta il conflitto tra questi due mondi.”

Altre domande vengono poste da due studentesse di Lettere classiche (accento toscano puntuto, da future docenti … sembrano anticipare Lettera ad una professoressa di Don Milani): “Abbiamo notato diverse differenze con il testo euripideo: due morti diverse di Creonte e Glauce, perché? Il testo ne presenta una. Come mai queste scelte?”

Anche in questo secondo round le risposte di Pasolini chiariscono le scelte del regista: “Le due morti possiedono un preciso significato […] La prima è vista in sogno, come possibile accadimento, ma è reale, è una premonizione non onirica. Il destino si ripete due volte. La seconda rappresenta la realtà. Il fatto accaduto.” Il significato è nei due mondi psichici in cui Medea è costretta a vivere, ovvero quello del mondo pre-greco, pre-logos da cui proviene e poi in quello della ragione e dei fatti in cui è costretta a vivere, ma per Pasolini i due mondi sono altrettanto veri e significanti. La ragione è il centro della civiltà borghese, mentre il mondo arcaico si basa su altri valori, magici, poetici, irrazionali.

Nel seguito dell’intervista Pasolini rafforza il suo discorso e insiste nel dichiarare che Medea incarna il mondo legato al magico, ad una sorta di sottoproletariato arcaico, mentre Giasone rappresenta il mondo di una civiltà razionale, basata sul pensiero logico-deduttivo, in un certo senso “borghese”. Il film, quindi, si articola su due grandi momenti che rappresentano anche visivamente due luoghi geografici diversi: il mondo di Medea, legato al magico, come si è detto, e rappresentato dai paesaggi della Cappadocia e il mondo di Giasone, cioè il mondo del Logos, esemplificato dal “classicismo” della piazza dei Miracoli di Pisa.  Lo scarto visivo non potrebbe essere più evidente.

D’altra parte il volto di Maria Callas, che interpreta Medea, ha un valore iconico ed esprime il monito del poeta: “Il mondo cambia, ma non dobbiamo perdere il senso della poesia che per gli uomini antichi era connaturato con la contemplazione panteistica della natura”. Non si tratta dell'"Essere uno con il tutto" di Hölderlin, che presuppone già un estraniamento, ma della consapevolezza di un mondo di forze che l’uomo percepisce con ogni parte del suo corpo.

Da qui l’esigenza di fornire un’interpretazione etno-antropologica dell’opera pasoliniana.

Il centauro Chirone

Per illustrare questa duplice realtà panteistica/razionalistica, cuore esplicativo del film, Pasolini ricorre a varie figure emblematiche che fanno da guida semantica nello sviluppo del discorso.

Una delle figure più significative è rappresentata dal centauro Chirone, metà uomo e metà animale, simbolo del panteismo e del mondo magico, maestro di Giasone bambino. Il centauro appare due volte nella prima parte del film e rappresenta l’universo pre-culturale e pre-antropizzato. Disvela anche il mondo dei quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco, il mondo contadino che alla società industrializzata appariva quello del sottoproletariato culturale, non integrato nelle nuove forme di sviluppo economico e legato alla superstizione e alla magia.

Chirone è il centauro mitico, colui che alleva Giasone bambino in un contesto isolato, prima dei riti di passaggio che lo porteranno al mondo del Logos. Rappresenta ancora il mondo di Medea nella Colchide, non quello di Corinto.

Le parole di Chirone richiamano la realtà ambivalente del mito: "Tutto è santo, tutto è sacro … non c’è niente di naturale nella natura

Tra breve tutto sarà finito e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare. Non si può dire che un pezzetto solo di questo mondo non sia naturale e non sia posseduto da un Dio. Gli dei abitano il mondo e lasciano una scia della loro presenza in un odore di mare, di terra, nel silenzio, nel fresco, nell’odore dell’erba … Tutto è Santo, ma il Santo ha in sé una maledizione. Gli dei che amano, odiano allo stesso tempo …

Tutto è santo e l'intera Natura appare innaturale ai nostri occhi. Quando tutto ti sembrerà normale della natura, tutto allora sarà finito!”. Nel mondo di Medea e nella Colchide gli dei e gli uomini sono indissolubilmente legati dal tempo ciclico, dalla ciclicità delle stagioni, rappresentate dal serpente che morde la coda e tiene unito il tempo e il mondo. Il tempo non è lineare ma circolare. Come si tengono allora unite le parti di questo mondo? Tramite il rito: Medea è la sacerdotessa maga che presiede ai culti di fecondità e al rito sacrificale connesso con la ciclicità del tempo e dei culti stagionali.

In questa interpretazione pasoliniana di Medea molti sono i riferimenti espliciti al Ramo d'oro di Frazer e al Trattato di Storia Religioni di Mircea Eliade, con particolare riferimento ai culti e ai riti di vegetazione. Questo mondo viene interpretato nell’ottica panteistica di una società senza storia, legata in tutto alla ciclicità della natura: è il mondo della Grecia barbarica prima del socratismo. Se vogliamo, rappresenta il mondo degli Eroi, della Nascita della Tragedia, caro a Nietzsche.

Va infine ricordato che questa attenzione al mito, al rito, alla magia sono anche in rapporto con la congerie culturale che, tra la metà degli anni ’50 e i primi anni ’60, caratterizzò la cultura italiana.  Pasolini nel 1957 aveva ricevuto il Premio Viareggio per Le Ceneri di Gramsci, Ernesto de Martino lo ricevette nel 1958 per Morte e pianto rituale nel Mondo Antico, libro che ottenne recensioni elogiative di Alfonso Gatto e Piero Citati, e permise ad un pubblico non specialistico di familiarizzarsi con il discorso etnologico. Nel 1959 sempre de Martino pubblicava Sud e Magia e nel 1962 La terra del rimorso sulla tarantola in Puglia, mentre lo stesso Pasolini nel 1964 ambientava a Matera Il Vangelo secondo Matteo. Una visione diversa e nuova, più attenta al discorso socio-antropologico si stava diffondendo in Italia.

Mito e rito

Vari sono i riferimenti etnologici nella Medea pasoliniana e tutti servono a sottolineare le differenze tra mondo arcaico e mondo razionale moderno.

Dopo il riferimento iniziale a Chirone, Pasolini presenta una ricostruzione dei culti arcaici di fecondità delle popolazioni khond. Nell’ambito di questi culti, la vittima sacrificale è il Meriah, un giovane consapevole del proprio sacrificio e dell’importanza per la comunità del sacrificio stesso. La vittima viene drogata e accompagnata al luogo dove verrà immolata mentre l’intera comunità è in festa. Tutti cantano, ridono, anche la vittima ride, sorride. Il rito orgiastico, a cui partecipano Medea e la famiglia reale di cui fa parte, serve a canalizzare l’energia cosmica e a indirizzarla verso i campi e le coltivazioni.

La prima parte del rito del Meriah va ricondotta al culto dei quattro elementi. Questa ritualità non ha a che vedere con culti macabri ma con gli elementi divini che governano il mondo: Acqua /sangue della vittima per rigenerare le coltivazioni, Fuoco – falò in cui vengono bruciati parte dei resti corporei della vittima, Aria, con dispersione della cenere del falò per facilitare un’ulteriore azione fecondante,  Terra, con seppellimento dei resti della vittima e ulteriore fecondazione della stessa.

Il rito prescrive un cerimoniale preciso, legato alla circolarità, e prevede:

- Il re sacerdote al centro del luogo sacrificale e la popolazione in cerchio.

- Sacrificio della vittima e smembramento.

- Raccolta del sangue sacrificale e irrorazione dei campi e delle piante.

- Seppellimento di parti del corpo della vittima.

- Copricapi dei partecipanti a forma circolare per indicare l’eterno ritorno del tempo e macchina circolare del vento azionata da Medea per inviare nei campi un’aura sacra.

La sequenza successiva, corrispondente alla seconda parte del rito, mostra il principe, fratello di Medea, sorridente come la vittima sacrificale. Anche lui verrà sacrificato dall’eroina per propiziare il suo viaggio e la sua nuova vita.

In questa sequenza sono presentati riti di inversione. Il re e la famiglia reale vengono presi a sputi dalla popolazione. Quest’azione rappresenta l’inversione dell’ordine del mondo, possibile per un giorno, come nei riti carnevaleschi e nei culti orgiastici, e rappresenta il cataclisma sociale che serve per ripristinare l’ordine cosmico.

Un’altra sequenza, legata al fuoco, corrisponde al terzo rito narrato ed è riconducibile al mondo dello sciamanesimo e della preveggenza sciamanica.

Medea, prima di incontrare Giasone, avverte delle premonizioni e vuole salire al tempio della città per consultare gli dei. In questo punto i piani sequenza si identificano con la vicenda narrata e la descrivono per immagini:

- Il tempio è posto in alto, per raggiungerlo bisogna assoggettarsi ad una serie di riti di purificazione e sottomissione. La divinità è inaccessibile senza i riti di purificazione perché si deve accedere all’area del sacro, che è anche il luogo in cui la divinità entra in contatto con gli uomini.

- Medea prima di entrare nella cella del Tempio si sottopone al rito iniziatico del fuoco. Deve cioè camminare sulle braci ardenti di un falò (pirobazía) per ottenere la purificazione ed entrare in contatto con il divino. Anche questi corrispondono a precisi riferimenti antropologici descritti da vari etnologi e ripresi da Ernesto de Martino in Mondo magico.

Come conseguenza della consultazione dell’oracolo, Medea vede in sogno il suo futuro. Il sogno rappresenta la conoscenza di quello che accadrà. Medea vede Giasone, lo incontra ed è consapevole del suo futuro. La conoscenza tramite il sogno rientrava ampiamente nella rivelazione sciamanica come leggiamo in Mircea Eliade e ancora in Mondo magico di E. de Martino.

Il film presenta poi l’incontro di Medea e Giasone, il ratto del vello d’oro e la fuga dalla Colchide.

La fuga si ricollega al quarto rito trattato nel film: il sacrificio del fratello, immolato ad eros per rendere fecondo il legame con Giasone. I pezzi del corpo sparsi in mare ricordano il primo rito, anche se quest’azione altera la ciclicità dei quattro elementi e presenta un punto di rottura con la tradizione presentata.

La fuga pone Medea in una realtà intermedia tra la Colchide e la nuova realtà sociale e culturale di Corinto e della Grecia. Sulla spiaggia di Iolco viene preparato l’accampamento dei seguaci di Giasone, i quali si occupano di montare le tende e di preparare il cibo. Contro costoro Medea inveisce e grida: "AVETE PERDUTO IL SACRO, CERCATE UNA PIANTA, UN PALO, UN CENTRO CHE PERMETTA DI UNIRE MACROCOSMO E MICROCOSMO, MONDO DIVINO E MONDO UMANO”. Queste parole sottolineano il primo cambio di passo. La civiltà razionalizzata comporta la perdita del sacro, come sostengono gli antropologi ed in particolare E. de Martino in La fine del Mondo. Tutto ciò inaugura la società e la cultura moderna.

Il passaggio tra i due mondi viene ulteriormente evidenziato dalla chiamata di Medea rivolta alla madre Terra, di cui a Corinto e nel mondo greco non avverte più la voce ispirata; per questo le si rivolge e cerca di rientrare in contatto con lei: "PARLAMI, PERCHE' NON TI SENTO?"

Nella seconda parte del film emerge il contrasto antropologico e culturale di Medea rispetto al mondo di Corinto e della società greca, in qualche modo anticipazione della modernità.

Il mondo di Giasone esprime il contrasto più totale con la Cappadocia e le città rupestri, prive di architettura umana definita e definibile. La Corinto di Giasone, rappresentata dai marmi perfetti e razionali del camposanto di Pisa e dalle mura di Sana’a, è la sintesi di questo contrasto. Lo stesso Centauro si ripresenta a Giasone in abiti greci e in sembianze umane: ha ormai perso la sua natura duplice. Tutto ciò esprime la perdita del senso del mito, del magico, del panteismo.

A questo punto le trasformazioni nella seconda parte del film sono evidenti: Medea veste abiti greci, ma non può rinunciare alle sue radici e rifiuta di accettare la cooptazione che le propone Giasone. L’integrazione col mondo del Logos non può avvenire: da qui la tragedia pasoliniana/euripidea.

Sempre nella seconda parte del film vediamo che il patriarcato sostituisce il matriarcato: i culti magici e il contatto costante con il mondo dei trapassati, degli antenati, non può avere luogo. Giasone propone nel suo discorso a Medea un modello di accettazione dei ruoli e rifiuta l’aiuto e il ricorso alla magia offerti da Medea. Si presenta come artefice del proprio destino e sostiene che Medea ha ottenuto molti vantaggi dall’unione con il mondo greco e con il futuro sovrano di Corinto, più di quelli che ha avuto lui legandosi a lei. In altri termini Giasone, a lei che lo accusa di adikia, di averla tradita e di aver profanato il talamo nuziale, propone di barattare il suo mondo onirico, sensitivo, mitico, appassionato, con la calma sicura di una vita “borghese” e razionale: “No non l’ho fatto per il motivo che ti punge, perché io odii il tuo letto e sia stato preso dal desiderio di una nuova sposa, né perché miri a competere per il numero dei figli, quelli che ho mi bastano, non mi lamento. Ma – è questa la cosa più importante - perché vivessimo bene e senza privazioni, sapendo che ognuno, anche amico, evita il povero …”.

Il film termina con il sole che sorge e che rinasce quando Medea, dopo il gesto inconsulto dell’uccisione della rivale Glauce e dei figli, non cerca più nelle parole e nella razionalità la spiegazione di ciò che accade.

Non è indifferente l’utilizzo nel film di lunghi piani sequenza e, quando viene descritto il mito o il rituale, il ricorso alla profondità del campo visivo: il piano sequenza prescinde dal montaggio, che attua un processo di sintesi eliminando ciò che non è funzionale al racconto. Tutto ciò serve per definire il tempo etnologico, di lungo periodo e quasi statico, necessario per illustrare un mito e la sua espressione rituale. Questo insieme di scelte documenta le scelte antropologiche e registiche utilizzate da Pasolini: così piano mitico, etnologico ed estetico confluiscono in un insieme coerente dove, in chiave moderna, prende forma la sua visione del mondo.

1969: Medea di Pasolini

Raffaele Riccio

Nelle opere cinematografiche di Pasolini le suggestioni mitiche inducono ad una riflessione artistica ed etica. Medea (1969) in particolare è un'opera ideogramma nel senso che necessita di varie chiavi antropologiche per leggerne i tanti significati. Da qui l’esigenza di fornire un’interpretazione etno-antropologica dell’opera pasoliniana.

In un’intervista televisiva del 1970 Pasolini dichiara: "Non è necessaria una chiave moderna di interpretazione. Non c'è differenza tra Edipo, Medea, come non c'è nemmeno con Accattone, o il Vangelo ... Il nesso va trovato nella contrapposizione tra mondo colto, borghese, tra mondo che vive nella storia dei fatti ed un mondo per molti aspetti atemporale, un mondo del sottoproletariato. Medea è l'eroina di un sottoproletariato arcaico, magico si potrebbe definire, mondo arcaico e religioso, al di là del tempo storico …”. E nel film è il viso di Maria Callas, interprete di Medea, ad esprimere il monito del poeta: “Il mondo cambia, ma non dobbiamo perdere il senso della poesia che per gli uomini antichi era connaturato con la contemplazione panteistica della natura.”

Incursioni corsare nello spazio del mito

Antonella Cosentino

Mythos in greco vuol dire parola, racconto. Pasolini ha cercato sempre la parola, una parola sacra, primigenia, in grado di opporsi a quella deturpata dalla forza del modello televisivo, dal primato delle scienze e della tecnologia, che ad essa si è sovrapposta cancellando tutti i codici linguistici del passato.

Studia accuratamente la poesia colta, quella della tradizione letteraria, della linea simbolistica ed ermetica, e intanto scava nella tradizione popolare e dialettale, alla ricerca di una parola innocente, espressione di un mondo innocente. Il passaggio dalla parola mythos al mito vero e proprio si compie quando Pasolini ritrova l’immagine (a Bologna era stato allievo di Roberto Longhi) e viene a contatto con il cinema. Dalla metà degli anni ’60 il cinema diventa lo strumento privilegiato della sua ricerca artistica, la macchina da presa, come la poesia, fa emergere in modo più esplosivo e lacerante l’autenticità.

Ma il mito in sé non gli interessa, è la realtà che dà valore al mito, non viceversa. Così non c’è nessuna differenza fra Accattone e Medea, fra il Vangelo e Medea, sono varianti dello stesso tema: Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso, Giasone è l’eroe di un mondo laico, razionale, moderno e il loro amore rappresenta il conflitto fra questi due mondi. La riscrittura della tragedia esilia però la parola. La parola, quella stessa parola che aveva riempito romanzi, poesie, film con la sua carica espressiva, tende a soccombere, a prosciugarsi, a diventare rarefatta, essenziale e a scomparire nelle immagini. È l’immagine che parla, comunica, commuove, travolge. E parla il linguaggio profondo del sogno, esprimendo quel mondo dionisiaco, mitico, che non può essere accantonato come fa la cultura pseudo illuministica, pena la perdita profonda di sé. Non c’è posto per gli esiti felici nel mito, diceva Eliade. Anche in Pasolini il mito incontra una sconfitta: quella dell’intellettuale che non può mutare i rapporti nella società, che non può intervenire in essa. Sempre più staccato dalle sue creature egli proietta le proprie ossessioni sullo sfondo della tragedia e del mito per dimostrare come l’unica produzione immaginaria possibile abbia sempre meno rapporti con la realtà circostante e sempre più con il sogno.

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