(Ri)accendiamo il classico

Elena. Dal mito al simbolo

18 novembre 2023
CostArena Via Azzo Gardino 48 Bologna

Elena-Helene, fiaccola o splendore, ma anche Elènas distruttrice di navi, èlandros, distruttrice di uomini, elèpolis distruttrice di città: molti sono i volti di Elena, ma sempre dietro di essi divampa il fuoco che annienta Troia. Narra il mito che Zeus si mutò in cigno per possedere Leda.  Leda depose un uovo dal quale nacque Elena. Prodigiosa fu dunque la sua nascita, come fu la sua bellezza. Poi Paride la rapì e la condusse a Troia, scatenando la più spaventosa guerra dell’antichità e generando il poema che dà inizio alla nostra cultura.

Chi fu Elena? Vittima degli dèi o pericolosa incantatrice? Causa prima di una guerra feroce o figura inerme nel capriccioso gioco delle potenze divine? Fantasma o realtà?

A questa figura meravigliosa e inafferrabile nella sua essenza è dedicata la quinta edizione di (Ri)accendiamo il classico. Ci porterà, attraverso le suggestioni del mito, fino alle invenzioni del teatro contemporaneo.

Chi ha partecipato alle giornate precedenti - Supplici (2017), Fedra (2018), Medea di Pasolini (2019), Troiane (2022) - sa che questo progetto culturale scaturisce da un punto preciso – una sorta di seme - che ne è insieme l’elemento generativo, la fonte di energia e il centro gravitazionale: un dramma antico. Da questo punto nascono riflessioni che, obbedendo ad una irrinunciabile esigenza di pluralità, affidiamo a studiosi che hanno provenienze e parlano linguaggi disciplinari diversi.

In un mondo fratturato e lacerato, dove nessun dualismo è più possibile e nessuna tranquillità manichea è praticabile, il pensiero e la parola sembrano diventati la sola arma da contrapporre alle forze distruttive, la sola strada da percorrere ostinatamente anche quando appare senza speranza. E poiché non c’è dubbio che la tragedia greca dia enormemente da pensare nell’epoca di incertezza e di caos che ci è dato attraversare, il nostro non vuole essere semplicemente un omaggio all’antichità ma uno sforzo di conoscenza di noi stessi e del nostro mondo alimentato dai testi del passato quali ci vengono restituiti dai lettori e dagli interpreti di oggi.

La tragedia greca non è soltanto un’eredità da trasmettere o un patrimonio da far rivivere: è una costruzione culturale, che dipende da un’elaborazione storica e cambia secondo i diversi momenti della sua ricezione. Questo oggetto culturale si modella e si rinnova, in un gioco di stratificazioni in cui si intrecciano creazioni artistiche, discipline umanistiche – filosofia, storia, letteratura, psicoanalisi, antropologia, storia -, traduzioni, discorsi mediatici, forme dell’immaginario collettivo. Le nostre giornate vogliono essere un contributo a questo movimento di pensiero e di affetti che, come un’onda, dall’antichità s’infrange sulle sponde della nostra modernità e ci interroga.

Albert Camus, L’esilio di Elena

Venere con due cupidi allo specchio, (copia daTiziano), 1560, Ermitage

Questo breve saggio, dal titolo “L’exil d’Hélène”, scritto nel 1948, fu inserito da Camus nella raccolta L’été, pubblicata da Gallimard nel 1954. Lo scrittore vi celebra la civiltà greca nel suo profondo attaccamento alla bellezza. La bellezza di Elena è per Camus simbolo dell’esistenza di qualcosa che si situa al di là del dominio della ragione, che si rivela all’uomo senza che questi possa padroneggiarla o possederla e lo porta perciò alla coscienza dei propri limiti.

Non vi sono riferimenti né allusioni agli eventi appena trascorsi, ma la storia recente è lì, ben percettibile, espressione degli orrori e dell’indegnità di cui gli uomini possono rendersi capaci. Alla follia dell’epoca contemporanea – dominata dall’assenza di limiti, dall’abbandono del bello, dagli eccessi della ragione -, egli oppone la ricerca greca della misura e della bellezza. “Noi abbiamo esiliato la Bellezza; i Greci per essa hanno preso le armi”. Può la nostra civiltà salvarsi? Tocca all’artista ritessere la trama della storia, indicare i limiti, lottare perché di nuovo sorgano l’intelligenza e il soffio dei veri valori umani. Lungi dal lasciarsi sopraffare dagli spasmi atroci della Storia, l’umanesimo di Camus addita l’audacia della lotta e della speranza: “Oh pensiero meridiano, la guerra di Troia si combatte lontano dai campi di battaglia!”

(da L’ Estate e altri saggi solari, Bompiani, 2003, trad. di Sergio Morando)

Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente. In questa infelicità dorata la tragedia giunge al sommo. Invece la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. Ecco perché l’Europa sarebbe ignobile, se mai il dolore potesse esserlo.

Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa han preso le armi. È la prima differenza, ma risale molto addietro. Il pensiero greco si è sempre trincerato nell’idea di limite. Non ha spinto nulla all’estremo, né il sacro, né la ragione, perché non ha negato nulla, né il sacro, né la ragione. Ha tenuto conto di tutto, equilibrando l’ombra con la luce. Invece la nostra Europa, lanciata alla conquista della totalità, è figlia della dismisura. Essa nega la bellezza come nega tutto quello che non esalta. E, per quanto in modo diverso, esalta una sola cosa: l’impero futuro della ragione. Nella sua follia, allontana i limiti eterni e, nello stesso istante, oscure Erinni le si avventano sopra e la straziano. Vecchia Nemesi, dea della misura, non della vendetta. Chi supera il limite, ne è castigato senza pietà.

I Greci, che per secoli si sono interrogati su che cosa sia giusto, non potrebbero capir nulla della nostra idea di giustizia. Per loro l’equità supponeva un limite mentre tutto il nostro continente spasima alla ricerca di una giustizia che vuole totale. Già all’aurora del pensiero greco, Eraclito immaginava che la giustizia ponga limiti allo stesso universo fisico. “Il sole non oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, custodi della giustizia, sapranno scoprirlo”. Noi, che abbiamo scardinato l’universo e lo spirito, ridiamo di quella minaccia. Accendiamo in un cielo ebbro i soli che vogliamo. Ma questo non toglie che i limiti esistano, e noi lo sappiamo. All’estremo delle nostre demenze, fantastichiamo di un equilibrio che ci siamo lasciati alle spalle e che ingenuamente crediamo di ritrovare in fondo ai nostri errori. Presunzione puerile che giustifica come popoli infantili, eredi delle nostre follie, guidino oggi la storia.

Un frammento, attribuito sempre a Eraclito, enuncia semplicemente: “Presunzione, regresso del progresso”. E molti secoli dopo il filosofo di Efeso, davanti alla minaccia di una condanna a morte, Socrate non si riconosceva altra superiorità che questa: non credeva di sapere quello che ignorava. La vita e il pensiero più esemplari di quei secoli terminano con una fiera ammissione di ignoranza. Dimenticandolo, abbiamo dimenticato la nostra virilità. Abbiamo preferito la potenza che scimmiotta la grandezza, prima Alessandro e poi i conquistatori romani che, con incomparabile bassezza d’animo, gli autori dei nostri manuali ci insegnano ad ammirare. Anche noi, a nostra volta, abbiamo conquistato, spostato limiti, dominato cielo e terra. La nostra ragione ha fatto il vuoto. Finalmente soli, portiamo a compimento il nostro dominio su un deserto. Come potremmo dunque immaginare quel superiore equilibrio in cui la natura bilanciava la storia, la bellezza il bene, e che portava la musica dei numeri fin nella tragedia del sangue? Noi voltiamo le spalle alla natura, ci vergogniamo della bellezza. Le nostre miserevoli tragedie si trascinano dietro un odore di scrivania e il sangue di cui grondano ha il colore dell’inchiostro grasso.

Perciò oggi è indecente proclamare che siamo figli della Grecia. Oppure ne siamo i figli rinnegati. Mettendo la storia sul trono di Dio, andiamo verso la teocrazia, come quelli che i Greci chiamavano barbari, combattendoli a morte nelle acque di Salamina. 

Per afferrare bene la differenza bisogna ricorrere a quello fra i nostri filosofi che è il vero rivale di Platone. “Solo la città moderna”, osa scrivere Hegel, “offre allo spirito il terreno in cui può prendere coscienza di sé”. Cosi noi viviamo l’epoca delle grandi città. Il mondo è stato deliberatamente amputato di ciò che ne costituisce la permanenza: la natura, il mare, la collina, la meditazione serale. C’è coscienza ormai solo nelle strade, perché c’è storia solo nelle strade, questo è il decreto. E in quella scia, le nostre opere più significative attestano lo stesso partito preso. 

Dopo Dostoevskij, si cercano invano i paesaggi nella grande letteratura europea. La storia non spiega né l’universo naturale che c’era prima, né la bellezza che sta sopra alla storia. Quindi ha scelto di ignorare l’uno e l’altra. Mentre Platone comprendeva tutto in sé, l’assurdo, la ragione e il mito, i nostri filosofi, che hanno chiuso gli occhi sul resto, non contengono che l’assurdo o la ragione. La talpa medita.

Ha cominciato il cristianesimo a sostituire alla contemplazione del mondo la tragedia dell’anima. Ma almeno si riferiva ad una natura spirituale, e, mediante quella, manteneva una certa fissità. Morto Dio, non rimane altro che la storia e la potenza. Da molto tempo ogni sforzo dei nostri filosofi non mira ad altro che a sostituire alla nozione di natura umana quella di situazione, e all’armonia antica l’impeto disordinato del caso o il moto spietato della ragione. Mentre i Greci ponevano alla volontà i limiti della ragione, noi, per finire, abbiamo messo la spinta della volontà al centro della ragione, che ne è diventata micidiale. 

Per i Greci i valori preesistevano ad ogni azione e ne segnavano esattamente i limiti. La filosofia moderna colloca i propri valori al termine dell’azione. I valori non sono, divengono, e li conosceremo interamente solo al compiersi della storia. Coi valori, sparisce il limite, e dal momento che le concezioni differiscono su quel ch’essi saranno, dal momento che non c’è lotta che, senza il freno di quegli stessi valori, non si estenda all’infinito, oggi i messianismi si affrontano e i loro clamori si fondono nell’urto degli imperi. Secondo Eraclito, la dismisura è un incendio. L’incendio avanza, Nietzsche è superato. L’Europa non filosofeggia più a colpi di martello, ma di cannone.

Però la natura è sempre lì. Alla follia degli uomini contrappone i cieli calmi e le proprie ragioni. Fino a che anche l’atomo prenda fuoco e la storia si compia col trionfo della ragione e l’agonia della specie. Ma i Greci non hanno mai detto che il limite non poteva essere varcato. Hanno detto che esisteva e che veniva colpito senza pietà chi osava oltrepassarlo. Nella storia di oggi non c’è nulla che li possa contraddire.

Lo storico e l’artista vogliono entrambi rifare il mondo. Ma l’artista, costrettovi dalla propria natura, conosce i suoi limiti e lo storico li disconosce. Perciò il fine di quest’ultimo è la tirannia, mentre la passione del primo è la libertà. Tutti coloro che oggi lottano per la libertà combattono in ultima analisi per la bellezza. Non si tratta, beninteso, di difendere la bellezza per sé stessa. La bellezza non può fare a meno dell’uomo; ma solo seguendo la nostra epoca nella sua sventura noi le daremo grandezza e serenità. Non saremo mai più solitari. Ma è altrettanto vero che l’uomo non può fare a meno della bellezza e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio, vuole trasfigurare il mondo prima di averlo esaurito, ordinarlo prima d’averlo capito. Per quanto dica, essa diserta da questo mondo.

Nell’isola di Calipso, Ulisse può scegliere fra l’immortalità e la terra della patria. Sceglie la terra, e insieme la morte. Oggi una grandezza cosi semplice ci è estranea. Altri dirà che manchiamo d’umiltà. Ma, tutto considerato, la parola è ambigua. Simili ai buffoni di Dostoevskij che si vantano di tutto, salgono alle stelle e finiscono con l’esibire la propria vergogna nel primo locale pubblico, noi manchiamo di quella fierezza dell’uomo che è fedeltà ai propri limiti, amore chiaroveggente della propria condizione.

“Odio il mio tempo”, scriveva Saint-Exupéry prima di morire, per ragioni che non sono molto lontane da quelle di cui ho parlato. Ma, per quanto conturbante sia questo grido che viene da chi aveva amato gli uomini in quel che hanno di ammirevole, noi non lo faremo nostro. Eppure, in certi momenti, che tentazione di abbandonare questo mondo triste e scarno! Ma questo tempo è il nostro, e noi non possiamo vivere odiandoci. L’uomo è caduto cosi in basso solo per l’eccesso delle sue virtù e per la grandezza dei suoi difetti. Lotteremo per quella fra le sue virtù che risale a tempi lontani. Quale? I cavalli di Patroclo piangono il loro padrone morto in battaglia. Tutto è perduto. Ma il combattimento riprende con Achille e alla fine c’è la vittoria, perché l’amicizia è stata assassinata: l’amicizia è una virtù.

Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, por limiti al mondo e all’uomo, il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci. Il senso della storia di domani non è in certo modo quel che si crede. Esso è nella lotta fra creazione e inquisizione. Nonostante il prezzo che agli artisti costeranno le loro mani vuote, si può sperare nella loro vittoria. Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre. O pensiero meridiano, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia! Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, “anima serena come la calma dei mari”, la bellezza di Elena.


L’exil d’Hélène 

(da L’Été, Gallimard, 1954)

La Méditerranée a son tragique solaire qui n’est pas celui des brumes. Certains soirs, sur la mer, au pied des mon- tagnes, la nuit tombe sur la courbe parfaite d’une petite baie et, des eaux silencieuses, monte alors une plénitude angois- sée. On peut comprendre en ces lieux que si les Grecs ont touché au désespoir, c’est toujours à travers la beauté, et ce qu’elle a d’oppressant. Dans ce malheur doré, la tragédie culmine. Notre temps, au contraire, a nourri son désespoir dans la laideur et dans les convulsions. C’est pourquoi l’Europe serait ignoble, si la douleur pouvait jamais l’être. 

Nous avons exilé la beauté, les Grecs ont pris les armes pour elle. Première différence, mais qui vient de loin. La pensée grecque s’est toujours retranchée sur l’idée de li- mite. Elle n’a rien poussé à bout, ni le sacré, ni la raison. Elle a fait la part de tout, équilibrant l’ombre par la lumière. Notre Europe, au contraire, lancée à la conquête de la totalité, est fille de la démesure. Elle nie la beauté, comme elle nie tout ce qu’elle n’exalte pas. Et, quoique diversement, elle n’exalte qu’une seule chose qui est l’empire futur de la raison. Elle recule dans sa folie les limites éter- nelles et, à l’instant, d’obscures Érynnies s’abattent sur elle et la déchirent. Némésis veille, déesse de la mesure, non de la vengeance. Tous ceux qui dépassent la limite sont, par elle, impitoyablement châtiés. 

Les Grecs qui se sont interrogés pendant des siècles sur ce qui est juste ne pourraient rien comprendre à notre idée de la justice. L’équité, pour eux, supposait une limite tandis que tout notre continent se convulse à la recherche d’une justice qu’il veut totale. À l’aurore de la pensée grecque, Héraclite imaginait déjà que la justice pose des bornes à l’univers physique lui-même. « Le soleil n’outrepassera pas ses bornes, sinon les Érynnies qui gardent la justice sauront le découvrir. » Nous qui avons désorbité l’univers et l’esprit rions de cette menace. Nous allumons dans un ciel ivre les soleils que nous voulons. Mais il n’empêche que les bornes existent et que nous le savons. Dans nos plus extrêmes démences, nous rêvons d’un équilibre que nous avons laissé derrière nous et dont nous croyons ingénument que nous allons le retrouver au bout de nos erreurs. Enfantine présomption et qui justifie que des peuples enfants, héritiers de nos folies, conduisent aujourd’hui notre histoire. 

Un fragment attribué au même Héraclite énonce simplement : « Présomption, régression du progrès ». Et, bien des siècles après l’Éphésien, Socrate, devant la menace d’une condamnation à mort, ne se reconnaissait nulle autre su- périorité que celle-ci: ce qu’il ignorait, il ne croyait pas le savoir. La vie et la pensée les plus exemplaires de ces siècles s’achèvent sur un fier aveu d’ignorance. En oubliant cela, nous avons oublié notre virilité. Nous avons préféré la puissance qui singe la grandeur, Alexandre d’abord et puis les conquérants romains que nos auteurs de manuels, par une incomparable bassesse d’âme, nous apprennent à admirer. Nous avons conquis à notre tour, déplacé les bornes, maîtrisé le ciel et la terre. Notre raison a fait le vide. Enfin seuls, nous achevons notre empire sur un désert. Quelle imagination aurions-nous donc pour cet équilibre supérieur où la nature balançait l’histoire, la beauté, le bien, et qui apportait la musique des nombres jusque dans la tragédie du sang? Nous tournons le dos à la nature, nous avons honte de la beauté. Nos misérables tragédies traînent une odeur de bureau et le sang dont elles ruissellent a couleur d’encre grasse. 

Voilà pourquoi il est indécent de proclamer aujourd’hui que nous sommes les fils de la Grèce. Ou alors nous en sommes les fils renégats. Plaçant l’histoire sur le trône de Dieu, nous marchons vers la théocratie, comme ceux que les Grecs appelaient Barbares et qu’ils ont combattus jusqu’à la mort dans les eaux de Salamine. Si l’on veut bien saisir notre différence, il faut s’adresser à celui de nos philosophes qui est le vrai rival de Platon. « Seule la ville moderne, ose écrire Hegel, offre à l’esprit le terrain où il peut prendre conscience de lui-même. » Nous vivons ainsi le temps des grandes villes. Délibérément, le monde a été amputé de ce qui fait sa permanence : la nature, la mer, la colline, la médi- tation des soirs. Il n’y a plus de conscience que dans les rues, parce qu’il n’y a d’histoire que dans les rues, tel est le décret. Et à sa suite, nos œuvres les plus significatives témoignent du même parti pris. On cherche en vain les paysages dans la grande littérature européenne depuis Dostoïevski. L’histoire n’explique ni l’univers naturel qui était avant elle, ni la beauté qui est au-dessus d’elle. Elle a donc choisi de les ignorer. Alors que Platon contenait tout, le non-sens, la raison et le mythe, nos philosophes ne contiennent rien que le non-sens ou la raison, parce qu’ils ont fermé les yeux sur le reste. La taupe médite. 

C’est le christianisme qui a commencé de substituer à la contemplation du monde la tragédie de l’âme. Mais, du moins, il se référait à une nature spirituelle et, par elle, maintenait une certaine fixité. Dieu mort, il ne reste que l’histoire et la puissance. Depuis longtemps tout l’effort de nos philosophes n’a visé qu’à remplacer la notion de nature humaine par celle de situation, et l’harmonie ancienne par l’élan dé- sordonné du hasard ou le mouvement impitoyable de la raison. Tandis que les Grecs donnaient à la volonté les bornes de la raison, nous avons mis pour finir l’élan de la volonté au cœur de la raison, qui en est devenue meurtrière. Les valeurs pour les Grecs étaient préexistantes à toute action dont elles marquaient précisément les limites. La philosophie mo- derne place ses valeurs à la fin de l’action. Elles ne sont pas, mais elles deviennent, et nous ne les connaîtrons dans leur entier qu’à l’achèvement de l’histoire. Avec elles, la limite disparaît, et comme il n’est pas de lutte qui, sans le frein de ces mêmes valeurs, ne s’étende indéfiniment, les messianismes aujourd’hui s’affrontent et leurs clameurs se fondent dans le choc des empires. La démesure est un incendie, selon Héraclite. L’incendie gagne, Nietzsche est dépassé. Ce n’est plus à coups de marteau que l’Europe philosophe, mais à coups de canon. 

La nature est toujours là, pourtant. Elle oppose ses ciels calmes et ses raisons à la folie des hommes. Jusqu’à ce que l’atome prenne feu lui aussi et que l’histoire s’achève dans le triomphe de la raison et l’agonie de l’espèce. Mais les Grecs n’ont jamais dit que la limite ne pouvait être franchie. Ils ont dit qu’elle existait et que celui-là était frappé sans merci qui osait la dépasser. Rien dans l’histoire d’aujourd’hui ne peut le contredire. 

L’esprit historique et l’artiste veulent tous deux refaire le monde. Mais l’artiste, par une obligation de sa nature, connaît ses limites que l’esprit historique méconnaît. C’est pourquoi la fin de ce dernier est la tyrannie tandis que la passion du premier est la liberté. Tous ceux qui aujourd’hui luttent pour la liberté combattent en dernier lieu pour la beauté. Bien entendu, il ne s’agit pas de défendre la beauté pour elle-même. La beauté ne peut se passer de l’homme et nous ne donnerons à notre temps sa grandeur et sa sérénité qu’en le suivant dans son malheur. Plus jamais, nous ne se- rons des solitaires. Mais il est non moins vrai que l’homme ne peut se passer de la beauté et c’est ce que notre époque fait mine de vouloir ignorer. Elle se raidit pour atteindre l’absolu et l’empire, elle veut transfigurer le monde avant de l’avoir épuisé, l’ordonner avant de l’avoir compris. Quoi qu’elle en dise, elle déserte ce monde. Ulysse peut choisir chez Calypso entre l’immortalité et la terre de la patrie. Il choisit la terre, et la mort avec elle. Une si simple grandeur nous est aujourd’hui étrangère. D’autres diront que nous manquons d’humilité. Mais ce mot, à tout prendre, est am- bigu. Pareils à ces bouffons de Dostoïevski qui se vantent de tout, montent aux étoiles et finissent par étaler leur honte dans le premier lieu public, nous manquons seulement de la fierté de l’homme qui est fidélité à ses limites, amour clairvoyant de sa condition. 

« Je hais mon époque », écrivait avant sa mort Saint-Exupéry, pour des raisons qui ne sont pas très éloignées de celles dont j’ai parlé. Mais, si bouleversant que ce soit, ce cri, venant de lui qui a aimé les hommes dans ce qu’ils ont d’admirable, nous ne le prendrons pas à notre compte. Quelle tentation, pourtant, à certaines heures, de se détourner de ce monde morne et décharné ! Mais cette époque est la nôtre et nous ne pouvons vivre en nous haïssant. Elle n’est tombée si bas que par l’excès de ses vertus autant que la grandeur de ses défauts. Nous lutterons pour celle de ses vertus qui vient de loin. Quelle vertu ? Les chevaux de Patrocle pleurent leur maître mort dans la bataille. Tout est perdu. Mais le combat reprend avec Achille et la victoire est au bout, parce que l’amitié vient d’être assassinée : l’amitié est une vertu. 

L’ignorance reconnue, le refus du fanatisme, les bornes du monde et de l’homme, le visage aimé, la beauté enfin, voici le camp où nous rejoindrons les Grecs. D’une certaine manière, le sens de l’histoire de demain n’est pas celui qu’on croit. Il est dans la lutte entre la création et l’inquisition. Malgré le prix que coûteront aux artistes leurs mains vides, on peut espérer leur victoire. Une fois de plus, la philosophie des ténèbres se dissipera au-dessus de la mer éclatante. O pensée de midi, la guerre de Troie se livre loin des champs de bataille! Cette fois encore, les murs terribles de la cité moderne tomberont pour livrer, « âme sereine comme le calme des mers », la beauté d’Hélène.

La bellezza nei versi di René Char

Venus und Amor, Jacob de Gheyn, 1605-1610, Rijksmuseum


Figura allegorica e magica, frutto di un’elevazione condivisa tra il poeta e il suo lettore, la bellezza attraversa e illumina ininterrottamente la poesia di René Char. Né ritorno beato a un ideale classico o romantico, né volontà di distogliere lo sguardo dagli orrori e dalle tragedie della Storia, la sua ricerca indica il desiderio di preservare “uno spazio di dignità e di specificità umana”. Entrato nella resistenza attiva con lo pseudonimo di capitano Alexandre, Char ha continuato a testimoniare, con la sua poesia, di una resistenza dell’umano e di un anelito ostinato alla verità e alla bellezza.

Necessità assoluta, singolare e universale, inseparabile dall’esperienza esistenziale di una incompletezza impossibile da colmare, la Bellezza cantata, evocata, perduta, cercata, della poesia di René Char ha oggi, nel mondo della distruzione e del disincanto, più che mai valore d’appello. 

Beauté, je me porte à ta rencontre dans la solitude du froid. Ta lampe est rose, le vent brille. Le seuil du soir se creuse.

Bellezza, vengo a incontrarti nella solitudine del freddo. La tua lampada è rosa, il vento brilla. Si scava il limitar della sera.

(René Char)

da Feuillets d’Hypnos (1943-1944) 

Fr. 237

Dans nos ténèbres, il n’y a pas une place pour la Beauté. Toute la place est pour la Beauté. 

Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la Bellezza. Tutto lo spazio è per la Bellezza.

La Rose de Chêne

La Rosa di Quercia (1939) 

Chacune des lettres qui composent ton nom, ô Beauté, au tableau d’honneur des supplices, épouse la plane simplicité du soleil, s’inscrit dans la phrase géante qui barre le ciel, et s’associe à l’homme acharné à tromper son destin avec son contraire indomptable : l’espérance. 

Ognuna delle lettere che compongono il tuo nome, Bellezza, nel posto d’onore dei supplizi, sposa la distesa semplicità del sole, s’iscrive nella frase immensa che copre il cielo, e si accompagna all’uomo impegnato a ingannare il destino col suo opposto indomabile: la speranza.

(trad. di Francesco Marotta)

da Le poème pulvérisé (1945-1947) 

Le Bullettin des Baux

Il Bollettino dei Baux

La beauté naît du dialogue, de la rupture du silence et du regain de ce silence. Cette pierre qui t’appelle dans ton passé est libre. Cela se lit aux lignes de sa bouche.

[…]

La graduelle présence du soleil désaltère la tragédie. Ah! n’appréhende pas de renverser ta jeunesse.

La bellezza nasce dal dialogo, dall’interruzione del silenzio e dal rifiorire dello stesso silenzio. La pietra che ti chiama al suo passato è libera. Lo si legge sulle righe della sua bocca.

[…]

La graduale presenza del sole lenisce la tragedia. Ah, non aver paura di buttar giù la tua giovinezza.

(trad. di Giorgio Caproni)

da Les loyaux adversaires 

Chaume des Vosges

Stoppia dei Vosgi (1939)

Beauté, ma toute-droite, par des routes si ladres,

À l'étape des lampes et du courage clos, 

Que je me glace et que tu sois ma femme de décembre. 

Ma vie future, c'est ton visage quand tu dors.

Bellezza, mia tutt’eretta, per strade così avare,

Alla tappa delle lampade e del chiuso coraggio,

Ch’io geli e che tu sia la mia donna di dicembre.

La mia vita futura, è il tuo volto quando dormi. 

(trad. Giorgio Caproni)

da la Bibliothèque est en feu (1955) 

La beauté fait son lit sublime toute seule, étrangement bâtit sa renommée parmi les hommes, à côté d’eux, mais à l’écart.

La bellezza fa il suo letto sublime da sola, stranamente edifica la propria rinomanza tra gli uomini, accanto a loro, ma appartata.

(trad. di Giorgio Caproni)

À une sérénité crispée (1950)

A una serenità contratta

Cet instant où la Beauté, après s’être longtemps fait attendre, surgit des choses communes, traverse notre champ radieux, lie tout ce qui peut être lié, allume tout ce qui doit être allumé de notre grebe de ténèbres. 

L’istante in cui la Bellezza,
dopo essersi fatta lungamente aspettare, sorge dalle cose comuni,
attraversa il nostro campo radioso,
lega tutto ciò che può essere legato, illumina tutto ciò che dev’essere illuminato del nostro covone di tenebre. 

(trad. di Giorgio Caproni)

da Cantonnement d’octobre

da Acquartieramento d’ottobre

[…]

Beauté, ma toute droite, par les routes d’étoiles,
À l’étape des lampes et du courage clos,
Pose tes mains meurtries sur le bois de la faux,
Grande sœur du retour des hommes sous la toile,
Beauté de nuits brûlées et de fauves échos,
Écroule-moi et sois ma Femme de décembre.

[…]

Beauté, ma toute droite, par les routes d’étoiles,
À l’étape des lampes et du courage clos,
Dans l’absurde chagrin de vivre sans comprendre,
Ecroule-moi et sois ma Femme de décembre.

[…]

Bellezza, mia tutt’eretta, per strade di stelle,

Alla tappa delle lampade e del chiuso coraggio,

Poni le tue mani straziate sul legno della falce,

Grande sorella del ritorno degli uomini sotto la tela,

Bellezza di notti bruciate e di echi selvaggi,

Scuotimi e sii la mia donna di dicembre.

[…]

Bellezza, mia tutt’eretta, per strade di stelle,

Alla tappa delle lampade e del chiuso coraggio,

Nell’assurdo dolore di vivere senza comprendere,

Scuotimi e sii la mia donna di dicembre.

(trad. Giorgio Caproni)

Echi dal passato*

Angela Peduto

Artista sconosciuto, Afrodite Anadyomene, Pompei, foto di Stephen Haynes

La versione più nota del mito narra che Zeus, invaghitosi della bellissima Leda, si unì a lei dopo essersi mutato in cigno. Leda depose un uovo dal quale nacque Elena. Prodigiosa fu dunque la sua nascita, come fu la sua bellezza. Narra Isocrate che “Zeus […] solo di questa donna consentì di essere chiamato padre. […] Tanto preferì Elena ad Eracle, che a questo diede la forza capace di piegare gli avversari con la violenza, a quella assegnò la bellezza che per natura s’impone anche alla forza”. 

Il destino di Elena è da subito legato al rapimento e alla contesa. La sua bellezza è leggendaria; si narra che Teseo l’abbia rapita ancora bambina e che lei sia stata salvata grazie all’intervento dei suoi fratelli, Castore e Polluce.  Ma il rapimento più celebre è quello di Paride. Una contesa sorge fra tre dee: chi tra Era, Atena e Afrodite è la più bella? A giudicare è chiamato Paride – o Alessandro -, il principe troiano. Era gli offre in premio, se sarà prescelta, il regno dell’intera Asia; Atena la vittoria nelle guerre; Afrodite gli promette l’amore di Elena, colei che più di ogni altra è bella. Paride sceglie Afrodite. Forte della protezione divina si reca dunque a Sparta, dove Elena regna accanto allo sposo Menelao. Approfittando dell’assenza di Menelao la rapisce – o forse lei acconsente a seguirlo?  - e la porta con sé a Troia. Questo rapimento scatenerà la guerra più spaventosa dell’antichità, il cui esito, dopo dieci anni di assedio, sarà la distruzione completa di Troia e il massacro, da entrambe le parti, dei guerrieri più nobili e forti.

Archetipo della bellezza e dell’eros, ma anche portatrice di sciagure, incantatrice insidiosa, moglie infedele, vittima del fato e degli dèi, sposa di molti mariti – Tèseo, Menelao, Paride, Deìfobo, perfino Achille nell’Isola dei Beati -, illusione, ombra, fantasma … Elena è certamente la più enigmatica figura femminile che la narrazione antica – lirica, epica e tragica - ci abbia consegnato.

Le sue riapparizioni sono innumerevoli. Elena nasce e vive per sempre, immortale: cantata nei poemi omerici, si reincarna infinite volte, dall’antichità ellenistica e latina -  Eschilo, Euripide, Gorgia, Ovidio -, fino a tempi a noi più vicini: seduce Ronsard, Goethe, Marlowe, Hofmannsthal, interroga Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Camus, assilla i poeti greci contemporanei, Ritsos, Seféris, è compagna di Odisseo nel nuovo viaggio immaginato da Kazantzakis, canta nelle opere di Gluck e Strauss, è la belle Hélène di Offenbach, si materializza nelle visioni dei pittori. Non c’è forse figura del mito più misteriosa e ambigua: inafferrabile e sfuggente nella sua essenza, sempre presa in una vertiginosa altalena di ambivalenze, Elena ė fatta di luce e di tenebre, di erotismo e di morte, così vicina alla morte da scatenare la più grande catastrofe dell’antichità, così luminosa nella sua bellezza da apparire simile a una dea, così elusiva da diventare in alcune variazioni del mito – come in Stesicoro e in Euripide - soltanto un’ombra.

Già nei poemi omerici i suoi destini sono mutevoli. Nell’Iliade la incontriamo mentre tesse tra le ancelle. 

Iliade (trad. M. G. Ciani, III, vv. 121-128)        Ad Elena dalle bianche braccia giunse messaggera Iris; aveva l’aspetto di una cognata, […], Laòdice, la più bella tra le figlie di Priamo.  La dea trovò Elena nella sala centrale: lavorava a una grande tela, doppia e colore di porpora e vi intesseva le molte imprese dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei dalle corazze di bronzo, quanto per lei patirono nelle battaglie di Ares.

Elena tesse la storia, racconta non per parole ma per immagini. Tessitrice e narratrice, è la prima narratrice della propria storia, la prima a fissare le vicende che la vedono protagonista e causa. Consapevole del proprio destino, sa che il suo dolore e i dolori che ha provocato saranno trasfusi nel canto del poeta e con questo consegnati all’immortalità, grazie al pathos che dal canto deriva. 

L’Iliade ci consegna una creatura tragicamente mossa dal destino: la fuga verso Troia, “le passioni, gli ardori, le furie, le stragi, gli incendi, i naufragi che la sua rovinosa bellezza ha causato”, tutto è opera degli dèi. Elena si piega impotente al loro volere, strumento passivo delle trame divine; e tuttavia “attraversa l’Iliade con la maestà che le conferisce la perfezione della sua sventura, della sua bellezza. La sua sorte non dipende dall’esito della guerra: che a prevalere sia Paride o Menelao, per lei non cambierà nulla” (Sull’Iliade, R. Bespaloff, Adelphi).  Lei, così radiosamente bella, è stata scelta solo per portare a compimento la sciagura sua e dei due popoli. Lungi dall’essere una promessa di felicità, la bellezza incombe su di lei e intorno a lei come una maledizione. Il suo effetto è la distruzione. Troia è distrutta fino alle fondamenta, il piccolo Astianatte scagliato giù dalle mura, le donne troiane portate via come schiave, morti i più valorosi e nobili tra i guerrieri greci e troiani, morta la madre Leda a causa del disonore, la figlia Ermione cresciuta nell’abbandono, nella solitudine e nel disprezzo di tutti. Ma al tempo stesso la bellezza isola, innalza, preserva dagli oltraggi. In qualche modo ne fa una creatura sacra, nel senso originariamente ambiguo del termine, esaltante e malefico, vivificante e terribile. I capi troiani in consiglio presso le porte Scee tacciono, rapiti dalla sua bellezza, ma tale bellezza li spaventa come un cattivo presagio, una minaccia di morte.

Iliade (ivi, III, vv. 146-160) Priamo e tutti gli anziani, Pantoo e Timete e Lampo e Clitio e Icetaone, stirpe di Ares, Ucalegonte e Antenore, uomini saggi, tenevano consiglio presso le porte Scee: per l’età non potevano battersi, ma erano valenti oratori, simili alle cicale che nella selva, sugli alberi, stridono con voce sottile: tali erano i capi troiani che sedevano presso i bastioni; quando videro Elena, che veniva verso di loro avvolta in veli bianchissimi, sottovoce gli uni agli altri dicevano: “Non c’è da stupirsi che Troiani ed Achei dalle belle armature così a lungo patiscano per una donna simile; alle dee immortali terribilmente somiglia; tuttavia, anche se è così bella, se ne vada via sulle navi, non rimanga più qui per la rovina nostra e dei figli”.

Rachel Bespaloff Di colei che nel suo poema incarna il fato erotico Omero ha fatto la figura più severa, più austera. Sempre avvolta in lunghi veli bianchi, Elena [somiglia a una penitente]. Questa regale reclusa è la creatura meno libera, ancor meno libera della schiava che in cuor suo aspetta la fine dell’oppressione.  […] Quando Afrodite ordina, Elena, per quanto a malincuore, deve inchinarsi. […] La sua unica risorsa è quella di rivolgere contro di sé un’ira impotente a vendicarla degli dèi. Sembra quasi che viva nell’orrore di sé stessa. “Fossi morta prima” è il lamento che più spesso le sale alle labbra.

Iliade (ivi,VI, vv. 343-348) Come vorrei che il giorno in cui mia madre mi diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portato lontano, sulla cima di una montagna o fra le onde del mare sonoro e le onde mi avessero trascinato via prima che tutto questo accadesse. 

Elena, Euripide (trad. Barbara Castiglioni, vv. 255-264) Amiche mie, che destino mi è toccato? Forse è proprio vero che generandomi mia madre ha messo al mondo un prodigio? Perché nessuna donna, greca o barbara, potrebbe mai partorire i suoi piccoli da un uovo bianco, come raccontano sia avvenuto a Leda quando mi generò da Zeus. La mia vita è un prodigio, così come i fatti che mi riguardano: in parte a causa di Era, in parte a causa della mia bellezza. Ah, se potessi cancellare il mio splendido aspetto, come si fa con un dipinto, e assumerne uno più brutto! 

Elena vive tra Eros ed Eris, tra amore e discordia. E tuttavia, avrebbero potuto questi giovani eroi educati alla guerra vivere in pace? Avrebbero potuto rinunciare all’esaltazione delle armi, al trionfo sul rivale, alla bella morte in nome di una quieta vita accanto alla sposa? Non si sentono forse più vivi nella lotta? Lo dirà Freud molto più tardi: la morte rende la vita più interessante. Se l’effetto della bellezza è per i Greci risvegliare la rivalità e la lotta, lottare per la bellezza e per essa sfidare la morte vuol dire ravvivare il sentimento di essere in vita. 

La dimensione estetica della vita, peraltro in stretta connessione con la dimensione etica, è un tema costante della cultura greca. La si ritrova ovunque, nei poemi omerici, nei lirici, nei tragici, nell’arte. Se Troiani e Greci si battono per Elena, è perché occorre stabilire dove Elena starà, perché dove lei è, là è anche la bellezza, e dov’è la bellezza è la civiltà. Chi più di ogni altro lo ha compreso e mirabilmente espresso è stato Isocrate. La bellezza è il più grande dei doni, si può contemplare o amare, ma non si può possedere. Morire per Elena vuol dire morire forse per un miraggio, ma un miraggio che dà senso al mondo. Si può godere di tutto, del potere, dei beni materiali, ma non della bellezza. Della bellezza si diviene schiavi, dice Isocrate. La si guarda, perché essa è l’epifania del divino nel mondo, è l’autotrascendenza del mondo. Fa sì che il mondo, anziché essere quello che anche è, luogo di sofferenza, di dolore, di violenza, di morte, trascenda sé stesso e sia altro da sé. 

Rachel Bespaloff    Elena non apparterrà né a Paride, né a Menelao, né ai troiani né agli achei. Anche quando si concede, la bellezza non appartiene che a sé stessa. Essa si sottrae tanto a chi la crea quanto a chi la contempla o la desidera. […] In mezzo ai guerrieri, al di sopra di essi, Elena è la calma e l’amarezza che rinascono nel cuore delle battaglie e inondano d’ombra vittorie e sconfitte […] Poiché, se è vero che la forza si logora e si deteriora nella contingenza del divenire – è sufficiente la freccia di Paride per annientare in un colpo solo la potenza di Achille -, soltanto la bellezza esaurisce tutte le contingenze […] 

Ci sono corpi – apparenze sensibili - che paiono altro da ciò che sono, additano qualcosa di incomprensibile e inafferrabile, partecipano di un fascino che cattura e soggioga. Il fascino evoca tuttavia anche l’incantamento, la stregoneria, i filtri: se nell’Iliade Elena è creatura umana e personaggio tragico, nell’Odissea, destinata all’immortalità e alla beatitudine del Campo Elisio, è ormai al di sopra e al di là delle vicende umane. Gliene viene una specie di “miracolosa innocenza, uno strano candore, ignoto alle creature umane; ora non è più il centro dell’universo: non tesse la tela dove tutti vivono e muoiono per lei; non è più la creatura destinata” (Pietro Citati, Elena nella luce d’oro) ma, “seduta di nuovo sul trono di Sparta, avvolta nel peplo, con il suo cesto d’argento ai piedi, è calma e serena”. In verità ora appartiene al mondo della magia.

Odissea (trad. di M. G. Ciani, Marsilio, p. 53) Nel vino che essi bevevano gettò rapida un farmaco che placava furore e dolore, che faceva dimenticare ogni pena. Chi lo inghiottiva, disciolto nel vino, per un giorno intero non avrebbe versato una lacrima, neppure se gli fossero morti il padre e la madre, o se davanti ai suoi occhi gli avessero abbattuto con l’asta un figlio o un fratello. Questi farmaci aveva la figlia di Zeus, efficaci, potenti, che a lei donò la sposa di Tone, Polidamna l’Egizia. […] Nel vino gettò dunque il farmaco, ordinò che si versasse e cominciò a parlare: […] Non potrò certo narrare, una per una, tutte le imprese del tenace Odisseo: solo quello che fu capace di fare, il fortissimo eroe, in terra troiana, dove tante pene soffriste voi Danai. Inflisse al suo corpo indegne ferite, si gettò sulle spalle dei cenci, e così, somigliante a uno schiavo, penetrò nella città nemica, a Troia dalle ampie strade. Aveva celato sé stesso e un altro sembrava - un mendicante - e lui non era tale di certo presso le navi dei Danai. Così entrò nella città dei Troiani e non gli fece caso nessuno, io sola lo riconobbi, così ridotto, e gli parlai, ma con astuzia egli eludeva le mie domande. Ma dopo che lo ebbi lavato e unto di olio e rivestito di abiti, dopo che ebbi pronunciato giuramento solenne, che ai Troiani non avrei rivelato Odisseo prima che fosse tornato alle tende e alle navi veloci, allora mi svelò tutti i disegni dei Danai. E dopo aver ucciso molti dei Teucri con l’acuta lancia di bronzo, tornò fra gli Achei portando molte notizie. Le donne di Troia alzarono acuti lamenti, allora, io invece godevo nell’animo perché da tempo il mio cuore era volto a tornare indietro, di nuovo a casa, e rimpiangevo l’errore che Afrodite mi fece commettere, quando dalla mia amata patria mi condusse laggiù, e abbandonai mia figlia, la stanza nuziale e un marito che a nessuno era inferiore per bellezza e per animo. 

Elena ha narrato una storia misteriosa: Ulisse è penetrato nella città assediata travestito da mendicante per raccogliere notizie. Lei lo ha riconosciuto, lo ha lavato, unto, vestito, e ha giurato di non tradirlo. Lui le ha rivelato il piano del cavallo. Elena, dunque, ha protetto i Greci contro i Troiani. Ma, a dimostrare la sua natura ambigua, sopraggiunge un altro episodio, del tutto diverso. Lo narra questa volta Menelao.  Il cavallo di legno, pieno di guerrieri greci, è già sull’acropoli. Giunge Elena, gira tre volte intorno al cavallo e chiama per nome i guerrieri imitando le voci delle loro spose, cercando così di attirarli fuori dal cavallo e sventare l’inganno. Questa volta Elena protegge i Troiani contro i Greci.

        

Ivi, p. 54-55        Rivolgendosi a lei disse il biondo Menelao: “Tutto quello che hai detto, donna, è ben detto. Di molti guerrieri ho conosciuto la mente e i consigli, perché molta terra ho percorso. Ma non ho visto mai coi miei occhi qualcuno che avesse il cuore del tenace Odisseo. E quello che osò fare quell’uomo forte, nel liscio cavallo di legno, dove stavamo noi, i migliori dei Danai, per portare morte e rovina agli Achei. Tu venisti là: ti aveva spinto un demone, forse, che ai Teucri voleva concedere gloria. Con te c’era Deifobo, simile a un dio. Per tre volte facesti il giro della trappola cava, toccandola, e i Danai più forti chiamavi per nome, nella voce imitando la voce di tutte le loro spose. E io e il figlio di Tideo e il divino Odisseo, seduti in mezzo agli altri, udivamo i tuoi richiami. E io e Diomede volevamo levarci e uscire, oppure subito, da dentro, rispondere. Ma nello slancio ci frenava, ci tratteneva Odisseo. Gli altri tacevano tutti, i figli dei Danai, Anticlo solamente voleva parlarti; ma con le forti mani Odisseo gli tenne chiusa la bocca e così salvò tutti gli Achei: e chiusa gliela tenne, fino a che Atena non ti condusse lontano.  

Molti sono i volti di Elena, e ognuno fa apparire verità che altrimenti resterebbero nascoste. La sua origine sprofonda nella notte del mito, la sua vita non è mai terminata. Nell’Iliade si rivolge all’amato cognato Ettore dicendogli “A noi Zeus diede un triste destino, ma anche in futuro, tra gli uomini che verranno, saremo oggetto di canto”. E così affida sé stessa e il mondo che la circonda, le passioni, i destini, le sconfitte e i trionfi, gli eroismi e gli inganni, gli amori e i dolori, all’infinita e tumultuosa corrente del ricordo, trasformato in poesia. Sarà questa, allora, a farsene carico, la poesia, che non distingue tra lieto e luttuoso, tra bene e male, ma contempla ragione e sragione e in sé comprende tutto ciò che appartiene all’esistenza umana e al suo divenire. Il poeta canterà i miti, le gesta, gli amori, gli eroi, i trionfi dei vincitori e le lacrime dei vinti, affinché gli uomini e i poeti che verranno dopo possano, a loro volta e nel mutare delle forme, continuare a cantare dando voce all’umano. Fino all’ultima goccia del tempo. 

Abbiamo immaginato questa giornata come un viaggio, mosso dal desiderio di portarvi dentro quel vertiginoso fascio di riflessi in cui si rifrange l’identità di Elena. Bellezza, guerra, distruzione, amore: Elena vive tra queste opposizioni, vive di queste opposizioni. Fonte di un sapere che non cessa di erodere le nostre certezze, Elena, con i suoi tanti volti e le sue irrisolte ambivalenze che costringono generazioni di poeti e di commentatori a interrogarsi, non sarebbe forse rivelatrice della minaccia di spossessamento, della follia che incombe sui destini umani, del caos che sta sotto la superficie del mondo? Insieme a tutte le creature femminili che abitano i miti sprigionando fascino e terrore, Elena ci ricorda che la trama del destino umano è un intreccio permanente di vita e di morte e che, nel sorriso luminoso di Eros, si annida silenziosa l’ombra di Thanatos. 

*Il testo è stato presentato come introduzione alla giornata dedicata a Elena nella cornice di (Ri)accendiamo il classico 2023

BIBLIOGRAFIA:

Pietro Citati, Elena nella luce d’oro, La Repubblica 23 maggio 1991.

Rachel Bespaloff, Sull’Iliade, Adelphi, 2018.

Iliade e Odissea sono citate nella traduzione di Maria Grazia Ciani; Elena di Euripide, nella traduzione di Barbara Castiglione.

Elena nella luce d'oro

Pietro Citati

Giuditta I: antica ninfa, donna moderna - A Spasso con Apollo e Dioniso
Giuditta I, G. Klimt, 1901

La Repubblica, 23 maggio 1991

Nell'Iliade, Elena stava nel cuore del mondo. Sulla grande tela purpurea, che tesseva insieme alle sue ancelle, non ricamava la terra, il cielo e il mare, il sole e la luna, insieme con i segni del cielo: o le glorie degli dei e degli eroi del passato. Sulla tela purpurea, Elena ricamava le lotte e i dolori che i greci e i troiani soffrivano per causa sua - ciò che ancora oggi noi stiamo leggendo, l'Iliade. Se stava nel centro della tela, non avveniva senza ragione. Gli dei l'avevano prescelta. Afrodite le aveva dato una bellezza che travolgeva le menti degli uomini: le imponeva ogni istante la sua volontà; e come tutte le creature destinate, Elena doveva obbedire ai cenni degli dei e seguire le strade che le indicavano. Soltanto gli ingenui credono che una vita destinata sia un favore divino. Quando Elena considerava la sua esistenza, non le rimaneva nella memoria che un lungo seguito di sciagure, di abbandoni e di morti. Così, fin dai primi libri dell'Iliade, malediva la propria sorte: proprio lei, alla quale il cielo aveva dato tutte le grazie possibili, odiava sé stessa, e desiderava morire. Sotterranea come le verità profonde, una domanda si affacciava alla mente di Omero e dei suoi personaggi. Elena era innocente o colpevole? Come tutti coloro che credono negli dei e nel destino, Omero rispose in due modi opposti a questa domanda. In primo luogo, assolse la creatura fatale. Quando Elena comparve alle Porte Scee, Priamo le disse: Vieni qui davanti, cara figlia, siediti vicino a me... Tu non hai colpa verso di me: la colpa l'hanno gli dei, essi mi hanno scatenato contro la guerra degli Achei, ricca di lacrime. Ma Elena era una creatura troppo nobile, per accettare queste parole. Come ogni creatura destinata, sapeva di portare la colpa di ciò che le era stato imposto, e che forse nel suo cuore desiderava. Non invocava scuse. Non chiedeva giustificazioni per ciò che aveva commesso. Parlava di sé come di una cagna, odiosa e raccapricciante, macchinatrice di mali. Intanto, a Troia, tutti avevano orrore di lei: la suocera e i cognati la disprezzavano: i greci le lanciavano contro parole infami; e fra poco un solo coro di maledizioni e di imprecazioni sarebbe salito da ogni angolo della terra contro la creatura che occupava il cuore della tela di porpora. Nell'Odissea, il palazzo di Elena a Sparta era molto più ricco e sontuoso di quello di Troia: lampeggiava di bronzo, d'oro, d'elettro e d'avorio; splendeva come il sole e la luna. Seduta nel mégaron tra le ancelle, sembrava una ricchissima sovrana orientale. Se si guardava nel passato poteva scorgere nella sua vita delle azioni ambigue e ingannevoli, che la nobile eroina dell'Iliade non avrebbe mai compiuto. Aveva cercato di tradire Paride; e gli eroi greci chiusi nel cavallo di Troia, chiamandoli colla voce delle mogli lontane. Ma, tornando a casa, aveva trovato una perfetta pacificazione: non aveva rimorsi né sensi di colpa; e non malediva sé stessa, né si ribellava contro la volontà degli dei. Seduta sul trono, avvolta dai pepli, con ai piedi il suo cesto d'argento, era calma, tranquilla e serena. Nulla poteva inquietarla. Quando parlava del passato, sembrava che tutte quelle sciagure fossero episodi romanzeschi, o pittoresche avventure, con cui distrarre l'animo preoccupato degli ospiti. Qualsiasi cosa facesse, la sovrana dell'Odissea conservava una specie di miracolosa innocenza: uno strano candore, ignoto agli esseri umani, divisi tra il bene e il male, l'innocenza e la colpa. Così le parole di Menelao non rivelano nemmeno un'ombra di rancore verso chi aveva cercato di perderlo. Forse le aveva perdonato. Forse non l'aveva mai accusata di nessuna colpa, come se le sue azioni stessero al di sopra e al di fuori di ogni giudizio umano, inspiegabili come quelle degli dei. Se nell'Iliade era stata una grande eroina, nell'Odissea Elena era divenuta una delle ambigue e insidiose dee-streghe che abitavano le rive del Mediterraneo. Come Calipso, conferì l'immortalità a Menelao: come Circe, conosceva la scienza dei farmaci; e se Proteo trasformava il proprio corpo, essa sapeva trasformare la propria voce. La sua terribile voce di Sirena raccoglieva in sé la voce, il ricordo, il fascino erotico di tutte le donne; e gli eroi perdevano il senno, smarrivano ogni prudenza, precipitandosi desiderosi verso la morte. 

Nell'Agamennone di Eschilo, l'indimenticabile e sinistro fantasma di Elena dominava la reggia abbandonata di Sparta. Durante le ore del giorno, occupava la mente di Menelao, che sedeva in un angolo, guardando le belle statue di lei, che gli mostravano soltanto occhi vuoti ed odiosi: durante la notte, riempiva i suoi sogni, portandogli delle gioie dolorosissime. Nessuno sapeva resistere ai molli dardi lanciati dai suoi occhi, al fiore di desiderio della sua persona, al quieto splendore delle sue ricchezze. Ma questo fiore di desiderio era una miserabile peccatrice, che aveva dimenticato la nobiltà tragica dell'Iliade e la divina innocenza dell'Odissea. Un corteo di demoni aveva guidato i suoi passi dalle rive del Peloponneso a quelle del Simoenta: Elena non era una donna, ma un'Erinni, una divinità rovinosa e malvagia della notte. 

Nel teatro di Euripide, Elena appare in ogni luogo e in ogni forma, come se occupasse tutto l'orizzonte del mito e della letteratura. Da un lato, Euripide riprese l'immagine della peccatrice, nascosta tra i versi dell'Agamennone. Sebbene Elena fosse ancora la donna più bella che il sole dalla luce d'oro avesse mai illuminato, lo splendore della sua bellezza era crudele e impassibile. Nessun’altra cura poteva toccarla: nessun’altra preoccupazione sfiorarla: passava le ore davanti allo specchio, cercando di preservare il viso dalle insidie del tempo. Quando apprese che la sorella Clitennestra aveva ucciso Agamennone ed era stata uccisa da Oreste, non volle rasarsi la testa in segno di lutto: tagliò soltanto qualche ricciolo dei meravigliosi capelli, per conservare immutata la propria bellezza. Se si guardava intorno, imprigionava gli sguardi degli uomini, suscitando la furia del desiderio. Nessun guerriero, forse nemmeno un dio, poteva difendersi dall'incanto terrificante di quegli occhi, nati per perdere gli uomini, le navi e le città. Così chi era abituato a prendere veniva preso; chi era abituato a possedere veniva posseduto; chi faceva prede, diventava preda di una passione forsennata. Come Eschilo aveva suggerito, Elena non era la figlia di Tindaro né quella di Zeus: né una creatura terrena né una creatura semidivina. Aveva molti padri: l'Invidia, la Morte, l'Assassinio, Alastor, il genio della vendetta; generando Elena questi demoni, avevano generato uno spirito della Discordia, un'Erinni, una Kere, un genio contaminatore. Tutti i demoni, che Euripide ricordava, appartenevano al regno della nera Notte, che Esiodo ed Eschilo avevano rappresentato. Così la splendida luce solare, che aveva illuminato Elena nell'Iliade e nell'Odissea, abbandonava il suo capo; e la figlia di Zeus si smarriva tra i mostri, gli incubi e gli orrori che abitano le profondità delle tenebre. Aveva perduto ogni grandezza. Quando i suoi nemici la accusarono, tentò di giustificarsi. La colpa di tutto quello che era accaduto, sosteneva Elena, non era sua, ma di Ecuba: e del vecchio servo, e di Afrodite, e di Menelao... Quanto a lei, avrebbe meritato una corona, perché aveva salvato la Grecia dai barbari. Le nobili figure divine ed eroiche di Elena si erano dileguate; e ne aveva preso il posto una meschina e avida figlia della Notte, che aveva appreso le astuzie dei più mediocri sofisti. 

Quando compose Elena, Euripide rappresentò il lato luminoso della creatura mitica, di cui fino allora aveva rievocato il lato tenebroso. La nuova Elena, che apparve nella primavera del 412 sulle scene ateniesi, amava e venerava profondamente gli dei; e tendeva verso di loro, pregando, le incantevoli mani. Il suo animo mite odiava l'Invidia, la Discordia, la Violenza, l'Ingiustizia e si augurava che l'amore e la dolcezza regnassero sopra il mondo. I suoi sguardi avevano perduto l'avida forza predatrice: gli inganni amorosi le ripugnavano; le passioni sfrenate non abitavano più dentro di lei. Il nuovo cuore di Elena conosceva soltanto i sentimenti placati dal soffio soave della moderazione: il tenero affetto coniugale, che l'accompagnava dal giorno in cui aveva lasciato, accanto a Menelao, il focolare dell'adolescenza. Non era mai stata a Troia. Mentre raccoglieva delle rose, Ermes la rapì, la avvolse in una nube e la trasportò in Egitto. Ora viveva sulle rive turchine del Nilo, prigioniera del re egiziano. La donna, per la quale tanti greci e troiani avevano perduto la vita, era soltanto un fantasma di nuvole e d' aria: un'immagine viva, che somigliava ad Elena come la sua figura riflessa in uno specchio o nell' acqua di un lago. Anche Elena era una vittima innocente, sacrificata dal destino del mondo. Quanti dolori l'avevano offesa! Sola, abbandonata sulle rive del Nilo, minacciata dalla violenza di un re barbaro, rimpiangeva l'Eurota, i templi di Sparta, lo sposo perduto, la giovinezza lontana, i giorni del suo imeneo, quando i fratelli, i Dioscuri, avevano proclamato alla luce delle torce la sua felicità. Se l'angoscia l'assaliva con un morso troppo acuto, scoppiava in singhiozzi, in gridi compassionevoli, in sospirosi lamenti: tristi elegie senza lira, che forse le Sirene alate, chiuse nel regno di Persefone, accompagnavano con la lugubre eco del loro flauto. Un giorno Menelao arrivò alla reggia egiziana; e l'altra Elena, l'immagine di nuvole e d'aria, scomparve nel cielo. Fantasmi con un solo volto. Con quale tenero ardore amoroso, Elena strinse il marito tra le braccia: piangeva di gioia e di felicità, lo abbracciava, lo accarezzava, lo lavava con le onde del Nilo, gorgheggiava come una cantante inebriata su un teatro senza scenari e senza tempo... Infine salì su una nave fenicia, insieme al marito. I marinai alzarono l'albero, spiegarono le vele, tuffarono i remi nell' acqua. Rivali delle nubi, le gru presero il volo verso Sparta. I delfini cominciarono le loro danze. Cavalcando i cavalli alati, i Dioscuri sfiorarono le onde spumose, accanto alla nave che riportava in patria tra i cigni, le rose e i giunchi la donna più bella che il sole dalla luce d'oro abbia mai illuminato. Non so se tutti gli ateniesi che assistettero alla rappresentazione dell'Elena di Euripide portassero nella mente questa meravigliosa ricchezza di figure. Ma certo molti di loro, mentre ascoltavano le parole dei personaggi, le confrontavano con quelle che aveva pronunciato il grande personaggio eroico dell'Iliade, la dea-strega dell'Odissea, le figure tenebrose dell'Agamennone, delle Troiane e dell'Oreste, e con le altre tradizioni mitologiche legate alla figlia di Zeus. Questa era, in quei tempi, la bellezza della letteratura: ogni figura affondava nel mito, e possedeva una molteplicità di aspetti, una ricchezza di volti e di colori, che occupava la vastità dell'immaginazione. 

[…]

In alcune civiltà, la letteratura si esprime attraverso dei generi formali. Ogni volta che uno scrittore compone un poema epico, o didascalico, o un'elegia d'amore, non esprime la totalità del mondo, ma una parte del mondo, che pretende di essere totale. Dà una forma al reale: crea una stilizzazione, che possiede leggi conoscitive, una filosofia, una psicologia, una lingua assoluta ed esclusiva; e noi dobbiamo accettarle, se non vogliamo essere esclusi dalla comprensione del testo. Secondo un’opinione diffusa, la letteratura moderna non possiede generi letterari distinti. Quell'immenso crogiuolo, che è stato il romanzo, li ha fusi in sé stesso: dal poema epico al racconto alla lirica al poema in prosa al poema didascalico al libro di filosofia al saggio psicologico e critico, tutti i generi classici si sciolgono e si annullano nei grandi romanzi del secolo scorso e del nostro secolo. Lo scrittore è solo davanti all'orizzonte illimitato della lingua: non conosce più il limite e la convenzione dello stile, che nei secoli hanno costretto e provocato la fantasia. Più di un artista moderno crede che questa scomparsa dei generi abbia significato una grave sconfitta dell'immaginazione. Mi chiedo se i generi letterari siano davvero morti. Il Faust, che apre e chiude la coscienza letteraria moderna, non dissolve i generi e gli stili, ma li moltiplica all'infinito, con una consapevolezza intellettuale che forse nessun poeta classico ha mai avuto, salvo a raccoglierli in un'unità che comprende tutte le divisioni. Quanto alla letteratura italiana moderna, alcuni dei suoi scrittori più significativi creano dei generi senza nome. Ogni libro di Calvino è un progetto letterario, che obbedisce a leggi e convenzioni stilistiche diverse. Bertolucci cambia stile passando dal poemetto alla lirica al romanzo in versi (che a sua volta contiene in sé stesso molti stili): Caproni scrive nello stile di Della Casa e Parini, della canzone stilnovistica e della canzonetta metafisica. […]

Un grande testo letterario è qualcosa di unico: solitario, immobile, perennemente eguale a sé stesso, sottratto a qualsiasi metamorfosi; e le infinite relazioni che lo attraversano descrivono la figura di una sfera. Ma chi conosce il libro? Non lo conosce certo il suo autore, che presentisce vagamente le proprie intenzioni, che sono a loro volta appena una vaghissima ombra della sua realtà. Non lo conoscono i suoi lettori, che vengono storditi per secoli dalla inaudita novità di ogni capolavoro. Soltanto il libro conosce sé stesso. Per capirlo, ci vogliono centinaia di secoli, milioni di lettori. Tutti gli studiosi che hanno capito e frainteso Omero, tutti i filologi che hanno studiato un'etimologia o una formula, tutti i ragazzi che lo imparano a memoria, tutti i lettori che in qualsiasi lingua adorano Achille e Elena, formano gli anelli della lunghissima catena aurea, che cerca di comprendere il libro immobile che sta all'inizio della storia. La comprensione totale del libro avverrà solo alla fine dei tempi. Un momento prima che il mondo scompaia (o per diluvio o per gelo o per fuoco o per deflagrazione o per l'immensa idiozia umana), in quel preciso istante potremo esser certi di avere completamente compreso l'Iliade e l'Odissea. Ma, purtroppo, non resterà più nessuno a rivelarci questa interpretazione definitiva.

Elena o della bellezza rovinosa

Giovanni Boldini, Busto di giovane sdraiata, 1912

Il testo ripercorre per sommi capi le tappe del vivace dibattito (18 novembre 2023) che si è tenuto nell’ambito di “Riaccendiamo il classico” (5° edizione). Ringrazio OfficinaMentis e la cara Angela Peduto per l’idea e l’invito. L’amico professor Raffaele Riccio rappresentava l’accusa. 

Elena, personaggio misterioso e affascinante per la sua ambiguità. Innocente o colpevole? Cercherò di dimostrare la sua innocenza. Non è un compito facile, anche per la grande messe di fonti letterarie ostili. Mi limiterò ad alcuni punti essenziali e prezioso in tal senso è lo studio di M.Bettini e C.Brillante, Il mito di Elena, Einaudi 2002. 

La nascita straordinaria

Culla di Elena è Sparta, la futura città-caserma di guerrieri. Secondo il mito la mortale Leda, sedotta da Zeus in forma di cigno, ebbe un duplice parto gemellare: due maschi, i famosi Dioscuri, e due femmine, cioè Clitemnestra ed Elena. Le modalità della nascita sono spesso determinanti nel prefigurare attitudini future dei personaggi e per definire la loro identità. Leda partorì un uovo, forma simbolica che rimanda all’origine della vita. Infatti lo stesso Eros, secondo alcune teorie, era rappresentato come un uovo primordiale, in quanto divinità delle origini del cosmo. Nella sua geometria perfetta, l’uovo è in apparenza immobile ma al suo interno ospita già un essere in formazione, dotato di forza vitale. 

Secondo un altro mito, raccontato da Igino l’Astronomo (autore latino del I secolo d.C.), un uovo gigantesco cadde dal cielo e finì nel fiume Eufrate. Alcune colombe vi si posarono, covandolo finché non si dischiuse e da esso nacque la dea Venere, chiamata anche Dea Syria o Atargatis, divinità femminile della fecondità. Dunque l’uovo diventa l’emblema dell’amore e fonte primaria della vita. Questo è l’elemento straordinario che presiede alla nascita di Elena.

La donna fonte di ogni male 

C’è chi accosta Elena al paradigma della femmina fonte di ogni malanno, e ricordano Pandora, la prima donna, che trasgredì il divieto di aprire il vaso e per colpa sua ne uscirono tutti i mali che infestano oggi il mondo. Si dimentica però che il nome di Pandora significa “tutti i doni”: venne infatti creata perché necessaria, e gli dèi fecero a gara per ornarla di ogni dono. Quanto alla curiosità che la portò ad aprire il vaso, suvvia, chi non l’avrebbe fatto? E fra l’altro, quante volte la trasgressione di un divieto ha portato a grandi scoperte o a un disorientamento iniziale, che però è direzionato al bene? Come dicono gli studiosi, i miti sono creati ex post, spesso in funzione eziologica, cioè per cercare le cause. Se la domanda è: perché esistono i mali nel mondo? Quale risposta ti aspetti da una società patriarcale e misogina? Colpevole è la donna! Come per i cristiani Eva è l’origine della cacciata dall’Eden. 

I greci rapitori di una troiana: il caso di Esione

Tutti sanno che Elena, rapita più o meno consenziente dal bel troiano Paride, è la causa della guerra di Troia. Questa è la versione dei greci. Spesso si dimentica un’altra vicenda mitica, che precede di il famoso conflitto. A Troia regnava Laomedonte, che tra i suoi figli aveva Priamo e la bella Esione. Questo re astutamente riesce a convincere Apollo e Poseidone a costruire le mura della città, che pertanto sarà invincibile. L’opera viene eseguita con rapidità divina, ma Laomedonte si rifiuta di pagare il compenso pattuito e il dio Poseidone, irato, invia un mostro marino che terrorizza la costa e divora gli abitanti. 

L’unica soluzione per liberarsi di questa sciagura è offrire in pasto al mostro la figlia del re. Si tratta di un topos letterario molto diffuso: nonostante il grande dolore, la famiglia si arrende al fato e sacrifica la vergine. Dunque Esione deve morire. In quei giorni il forte Eracle si trova nei paraggi e avanza al re una proposta: io ti libero dal mostro e tu in cambio mi donerai i tuoi cavalli magici. Laomedonte accetta, l’eroe uccide il mostro e reclama la sua ricompensa, ma ancora una volta il re non rispetta la promessa. Segue la vendetta di Eracle, che distrugge la città, uccide il re e si tiene la bella Esione come preda di guerra, per assegnarla al suo amico Telamone, re di Salamina. Con un atto di misericordia risparmia la vita a Priamo, ancora un ragazzo, e gli affida il governo della città. Negli anni successivi numerose ambascerie partiranno da Troia per chiedere ai greci la restituzione della sorella di Priamo rapita, ma invano. La vicenda di questo rapimento, in cui i protagonisti cattivi sono i greci, viene però dimenticata e nei secoli si attesta la versione greca: fu il troiano Paride a rapire la greca Elena.

Chi ha colpa della guerra? Paride

Ettore nel VI canto dell’Iliade così si rivolge al fratello con dure parole: “Paride funesto, di bell’aspetto, pazzo per le donne, ingannatore, non fossi tu mai nato o fossi morto senza nozze!”. Infatti nel poema sembra poco propenso a impegnarsi in battaglia, è abile nell’uso dell’arco, lontano dalla mischia. Paride non solo ha rapito la donna di Menelao che lo ha ospitato, ma l’ha persuasa a seguirlo con bei discorsi e promesse. Questa è un’aggravante: in età classica ad esempio la seduzione viene percepita come un grave reato contro la proprietà, perché crea disordine. Ad Atene Paride sarebbe stato punito con la morte. Infatti una legge del V secolo – ricorda Brillante – attribuiva la responsabilità più grave, in caso di adulterio, ai seduttori: “chi opera con la persuasione corrompe fino a tal punto l’anima della donna da renderla più legata a sé che ai mariti: tutta la casa finisce sotto il loro dominio”. 

Il vero colpevole dunque è Paride, del rapimento e quindi anche della guerra e della conseguente distruzione della sua città. Lo sapeva bene anche sua madre, come attesta il mitografo Apollodoro, che racconta un’antica storia legata alla regina Ecuba.

    

A Priamo Ecuba partorì un primo figlio, di nome Ettore. Ma quando stava per avere un secondo bambino, ebbe un sogno. Le parve di partorire una fiaccola accesa, e questa fiaccola appiccava il fuoco a tutta la città e la bruciava. Spaventata, Ecuba raccontò il sogno a Priamo, e questi lo diede da interpretare a un suo figlio che aveva imparato l’arte di interpretare i sogni. Egli disse che il bambino che stava per nascere sarebbe diventato la rovina della città e ordinò di esporlo. Quando il bambino nacque, il re lo affidò a un suo servo che lo abbandonò nel bosco. Ma per cinque giorni un’orsa venne ad allattare il bimbo. Quando il servo tornò e lo trovò sano e salvo, decise di tenerlo con sé e lo allevò come suo, dandogli il nome di Paride. Il ragazzo crebbe e si distingueva fra tutti per la sua bellezza e la sua forza, tanto che venne chiamato Alessandro dal verbo alexo, cioè difendo, perché un giorno riuscì a salvare il bestiame e mise in fuga i ladri. Poco tempo dopo scoprì i suoi veri genitori. 

[Apollodoro, Biblioteca, trad. M.Cavalli, Mondadori, 1998]

Si potrebbe ribattere con la feroce requisitoria che proprio Ecuba scaglia contro Elena nella tragedia euripidea Troiane, un discorso che gronda dolore e ironia. In un tribunale però gli avvocati della difesa riuscirebbero a smontare l’intera impalcatura: si tratta di una povera donna anziana, che ha perso tutto. La città è in fiamme, la sua famiglia distrutta, perfino il nipotino gettato giù dalle mura: il passato e il futuro non esistono più, annullati da un presente di rovina completa. È disperata, e la sua disperazione deve trovare sfogo. Niente di più semplice che addossare tutte le colpe proprio su Elena, la bella straniera, un capro espiatorio perfetto! Eppure, se proprio si vuole trovare un colpevole nella catena di cause e concause, come rinfaccerà Elena stessa senza mezzi termini alla regina nella stessa tragedia, bisognerebbe ricordare un dettaglio che volutamente è stato omesso dal suo discorso di accusa: fu proprio Ecuba a partorire quella torcia che ha incendiato Troia, cioè il bel Paride! Certo Elena da sola non si sarebbe mai sognata di venire a Troia…

Elena vittima della dea Afrodite

Il racconto mitico non ha forma geometrica, ma è un organismo vivente che continua a espandersi in mille rivoli. È difficile pertanto applicare la squadra della razionalità e del buonsenso. Ad esempio: se è vero che Elena porta solo disgrazie, poteva diventare una strategia da usare contro il nemico, una sorta di “calamita” di sciagure. Perché, visto il protrarsi della guerra, dopo un paio d’anni i Troiani non hanno restituito Elena a Menelao? Sorge un sospetto: forse di lei non si può fare a meno? 

Ecuba sostiene che quella di Elena fu una fuga volontaria, perché la spartana fu abbagliata dalla bellezza e dalle ricchezze di Paride. Elena invece aveva ribadito di essere vittima di Afrodite. Ne abbiamo prova anche nell’Iliade, canto III. La dea ha appena salvato Paride sottraendolo al duello con Menelao, e ordina a Elena di aspettare l’amato nel talamo, ma lei si rifiuta, temendo il biasimo delle troiane, e protesta con coraggio: “Vai tu, siedi tu vicino a lui, non tornare sull’Olimpo. Proteggilo da vicino finché ti faccia sua sposa, o meglio schiava!” Ma ecco la risposta di Afrodite: “Vile, non provocarmi, che io non mi offenda e ti lasci! Tanto ti posso odiare quanto finora t’amai. Odio funesto manderò fra i due popoli, fra Teucri e Danai, e tu avrai mala fine”. E sotto questa minaccia, cosa poteva fare Elena? Come puoi ribellarti alla potenza di un dio? 

Lo dice anche l’antica poetessa Saffo (fr. 16 Voigt).

Quale la cosa più bella

sopra la terra bruna? Uno dice “una torma

di cavalieri”, uno “di fanti”, uno “di navi”.

Io, “ciò che si ama”.

Farlo capire a tutti è così semplice!

Ecco: la donna più bella del mondo, 

Elena, abbandonò

il marito (era un prode) e fuggì

Verso Troia, per mare.

E non ebbe un pensiero per sua figlia,

per i cari parenti: la travolse

Cipride nella bruma. 

quello che ciascuno ama.  

[I lirici greci. Età arcaica, trad. Filippo Maria Pontani, Torino, Einaudi 19692]

Elena quindi è una pedina nelle mani della dea. Vittima di Afrodite e di Paride, che agisce per conto della potentissima dea. Vittima soprattutto della propria bellezza. In un passo dell’Elena di Euripide, giunge a desiderare per sé il destino di una statua da cui svaniscono i colori che la rendono attraente agli occhi di chi guarda: “Oh potessi cancellare il mio splendido aspetto, come si toglie il colore da una statua, e assumerne uno brutto”. E ancora: “Per le altre donne la bellezza è una fortuna, per me è stata la rovina”. [Euripide, Elena, vv.262-263 e 304-305 trad. Massimo Fusillo, Rizzoli, Milano, 1997]

In quella società patriarcale Elena in fondo è un oggetto per i maschi, quando i valori che contano sono la guerra, la violenza, la conquista. Certo, un oggetto inestimabile, una ricchezza speciale, ma in fondo un trofeo da esibire. 

In questo senso risultano indicative le parole amare di Elena nella tragedia di Euripide, quando cerca di difendersi di fronte a Menelao, che l’ha ritrovata e vorrebbe addirittura ucciderla.

O Menelao, tu mi consideri nemica.

Ma giacché penso di sapere quali sarebbero le tue accuse

se tu mi parlassi, a esse replicherò con ordine, 

e ne formulerò anch’io nei tuoi confronti.

La prima fonte di tutte le disgrazie è costei, Ecuba, 

che ha generato Paride. Il secondo a rovinare 

Troia e me insieme fu il vecchio che non uccise il neonato,

il tristo idolo di fuoco, Alessandro, quel giorno lontano.

Ascolta quali ne furono le conseguenze.

Costui dovette giudicare la più bella fra tre dee:

Pallade Atena offrì come dono ad Alessandro 

di guidare i Troiani alla conquista della Grecia; 

Era gli promise il sommo potere sull’Asia 

e sulle terre d’Europa, se l’avesse scelta.

E Cipride, rimasta sbalordita dalla mia bellezza, 

pose me come premio, se avesse vinto nella gara 

le altre dee. E rifletti su quel che avvenne poi: 

Afrodite ottenne la palma e le mie nozze 

salvarono la Grecia: non fu dominata dai barbari, 

non fu travolta dalla guerra o dalla tirannide.

Ciò che fu fortuna per la Grecia, fu rovina per me:

venduta per il mio bell’aspetto... E ricevo biasimo

anziché la corona che dovrei portare sul capo.

Dell’accusa principale – dirai tu – ancora non ho parlato:

che sono fuggita dalla tua casa di nascosto. 

Ma il maledetto figlio di costei, Ecuba, voglia tu chiamarlo

Alessandro o Paride, non è giunto da solo: 

a fargli compagnia c’era una dea, e non poco potente:

e tu, sciagurato, lo lasciavi nel tuo palazzo 

e da Sparta ti imbarcavi alla volta di Creta.

Ahimé! […]

Prova tu a frenare la dea e a essere superiore a Zeus, 

che ha potere su tutti gli dei, 

ma di lei è schiavo; dunque io merito il perdono.

[Euripide, Troiane, vv.914-950 – trad. Laura Pepe, Mondadori, Milano, 1994]

Un filosofo per Elena

Elena è schietta, dice le cose come stanno, è autentica. 

Se i poeti aiutano a dimostrare che giudicare Elena colpevole è un’assurdità, anche i filosofi si sono occupati della questione. Gorgia, un raffinato filosofo della sofistica, ricapitola con la sua logica stringente le motivazioni che ci spingono ad assolvere Elena da ogni accusa.

La partenza di Elena per Troia è dovuta a cause esterne: avvenne o per la divina forza degli eventi o per ordine degli dèi, o ancora per volontà del fato. E allora non è meritevole di essere accusata, perché un dio è più forte di un uomo per energia, sapienza e ogni altra virtù. 

Se invece Elena fu rapita con la violenza, ciò avvenne contro la legge e la giustizia; in tal caso la colpa è ovviamente del rapitore: a lui andrà il nostro biasimo e a lei la nostra compassione.

Ma c’è un’altra possibilità. Forse Elena partì convinta dai discorsi: fu cioè irretita dalla parola e la sua mente fu ingannata. Nemmeno in questo caso è difficile scagionarla. La parola infatti ha una grande potenza. È un corpuscolo piccolo e invisibile che si insinua in noi e ci spinge all’azione. La parola ha la virtù di stroncare la paura, di rimuovere la sofferenza, di infondere la gioia, di intensificare la commozione. L’anima viene tutta presa nell’irresistibile magia del discorso, ne viene compenetrata e trasformata. Pertanto nulla ci vieta di pensare che attraverso le parole di Paride sia giunta a Elena una tale forza magica e ingannatrice che l’ha travolta, e ciò equivale a un rapimento con violenza.  Se quindi fu persuasa dalle parole, non commise colpa, ma si trovò in una condizione di inferiorità. 

Resta un’ultima possibilità: fu Amore il regista di tutta la vicenda, ma anche in questo caso lei sfuggirà all’accusa della colpa. Se, alla vista di Alessandro, Elena provò desiderio e fu presa dall’amore, che motivo c’è di stupire? Se Amore è un dio, come potrebbe un essere inferiore respingere e stornare quella divina potenza? E se invece amore è una malattia dovuta alla natura umana o a un errore della mente, non è certo una colpa. Elena ha ceduto non perché lo volesse, ma perché Amore è inesorabile e lei ne fu vittima. 

Ecco, con questo mio discorso ho voluto liberare Elena dall’infamia e ho cercato di distruggere l’ingiusto biasimo verso di lei, provando l’infondatezza di tante opinioni sul suo conto. 

[Gorgia, Encomio di Elena, trad. Fortunato Pasqualino – con adattamenti –, edizioni Paoline, Roma, 1966]

Elena non fu mai a Troia

Intorno a Elena si catalizza molta malevolenza, che spesso poggia su motivazioni palesemente assurde. E allora sorge un sospetto: se Elena non fosse mai stata a Troia? Se fosse tutto un inganno della mente, un trastullo nelle mani degli dèi? Forse Priamo non ha potuto restituire Elena, evitando così la rovina della città, perché era impossibile: cioè lì Elena non c’era! 

Alcuni scrittori affermano infatti che Paride portò con sé a Troia un eidolon, un simulacro, un’ombra vuota, che riproduceva soltanto il bellissimo aspetto di Elena. La vera Elena, fatta di corpo e anima, fu rapita dal dio Ermes mentre in un prato raccoglieva delle rose e trasportata in Egitto, dove è restata per i dieci anni dell’assedio di Troia. Ed è proprio in Egitto che sbarca Menelao al rientro in patria, sospinto dalla tempesta. Sulla nave ha caricato a Troia quella che ritiene sua moglie, e invece è solo il suo eidolon. Sulla spiaggia egizia gli si fa incontro la vera Elena, ed Euripide riporta il confronto tra i due: la confusione di Menelao e la sicurezza della verità portata da Elena. 

MENELAO: Chi sei, donna? Cosa vedono i miei occhi?

ELENA: E tu chi sei? Anch’io te lo chiedo.

MENELAO (a parte): Non ho mai visto una persona più simile a lei.

ELENA (a parte). Oh dèi! Perché è un dio infatti che fa riconoscere chi si ama.

MENELAO: Sei Greca o sei di qui?

ELENA: Sono Greca. E tu invece?

MENELAO: Sei identica a Elena.

ELENA: E tu a Menelao. Sono senza parole.

MENELAO: Mi hai riconosciuto: sono l’uomo più sfortunato della terra.

ELENA: Alla fine sei tornato tra le braccia della tua sposa.

MENELAO: Quale sposa? Non mi toccare!

ELENA: Di quella che ti ha dato Tindaro, mio padre.

MENELAO: O Ecate che porti luce: mandami fantasmi benigni.

ELENA: Non sono un fantasma, un’ancella di quella dea delle strade.

MENELAO: E io non sono il marito di due mogli: sono un’unica persona, io!

ELENA: Quale sarebbe questa seconda moglie?

MENELAO: Quella che ho nascosto in una grotta e che mi sto portando da Troia.

ELENA: Non esiste un’altra tua moglie: sono io la sola.

MENELAO: Come mai ragiono bene e nello stesso tempo ho le allucinazioni?

ELENA: Dunque non credi di avere innanzi ai tuoi occhi tua moglie? 

MENELAO: Il corpo è proprio quello, ma mi mancano prove certe.

ELENA: Guardami: cosa ti manca? Chi può giudicare meglio di te?

MENELAO: Certo, le assomigli: non lo nego

ELENA: E dunque a chi darai retta, se non ai tuoi stessi occhi?

MENELAO: Il problema è che ho un’altra moglie.

ELENA: Io non sono venuta a Troia: era solo un’immagine.

MENELAO: E chi può mai formare corpi dotati di sensi?

ELENA: L’aria, con cui gli dèi hanno fabbricato la tua compagna di letto.

MENELAO: Quale dio? Stai dicendo cose paradossali!

ELENA: È stata Era a fare lo scambio, perché Paride non mi avesse.

MENELAO: Come potevi stare qui e a Troia nello stesso tempo?

ELENA: Il nome può stare ovunque, il corpo no.

MENELAO: Lasciami: ho già abbastanza guai.

ELENA: E quindi mi lascerai, e porterai con te un essere vuoto?

MENELAO: Allora addio, dato che somigli tanto a Elena.

ELENA: Sono perduta: ho trovato e subito perso il mio sposo.

MENELAO: Le sofferenze terribili che ho patito lì a Troia mi convincono, tu no.

ELENA: Chi è più infelice di me? La persona che amo di più mi abbandona; non tornerò più in Grecia, non rivedrò più la mia patria. 

Arriva il servo di Menelao  […] 

SERVO: Menelao, la tua sposa che ci avevi consegnato se n’è andata fra le pieghe dell’aria: si è levata in alto ed è sparita, nascosta nel cielo. Quando ha lasciato la sacra grotta dove la tenevamo nascosta, ha detto queste parole: “Poveri Troiani e poveri i Greci tutti: per colpa mia siete morti sulle rive dello Scamandro grazie agli intrighi di Era, credendo che Paride avesse fra le sue mani un’Elena che non aveva. Io sono rimasta fra voi il tempo previsto, e ho assolto il mio compito: ora me ne torno dal mio padre celeste. La sfortunata figlia di Tindaro a torto è coperta di infamia senza aver commesso alcuna colpa”.

[Euripide, Elena, vv. 557-615 – trad. Massimo Fusillo, Rizzoli 1997]

In questo momento cruciale Elena dichiara la verità: i Greci hanno combattuto per un’immagine o, come dirà Seferis, poeta greco contemporaneo, “για ένα πουκάμισο αδειανό”, per una camicia vuota. Realtà dura da accettare per il guerriero Menelao, che qui ancora è incerto, ma la testimonianza del servo, che ha assistito al dissolvimento dell’eidolon, è una prova schiacciante. Da notare che il simulacro prima di dileguarsi ha sottolineato che “a torto Elena è coperta di infamia, senza aver commesso nessuna colpa”. A parlare è una creatura divina: come non darle credito?

Elena “patrona” della bellezza e della poesia

Vorrei concludere con un’ultima riflessione. Se ancora oggi parliamo di lei, è perché abbiamo bisogno di Elena. In un passo dell’Iliade Elena viene sorpresa da Ettore mentre sta tessendo una tela di porpora e nella trama disegna il ricamo della guerra di Troia. Al telaio Elena intreccia in trame e ordito quello che Omero ci racconta in esametri. Il grande oratore Isocrate nel IV secolo nel suo Encomio di Elena riprende questa immagine e la rende più potente: è a Elena stessa che dobbiamo la poesia.

[…] È a Elena che dobbiamo la poesia stessa. Alcuni dei successori di Omero riferiscono infatti che la bellissima spartana apparve di notte al poeta e gli ordinò di comporre un poema sui combattenti di Troia, volendo rendere la loro morte più invidiabile della vita di molti altri. E dunque, in parte per l’arte di Omero, ma soprattutto a causa dell’intervento di Elena, nacque un poema così affascinante e famoso.   

[Isocrate, Opere, Mauro Marzi (a cura di), UTET, Torino, 1991]

Non poteva essere altrimenti: dalla bellezza sgorga la poesia e la poesia sa rendere la bellezza immortale. Pertanto Elena non solo è innocente, ma necessaria. 

L’ultimo testimone di questa difesa di Elena è un greco contemporaneo, Nikos Kazantzakis. Nel 1937 viaggia nel Peloponneso e approda a Sparta: sulle rive del fiume Eurota si respira ancora una dolcezza inspiegabile, una sensualità che reca le tracce antichissime di Elena. Ed è proprio qui, nel paesaggio di Elena, che Kazantzakis racconta una meravigliosa parabola.

Una volta due Greci, come dice la tradizione, arrivarono sulle rive del Gange. Volevano chiedere una cura per la loro patria in subbuglio. I severi asceti di Buddha li accolsero gridando di gioia: 

“Questi sono i Greci, gli eterni fanciulli della fantasia, i pesci impulsivi che guizzano e giocano fra le reti del pescatore, e credono di essere ancora liberi nel mare sconfinato. Le loro storie sono un sogno fatto di mare azzurro, di poveri campi, di navi e di cavalli. Con questi elementi eterei giocano, elaborano, plasmano nel sonno guerre, dèi, leggi, idee. Sventurati! A Troia avete combattuto una guerra decennale per Elena, senza mai capire che quel sangue versato era solo per l’ombra di lei! 

Avete armato navi, tutti insieme vi siete mossi, con comandanti, profeti, destrieri. Avete viaggiato dentro il vostro sonno. Avvistata una fortezza, avete sentito ribollire il sangue e siete esplosi in un grido: “Questa è Troia!”. Abbagliati dal sole, avete intravisto macchioline scure agitarsi sulle mura e avete gridato: “Questi sono i nostri nemici!”. E la guerra è stata un andirivieni di ombre sopra la terra, che ora si univano, ora si separavano e poi di nuovo si univano, per dieci lunghi anni! Tutto questo, infelici, non era che un gioco di luci e ombre. Per Elena avete sparso il vostro sangue, ma lei viveva intatta, invisibile, molto lontano, in un tempio sulle rive del Nilo. Soltanto per il suo fantasma avete assediato Troia”.

E allora, immagino che il primo Greco abbia risposto così:

“Se anche fosse stata un’ombra, benedetta per sempre Elena! Quando la città di Troia fu conquistata, Menelao la sollevò fra le braccia e scavalcando il palazzo in fiamme, il cadavere di Priamo, la porta di Troia e i ciottoli della riva, entrò nel mare fino alla vita e la posò sulla nave. Tutti i Greci restarono abbagliati, indovinando la bellezza della donna incomparabile. Nella loro mente i dieci anni si sciolsero nel lampo di un istante, e tutte le cime dei monti di Grecia rifulsero, come colpite dai raggi del sole, diffondendo la grande novella. Passarono le generazioni, ma Elena immortale palpita nel canto, siede ai tavoli dei governanti e all’assemblea del popolo. La sera sale nei talami nuziali come sposa e tutte le figlie di Grecia le somigliano. È la sposa dei Greci”.

E immagino poi che prese la parola il secondo Greco:

“Benedetti siano gli dèi! Prima che il nostro sangue e il nostro canto la generasse, Elena era un’ombra e si agitava sulla terra come tutte le altre donne, senza speranza di immortalità. Passeggiava nel canneto del fiume Eurota, sedeva al telaio, dava ordini alle ancelle, saliva e scendeva nel palazzo: un’ombra. Sarebbe poi morta, e nessuno avrebbe saputo che era vissuta. 

Ma all’improvviso passò il poeta e la vide: il suo canto si levò come onda del mare e la rapì con sé.

Ecco il modo in cui diamo carne alle ombre, ecco il modo in cui plasmiamo le cose destinate a svanire e vinciamo sul nulla.

Io ascolto la terra intera: odo i monti intorno a me, i fiumi, gli alberi, gli animali che mi gridano: ‘Dammi un volto per non farmi svanire, guardami perché io viva!’. Quando salgo sul monte e contemplo i marmi, si sprigiona un urlo, come se in quelle viscere di pietra fossero racchiusi dèi e uomini, che tendono le braccia e gridano perché io li salvi. 

Voi asceti incrociate inerti le braccia e pensate: ‘Elena non esiste!’. Invece noi Greci abbiamo un profondo sentire: ‘Elena significa combattere per Elena!’”. 

[Nikos Kazantzakis, La mia Grecia, trad. Gilda Tentorio, Crocetti, Milano 2021]

Elena, un enigma e un archetipo

J. W. Waterhouse, Cleopatra, 1888

Arringa per un ipotetico processo 

Portare in giudizio Elena, ovvero la sintesi perfetta di bellezza, fascino e desiderio, a cui da sempre gli uomini sono assoggettati, sembra un assurdo. Come pure presentare un lungo elenco di accuse e di riflessioni contro un mito: ma, dato il contesto in cui ci troviamo e visto che si dovrà esprimere un giudizio, proveremo ugualmente ad affrontare questo processo.

Prima di iniziare ritengo opportuno mettere a confronto due modelli, due comode schematizzazioni, che hanno rappresentato la modalità ambivalente con cui nel mondo antico si giudicava e pensava la realtà fisica e psicologica delle donne. Da qui prenderà avvio il mio discorso. 

Da un lato c’è Elena la svergognata, che abbandona il marito, la casa e la figlia Ermione, dall’altro Penelope, la casta sposa che aspetta il ritorno del marito guerriero, forse corsaro, di certo avventuriero [1]. Sono modelli veri, sono falsi? Sono soprattutto rappresentazioni facili che permettono di schematizzare la complessità di un problema connesso con la visione psicologica del maschile e femminile nell’antichità, e in effetti proprio questo sarà il fine del mio intervento. Senza conoscere le motivazioni, i limiti interiori e le spinte emotive dei personaggi che si devono giudicare, non si può esprimere nessun giudizio.  

Intorno a queste due figure si sono esercitati, dopo Omero, poeti, scrittori, retori e filosofi come Euripide, Saffo, Stesicoro, il grande Gorgia di Lentini e, in modo indiretto, anche Platone nel Simposio, quando nel discorso di Erissimaco, si sofferma sui concetti di έρος ϋβρεοϛ ed έρος χοσμίος ovvero su amore che distrugge e amore che crea armonia [2]. Per questo prima di una damnatio memoriae del personaggio di Elena o della glorificazione conseguente della regina di Itaca, sembra opportuno e necessario analizzare la genealogia del personaggio Elena e le fonti che la descrivono. I testi che verranno presentati, in mancanza di ovvie testimonianze dirette, verranno utilizzati, prima di chiedere una condanna, come testimonianze a carico.

 I - Genealogia di Elena (῾Ελένη) 

Se è vero che una delle etimologie riguardanti il nome Elena va collegata con una radice indicante splendore, come ἑλάνη "fiaccola", quindi donna che rifulge per la sua bellezza, va precisato anche che Elena in origine era probabilmente una divinità lunare, legata ai culti della Notte, delle tenebre, del mondo oscuro e che il nome potrebbe ricollegarsi anche a Σελήνη, la luna. Tale culto era praticato a Terapne in Laconia, nell’Argolide e a Rodi, dove Elena era venerata come Elena Dendrite (‛Ελένη Δενδρῖτις) cioè divinità capace di favorire, in relazione alle fasi lunari, la generazione dei germogli e delle piante. A Rodi era anche praticato un culto notturno di Venere associato a quello di Elena [3]. Le narrazioni primigenie legate a questa figura mitica e a Venere, come vedremo, presentando diverse affinità con i miti lunari e con quelli delle divinità notturne, stanno a indicare la personalità, implicitamente pericolosa e duplice di Elena, cioè di una donna che splende per la sua bellezza come una fiaccola, ma è misteriosa, oscura come la notte e capace di provocare passioni dalle conseguenze terribili. Inoltre è opportuno soffermarsi sulla nascita, la genealogia e i genitori di questa donna prodigiosa.  

Figlia di Leda o di Nemesi? 

Due miti/narrazioni riguardano l’origine di Elena: nel primo è definita figlia di Leda e di Zeus, nel secondo della dea Nemesi e del padre degli dei. Accertiamoci delle due genealogie. Ambedue presentano affinità e sono riconducibili alle teogonie legate alla figura di Zeus.

Partiamo da Leda. Il padre di Leda era Testio re di Calidone, alla corte del quale si recò Tindaro, fuggito da Sparta. Tindaro si innamorò di Leda e la ottenne in moglie celebrando grandi sponsali. La notte delle nozze, dopo la prima unione con Tindaro, Zeus, anche lui preso da passione, sotto forma di cigno si congiunse a Leda. 

Da questa doppia unione nacquero quattro figli: I dioscuri Castore e Polluce ed Elena e Clitennestra. Polluce ed Elena erano semidei in quanto figli di Zeus e della mortale Leda, Castore e Clitennestra, invece, erano mortali e figli di Tindaro. Leda fece da tramite, da contenitore mortale di realtà immortali. Il destino dei figli partoriti è ambivalente e paradossale, giocato sulla doppia valenza di mortale/immortale. Infatti per ciò che riguarda l’universo femminile, sia Elena, sia Clitennestra, rappresenteranno due archetipi ambivalenti per il mondo greco. 

Soffermiamoci ora su Nemesi. Un’altra leggenda narra che Zeus desiderava congiungersi con la dea Nemesi, la quale per sfuggire all’amplesso di Zeus si trasformò in oca. Zeus a sua volta prese le sembianze di cigno. Dalla loro unione, avvenuta sul Taigeto presso Sparta, nacquero due uova che vennero trovate dai pastori e portate a Leda, divenuta regina di Sparta dopo le nozze con Tindaro. Le uova si schiusero e Leda trattenne presso di sé e allevò i bambini nati da esse come figli suoi. In questa seconda versione Elena è figlia di Nemesi e Zeus; ma chi è Nemesi, l’altra madre di Elena? Nemesi è una dea notturna. Nata dalla potenza della Tenebra è compagna delle Erinni, di Vendetta e Morte; è la divinità che vendica i delitti impuniti, per riportare una sorta di equilibrio nel mondo, ma per far questo arreca con sé stragi e assassini. Nemesi, inoltre, rappresentando la vendetta implacabile che punisce i crimini non vendicati, è anche una divinità che distrugge e porta alla follia. Presenta pure altri aspetti del notturno femminile. Oltre alla bellezza possiede anche la capacità di usare dolci menzogne (Psèudea) ed è maestra nel ricorrere alla tenerezza amorosa che sa ingannare (Phìlothes), inducendo gli uomini ad assecondare i suoi desideri. Tutto questo comporta una forte analogia con la figura di Afrodite, altra divinità direttamente implicata nella vicenda di Elena, come metterà chiaramente in luce Ecuba nelle Troiane [4]: 

“Ogni follia per l’uomo s’identifica con Afrodite, e non per niente il nome comincia con quello d’afrosyne, vale a dire pazzia …” [5].  

La bellezza, quindi, per il mondo greco poteva rappresentare piacere ma anche possessione, smarrimento, tragica fine e, nel caso di Elena, guerra e morte. La storica e antropologa N. Loraux sostiene che Elena simboleggia un archetipo della storia umana e culturale greca e che la guerra, inevitabilmente scatenata dalla bellezza di una donna e dal suo conseguente rapimento, indichi un evento, un pretesto fittizio usato dagli uomini di potere, indipendentemente dalla donna rapita, per affermare la propria brama di dominio. Elena rappresenterebbe lo schermo narrativo dietro cui si nascondono le vere ragioni dello scatenarsi della guerra e lei sarebbe mossa non da volontà propria, ma dal volere degli dei e dai calcoli degli uomini di potere. Omero, nel suo poema, nel III canto, la presenta intenta a tessere, lontana dal tumulto della battaglia e, quando parla, non appare mai coinvolta dagli eventi che accadono per causa sua [5]. Sembra che la responsabilità degli accadimenti tragici sia da attribuirsi ad altri: agli dei, al fato, alla bellezza assoluta del suo corpo. Quando il poeta la descrive ricorre all’uso di termini neutri e cerca di definire Elena non tanto come una persona, ma come un oggetto desiderato e vagheggiato da tutti i contendenti. È definita con i neutri àgalma (cosa preziosa), kallìsteuma (cosa bella), tèras (cosa straordinaria), thàuma (cosa prodigiosa), ma anche - e questo interessa anche di più -, come pèma (flagello) [6]. Gli Achei alla fine sembrano combattere per un insieme di termini indefiniti, non per una persona o un’identità o una causa concreta, ma per l’insieme di simboli che Elena rappresenta, per un gioco di potere che contrappone l’Ellade all’Oriente. Si combatte anche per definire i principi dell’identità greca contrapposta a ciò che rappresenta Paride, il quale si macchia di ὕβριϛ per il lusso ostentato e perché non rispetta le regole dell’ospitalità [7]. Ma la tesi dell“innocenza” di Elena appare pericolosa: Elena si identifica con la distruzione e questo – come sottintendono molti poeti e scrittori - sembra il destino ambivalente che si accompagna ad una bellezza eccezionale. 

Ma come è iniziata la vicenda di questa donna bellissima? Quando Elena fu in età da marito tutti i capi Greci si recarono a Sparta per chiedere la sua mano. Siccome la loro rivalità rischiava di generare un conflitto, su suggerimento di Ulisse, Tindaro sacrificò un cavallo sulla cui pelle fece salire ad uno ad uno i pretendenti per farli giurare che, chiunque fosse stato il fortunato sposo, tutti avrebbero dovuto accorrere in aiuto del marito scelto da Elena, nel caso qualcuno avesse tentato di rapirgli la sposa. Così si scatenò in seguito la guerra di Troia. 

Leda/Nemesi rappresentano gli archetipi umani/divini che portano ad Elena e che lei riassume in sé: capacità di sedurre e ingannare [8] e, per conseguenza, di provocare conflitti. Tutti questi elementi sono già contenuti nella persona stessa di Elena; la sua bellezza provoca la dinamica dei sentimenti più complessi, perché accende l’immaginario e la fantasia degli uomini, come una fattura, una sorta di attrazione magica, che mette da parte la ragione e si impossessa di tutti. 

Il potere seduttivo di Elena è tale che, quando, nel III libro dell’Iliade, compare sulle mura di Troia e si autoaccusa, Priamo stesso la discolpa e attribuisce la causa della guerra al volere divino [9]. Da qui nasce la duplicità ambigua e la pericolosità di Elena. Suscita l'hìmeros (il desiderio amoroso); ma non ricambia questo desiderio, semmai lo sfrutta per i propri fini e, se vi soggiace, è solo dopo l'imposizione di Afrodite [10], come accade quando Paride riesce a sfuggire allo scontro con Menelao. Inoltre, come figlia di Nemesi porta con sé un destino inevitabilmente tragico e maledetto: una volta commessa la colpa di infrangere le regole che competevano alle donne greche e aver permesso a Paride di violare le leggi non scritte dell’ospitalità, la guerra e la punizione di Nemesi sarebbero state inevitabili, come lei stessa dice nella tragedia di Euripide:

“E molte vite sono morte per me sullo Scamandro,

e io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta

ritenuta da tutti traditrice di mio marito

e rea di avere acceso una guerra tremenda per la Grecia” [10].

Lo stesso tema viene trattato nell’Agamennone di Eschilo, quando il coro evidenzia in termini del tutto negativi che la presenza di Elena a Troia ha portato morte e distruzione, non solo ai troiani ma agli stessi greci: 

“Elena passò senza esitare le porte di Troia

Portandovi in dote la distruzione.

Fu il momento del non ritorno.   

Ella lasciò alla sua gente tumulti

Di scudi, di lance, di navi armate” [11].

Elena appare, quindi, distruttrice di navi, di uomini e di città. In sostanza, cedendo a Paride, scatena la guerra perfetta e non si cura di valutarne le conseguenze. Sarebbe stato semplice dopo la venuta di Paride a Sparta, accolto come ospite da Menelao, non accettare le implicite promesse seduttive del principe troiano. Sarebbe bastato non scendere in giardino e non rispondere alle offerte del bel ragazzo. Ma, come sappiamo, l’amore e la guerra sono le divinità più potenti.

II – Elena – Pandora, ovvero della seduzione inevitabile (καλόν κακόν). 

Un altro raffronto va evidenziato per illustrare l’intrinseca colpa di Elena: riguarda il paragone tra Elena e Pandora che appare a questo punto inevitabile. Chi è Pandora? Un dono perverso e pericoloso dato da Zeus, Efesto ed Ermes agli uomini e arricchito dai pregi offerti da tante divinità olimpiche che, a gara, resero affascinante e seduttiva questa statua-donna inviata agli uomini. 

Elena e Pandora presentano caratteristiche molto simili, sono dotate di charis, che è il fascino, ciò che, come per magia, ci rende prigionieri di chi possiede questo dono. La charis si carica di molteplici sfumature (pòlle Charis) che si manifestano tramite la parola - volta però alla seduzione, non alla conoscenza -, l’andatura, la postura del corpo. Tutto ciò rende la donna-statua la compagna dell’uomo, il suo doppio umano. Zeus mandò questo dono avvelenato agli uomini per frenare la crescita e lo sviluppo della specie umana. Così racconta Esiodo nella Theogonia e così iniziò la riflessione negativa/positiva del rapporto uomo-donna nella cultura greca. In particolare i doni di Atena e Venere rendevano irresistibile Pandora. Un abito meraviglioso, dono di Atena, e un diadema, forgiato da Efesto, la rendono splendente, meravigliosa a vedersi - thauma idesthai - tanto da attirare Epimeteo (“colui che capisce dopo”), il fratello più tardo di Prometeo che, invece, conosce e sa in anticipo l’esito dei fatti che devono accadere. Epimeteo, abbagliato dalla bellezza apparente, accetterà Pandora come moglie, nonostante le raccomandazioni contrarie del fratello, e gli umani ne pagheranno le conseguenze [13]. Afrodite, che toglie il senno agli uomini innamorati, le ha fatto dono della capacità di sedurre, di usare parole dolci e ingannevoli. Gli inganni, le parole menzognere derivavano dalla progenie della Notte; anche Afrodite utilizza inganni e menzogne in campo amoroso ed offre queste attitudini a Pandora. Pandora ed Elena, nella versione di figlia di Nemesi, sono capaci di irradiare la speranza di felicità, ma anche inganni e illusioni che si congiungono nel provocare la più nera lotta tra gli uomini. Sono esse stesse un inganno rivestito di splendore. 

Hermes ha dotato Pandora di una natura di cagna insoddisfatta e sempre desiderosa di cibo e di sesso. Elena stessa, sia nell’Iliade che nell’Odissea, quando Telemaco si reca a Sparta, si autodefinisce la cagna degli Achei [14]. Non è solo autocommiserazione: sta ad indicare quanto la natura femminile per i Greci apparisse nella sua essenza nascosta oscura e insaziabile. 

La duplice natura di Elena – Pandora è stata messa in luce da diversi studiosi [15]. In ambedue i casi la bellezza, pur essendo un dono degli dei, appare un dono avvelenato a cui è meglio sottrarsi. Tale dono risulta sempre pericoloso, perché si carica di “dismisura”, perché porta gli uomini, che sono mortali e finiti, a credere di poter possedere e fare propria la perfezione che è solo degli dei.  Se ciò accade, avviene solo per brevi momenti, che lasciano rimpianto e desiderio; in altri termini il nostro desiderio di possedere la bellezza ci sospinge verso una sorta di guerra interiore, pericolosa per l’individuo quanto una guerra vera.    

Ma non fermiamoci solo a valutazioni di ordine individuale e psicologico. Se consideriamo gli aspetti giuridici e lasciamo da parte le vicende legate al mito e alla narrazione omerica, appare chiaro che il rapimento di Elena si rivelò anzitutto una triplice offesa al nomos greco. Paride non rapì solo la più bella dama del tempo per portarla in un mondo barbaro, ma si impossessò anzitutto di una donna greca, una sposa, una regina e inoltre infranse le regole dell’ospitalità [16]. Accettare il fatto compiuto significava minare le regole su cui si basava il mondo ellenico. Tali regole fondavano la stabilità dei rapporti tra le famiglie regnanti, le città e gli stati. Non dimentichiamo che tutta la civiltà greca e della Magna Grecia era legata al mare, alle navi, agli scambi, ai commerci, alle rotte nautiche [17], come la stessa Odissea mette in evidenza. 

Elena è anzitutto regina di Sparta, dato questo che non si è sufficientemente messo in evidenza. Permettendo, acconsentendo al proprio rapimento mette in crisi i rapporti di ospitalità e gli equilibri diplomatici altalenanti che regolavano i rapporti tra gli stati, e questo solo per il desiderio di essere più ricca e più desiderata, non da un solo uomo, Menelao, ma dal bellissimo Paride-Alessandro e poi da tutti gli uomini di Ilio. Ne è ben consapevole Ecuba che nelle Troiane lo dice in modo esplicito:   

“Tu lo vedesti in quelle vesti barbare, raggiante d’oro e ti andò via la testa. Grama la vita che facevi a d Argo. Lasciata Sparta, la città dei Frigi, - fiume d’oro - sperasti di sommergerla in un gran fasto spendereccio. Ché il palazzo di Menelao non t’era sufficiente a imperversare coi tuoi sciali …” [18].

Elena, prestandosi a questo gioco, risulta senza dubbio alcuno colpevole. Per questo la tela che tesse non può essere che una narrazione di morte dei principi troiani e greci; certo, la sua bellezza la rende “simile a una dea”, come nel canto III sostengono gli anziani consiglieri di Priamo, ma per affermare subito dopo che, se per una donna simile valeva la pena di soffrire tanti lutti e disagi, è meglio rimandarla dai Greci prima che porti la distruzione a Troia. 

Il quesito che ci siamo posti in questo dibattito sembra insolubile: esistono a favore della condanna e dell’assoluzione varie ragioni. In ogni caso si deve affrontare il problema non dal punto di vista soggettivo, della passione amorosa, che è ingovernabile. Occorre superare la visione di Saffo, e andare oltre ciò che sostiene la poetessa:

Alcuni di cavalieri un esercito, altri di fanti,

altri di navi dicono che sulla nera terra

sia la cosa più bella, mentre io ciò che uno ama.

“Tanto facile è far capire

questo a tutti, perché colei che di molto superava

gli uomini in bellezza, Elena, il marito davvero eccellente


lo abbandonò e se ne andò a Troia navigando,

e né della figlia, né dei cari genitori

si ricordò più, ma tutta la sconvolse

Cipride innamorandola.

E ora ella, che ha mente inflessibile,

in mente mi ha fatto venire la cara

Anattoria, che non mi è vicina” [19].

L’amore, la passione, non sono superiori alla legge, altrimenti in nome della passione qualsiasi violenza sarebbe giustificata: anzi, proprio per questo Elena e la sua bellezza debbono essere non assolte ma condannate. Il rispetto delle regole sociali e delle leggi della città sono l’unica garanzia del mantenimento della pace e della concordia tra gli uomini. Al di fuori del solco della legge prosperano la guerra, lo scontro, il rifiuto di tutte le regole che garantiscono l’armonia sociale. Euripide e Stesicoro per giustificare in qualche modo l’incomprensibile dissidio tra bellezza e guerra dovettero ricorrere alla metafora dell’είδωλον, una sorta di simulacro, di immagine aerea e inconsistente che era un duplicato dell’Elena vera, rifugiata in Egitto. Tutto ciò permetteva di giustificare la regina di Sparta per il tradimento e la fuga. Ma tutti questi discorsi, pur seguendo il filone della riabilitazione parziale già introdotto da Priamo e dagli anziani di Troia nel libro III dell’Iliade, non possono dare ragione dei lutti, delle ferite, delle morti di tanti eroi e della distruzione di una città e di un mondo. Per questo tra Elena e Penelope, la lontana e quasi ignota regina di Itaca che provoca sì la morte dei Proci, giustificata però dalla loro tracotanza, è da preferirsi Penelope che appare come il vero emblema delle donne greche dell’antichità.

Tra la tela tessuta da Elena e quella incompiuta di Penelope è da preferirsi la seconda. Ci opponiamo all’assoluzione della sovrana di Sparta proposta da alcuni studiosi, a meno che non si accettino ed interiorizzino come percorso filosofico universale i dettami offerti da Diotima a Socrate nel Simposio platonico - che potrebbero dare una risposta definitiva alla querelle tra desiderio, passione e guerra - e chiediamo per Elena una ferma condanna.     

NOTE:

1. G. Ieranò, Elena - infedeltà e matrimonio - Penelope, Einaudi, Torino 2021, prologo, pp. 8-9; D. De Sanctis, Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero, Fabrizio Serra editore, Pisa - Roma 1998, II, Spose piangenti: Elena e Penelope, p. 75.

2. Platone, Simposio, “Dunque, Eros ha una potenza così vasta e grande, e anzi, una potenza universale. Ma l'amore che tende alle cose buone e si accompagna a temperanza e a giustizia, sia presso di noi sia presso gli dèi, ha la potenza più grande e ci procura ogni felicità, rendendoci capaci di stare insieme gli uni con gli altri, e facendoci essere amici con gli esseri che sono al di sopra di noi, cioè con gli dèi…”. Discorso di Erissimaco.

3. G. Guidorizzi, In viaggio con gli Dei, Raffaello Cortina editore, Milano 2019, p. 23.

4. Euripide, Troiane, in: Le Tragedie, a cura di A. Beltrametti, Einaudi, Torino 2002, p. 453. 

5. N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Latera, Roma-Bari 1991, p. 207

6. Ivi, pp. 207 – 227. 

7. T. Hӧlscher, Immagini dell’identità greca, in: I Greci, Storia, cultura, arte e società, Einaudi, Torino 1997, 2, II, pp. 215-217.  

8. J. P. Vernant, L’Universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino 2014, IV, pp. 83 e sgg.      

9. D. De Sanctis, Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero, op, cit., pp. 81-82 e 126-128. 

10. Iliade III, 421-454.

11. Euripide, Le Tragedie, op. cit., Elena, versi 502-505, pp. 452-453.

12. Eschilo, Agamennone, Parodos e paretimologia, II canto, 383-415.  

13. Platone, Protagora, 320c-324a. 

14. Odissea, IV, 145. 

15. D. De Sanctis, op.cit., pp. 94-98; J. P. Vernant, op. cit., pp. 61-65.

16 J. P. Vernant, op. cit., pp. 86-87. 

17. C. Broodbank, Il Mediterraneo, Einaudi, Torino 2015, IX e X; D. Puliga - S. Panichi, In Grecia, Einaudi, Torino 2012, pp. 28-33; D. Puliga - S. Panichi, Un’altra Grecia, Einaudi, Torino, 2019, pp. 213-223.

18. Euripide, Troiane, op. cit., pp. 453 – 454. 

19. Saffo, Poesie, a cura di E. Avonto, frammento 16. 

20. D. De Sanctis, op. cit., pp. 56-64. 

21. Ivi, pp. 235.

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