Psicoanalisi e letteratura
Dostoevskij e i fratelli karamazov

Freud scrittore dell'inconscio

Angela Peduto

Quando guardiamo uno dei numerosi ritratti di Freud siamo colpiti dal suo sguardo, uno sguardo che ci cattura, che sembra trasmettere l'eccezionalità del soggetto, quella mescolanza di profondità e partecipazione affettiva che pare essere la sua caratteristica essenziale. Una di queste immagini ritrae Freud con la figlia Sophie. È quella che sempre mi sovviene quando penso al rapporto di Freud con la letteratura. Si tratta di un amore perduto, un amore segnato dalla morte: Sophie morì durante l’epidemia di spagnola, nel 1915. Se l’associo a questo tema è perché l'arte - la letteratura - sarebbe lavorata dal nulla, dall'assenza, dalla morte?

"Viene fatto di sospirare pensando che solo a pochi è consentito di sottrarre, quasi senza sforzo, al vortice delle loro emozioni le verità più profonde, alle quali noi giungiamo solo attraverso un cammino faticoso, avanzando senza posa, a tentoni, in mezzo a torturanti incertezze" (S. Freud 1895)

Freud si è sempre cimentato col mito e con la parola dei poeti, aprendo un sentiero che, pur tra esitazioni e ambivalenze, pentimenti e incertezze, gli psicoanalisti non hanno mai rinunciato a percorrere.

Una specie di legame intimo e originario unisce psicoanalisi e letteratura, un legame che tuttavia si presenta pieno di contraddizioni e di pericoli. Solo camminando senza certezze sul filo rischioso di questo legame se ne può parlare, sospesi sul vuoto delle aporie: un po’ acrobati, un po’ avventurieri.

La letteratura è per Freud amore irrinunciabile.  La sua cultura letteraria è immensa e profonda: giovanissimo ha già letto i greci, conosce Shakespeare, Dostoevskij, Cervantes, Schiller, Flaubert, Dickens, Milton, per citare solo alcuni tra i suoi scrittori più amati. Sarà sempre in grado di citare Goethe a memoria. Tuttavia è la scienza l'interlocutore ineludibile. Se un demone lo abita, questo demone è la passione per la verità. Ed è lo scienziato, non il poeta, a incarnare l'ideale di colui che persegue la verità a qualunque prezzo e contro ogni mistificazione.

Certo, il poeta arriva là dove lo scienziato stenta ad arrivare. “I poeti sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolarmente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono state ancora aperte alla scienza”. (S. Freud, 1906)

Ma la letteratura è anche finzione, è sintomo; se può talvolta aspirare alla verità, essa resterà sempre altra cosa dalla ricerca minuziosa, infaticabile, dello scienziato che non indietreggia nel cammino periglioso della ricerca, determinato a smascherare la menzogna e a non servirsi di essa se non come indizio ed elemento intrinsecamente costitutivo della vita psichica. Edipo resterà sempre per Freud l'eroe paradigmatico di questa lotta tra verità e menzogna. E per questo i suoi rapporti con la letteratura saranno sempre difficili e tormentati.

Quando inizia la stesura dei casi clinici Freud incontra subito il problema della forma da dare.  Le pazienti isteriche gli raccontano sogni, fantasie. Il loro discorso segue quella logica associativa nella quale egli ha intravisto la via da seguire per spingersi verso il non detto, il non conosciuto. Come rendere conto di tutto questo? Il resoconto psichiatrico tradizionale, solidamente ancorato al visibile - i segni, i comportamenti - e all'oggettivabile - la nosografia, le classificazioni -, non ha nulla a che vedere con la realtà nuova che si materializza nelle parole delle pazienti. Una realtà instabile, mutevole, impastata nella materia degli affetti e della sessualità, errante tra corpo e linguaggio. Occorrerà allora volgersi alla forma narrativa. Suo malgrado lo scienziato finisce per ritrovarsi sullo stesso terreno del poeta.

"Mi colpisce ancora come qualcosa di strano che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell'impronta severa della scientificità. Devo consolarmi perché la responsabilità di questo risultato si deve attribuire evidentemente più alla natura dell'oggetto che a una mia preferenza" (S. Freud, 1895)

Vero è che i casi clinici di Freud sembrano scritti come romanzi e come romanzi appassionano. Non solo: il respiro di opere come Il Mosé e il monoteismo è quello della grande opera letteraria, saggi come Il perturbante hanno un impatto emotivo che si penserebbe riservato alla letteratura. Così tanto il resoconto clinico quanto la speculazione teorica finiscono in Freud per ritrovare quel legame pericoloso e intimo, quell'affinità inquietante che egli avrebbe preferito eludere.

Tutta la storia dei rapporti tra la psicoanalisi e la letteratura parla di questo incastro originario e degli imbarazzi che produce. Imbarazzi a doppio senso, perché se gli psicoanalisti oscillano tra il cedere alla tentazione letteraria e il ritrarsi prudentemente, rinnegando la parentela ed esercitandosi sul corpo letterario come sul corpo di un sogno da decifrare, è vero anche il contrario. I letterati, dopo che i loro padri del ‘900 hanno frequentato con assiduità ed esiti diversi il sapere psicoanalitico, oggi sembrano situarsi a distanze incolmabili, salvo apparire a volte posseduti dalla psicoanalisi, il testo letterario assillato e colonizzato, più che ispirato, dai fantasmi che la psicoanalisi ha reso familiari.

Tra diffidenze e seduzioni reciproche, ora estranei ora complici, psicoanalisti e scrittori restano pur sempre compromessi gli uni con gli altri. Per gli uni come per gli altri la scrittura può imporsi come necessità e diventare un'esigenza imperiosa: elisir prezioso contro l'inerzia e la stasi, antidoto certo al silenzio del pensiero.

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