La parola e l'ascolto
La parola e l'ascolto
La psichiatria come ricerca di terapie per la complessità dell’individuo
Sabato 4 marzo 2023
Ore 9.00-13.00
Biblioteca della Salute Mentale e delle Scienze Umane “G. F. Minguzzi-C. Gentili”
Via Sant’Isaia, 90 Bologna
Mariangela Pierantozzi. Introduzione
Antonello Correale. I fondamenti della psichiatria e la condizione umana: prospettive per la cura
Giovanni Stanghellini. Viva la psichiatria
A quarantaquattro anni dalla promulgazione della legge 180 che ha portato alla chiusura dei manicomi occorre continuare a lottare per una nuova cultura della psichiatria: siamo oggi al punto più basso delle capacità terapeutiche dei servizi psichiatrici pubblici e le cause denunciate si limitano spesso a questioni organizzative e finanziarie. Per quanto importanti, esse restano esterne all’insieme delle conoscenze relative al campo psichico. Sono i limiti interni alla disciplina a dover essere messi in discussione: la formazione degli operatori limitata al biologico, le prassi semplificate, ristrette, ridotte ad un ripetitivo e abitudinario uso del farmaco per controllare i sintomi e, di conseguenza, la persona. Il paternalismo, abituale nel mondo manicomiale, si è insinuato nelle pratiche e nelle coscienze degli operatori mentre si sono persi saperi essenziali alla comprensione dell’uomo.
Ciò che si è perduto in questi anni è l’attenzione all’incontro con l’altro. La psichiatria fenomenologica e la psicoanalisi, discipline che hanno come oggetto l’analisi dei vissuti soggettivi, si sono occupate da sempre dei problemi che l’incontro con l’altro e l’ascolto della parola dell’altro comportano. I progressi delle neuroscienze non possono essere l’unico bagaglio culturale della psichiatria ma vanno inseriti nella ‘cura con la parola’, per una ricerca di nuove prassi psichiatriche.
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Dalla 180 al riduzionismo biomedico. Lo psichiatra di fronte al dolore di pensare.
Mariangela Pierantozzi
All'interno dell'associazione OfficinaMentis stiamo riflettendo sullo stato dell'assistenza e della cultura psichiatrica in Italia. Tutti abbiamo di fronte il degrado dell'assistenza medica in generale e dell'assistenza psichiatrica in particolare, per la quale non sono previsti programmi di spesa nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: importo totale di 191,5 mld più 30,6 mld del Piano Complementare), a fronte di un bisogno valutato dagli addetti in più di due mld di euro e di 10.000 unità di operatori ancora mancanti. Inoltre la prevenzione in psichiatria si fa ripensando i servizi per l’infanzia e l’adolescenza e anche in questo ambito non ci sono situazioni migliori. Gli appelli in tal senso si sono moltiplicati negli ultimi tempi, e anche riflessioni che sono diventate libri e articoli: di Eugenio Borgna, Ivan Cavicchi, Francesco Peloso. Marion Leboyer e Pierre-Michel Llorca, due accademici francesi, hanno scritto una dichiarazione allarmante circa lo stato della psichiatria francese nel libro Psychiatrie: l’état d’urgence, pubblicato da Fayard (Premio della letteratura politica Edgar Faure 2018).
Vogliamo trattare questo argomento in quanto ne siamo investiti come terapeuti, psichiatri e psicoanalisti, che spesso si trovano a condividere pazienti con i servizi pubblici e con i servizi pubblici pensiamo di dover intrattenere una fattiva collaborazione. Anche per le nostre età e origini professionali siamo state spettatrici della riforma Basaglia: la provincia di Bologna è stata la prima in Italia che già nel 1973 iniziò un progetto per lo spopolamento dei manicomi, con l’istituzione di piccoli gruppi di psichiatri territoriali, di cui abbiamo fatto parte, che anticiparono la 180. Intorno a questa riforma psichiatrica, che ha precorso e influenzato in parte i dibattiti in altri paesi, ci sono state molte battaglie e discussioni tra opposti schieramenti. Questa legge di riforma psichiatrica n°180 del 1978, il cui nucleo fondamentale era la chiusura dei manicomi, la riforma del trattamento obbligatorio e la gestione del residuo manicomiale, ha raggiunto il suo scopo almeno formalmente: liberare il malato dalle aberrazioni dell’istituzione totale. Una conquista civile, un passaggio storico inevitabile, che non poteva essere rimandato. Questa riforma non può essere rinnegata e affondata da critiche soltanto negative: è il terreno sul quale poggiare e ripensare la cura della malattia mentale. È una legge solo in parte disattesa, per aver avuto risorse sempre decrescenti, sia economiche che di personale, e a causa di una organizzazione spesso risultata più comoda a logiche aziendali che ai bisogni dell’individuo. Un suo limite è stato lo slittamento progressivo verso un progetto quasi esclusivo di infrastrutture organizzative, puntando al miglioramento delle condizioni materiali degli “utenti”.
I tanti dibattiti che si stanno svolgendo ormai da tempo discutono di questo; si riempiono i documenti nazionali con i problemi della questione organizzativa, che finisce per essere purtroppo burocratica. Dovremmo invece puntare sugli operatori come soggetti di cambiamento e nei documenti pubblici dare spazio ai problemi dei soggetti che lavorano, al fine di creare, a favore dei malati, le condizioni più idonee. Il movimento basagliano, padre della 180, motore della lotta per i diritti, movimento politico sopratutto, ha trovato un limite nel far coincidere la cura del malato mentale con la sua liberazione, mettendo al bando qualsiasi teoria della psichiatria, accademica e non, considerate strumenti del potere istituzionale, portatori di oppressione. Nella logica del movimento di Basaglia liberare il malato era già una cura, farlo rientrare nella propria casa, quando c’era, darne una ex novo, trovargli un lavoro, coprire i suoi bisogni primari, riammetterlo nella società o non escluderlo, erano La Terapia.
Il grande equivoco fu questa equiparazione. Fummo di fronte all’annullamento di qualsiasi cultura che riguardasse la psiche. Si estromise la cultura accademica, la psicoanalisi e tutte le altre teorie e prassi di cure precedentemente esistenti, nessuna esclusa. Qualcuno volle e vuole vedere una certa somiglianza delle teorie basagliane con la fenomenologia. Ma con quale fenomenologia? Peppe Dell’Acqua in Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni (Stampa Alternativa 2007), afferma che certi principi potevano essere implicitamente fenomenologici, ma gli psichiatri di allora non lo pensavano, usavano la pratica della liberazione senza ulteriori aspetti teorici. Anche la fenomenologia era una teoria, come le altre; poté forse essere ripescata, valorizzata in seguito, a causa del recupero del soggetto presente nel pensiero di Basaglia.
Sono le pratiche il vero pensiero di Basaglia (Cavicchi), il malato si cura recuperandone la soggettività compromessa dal manicomio. Ma questo ha poco a che fare con l’“homo existentia” di Binswanger (Cavicchi) : Stanghellini definisce la fenomenologia “come una danza nel cuore dell’essere che rinuncia ad ogni ideologia” (in Storia della fenomenologia clinica scritto insieme a Molaro nel 2020) ; mentre Basaglia definisce le pratiche di liberazione del malato mentale entro una ideologia della liberazione più di stampo marxista (Si veda Ivan Cavicchi, Oltre la 180, Castelvecchi 2022). Piero Cipriano nel libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (Elèuthera 2018) sostiene che potremmo definire, per eccesso, Basaglia un fenomenologo radicale in quanto “cambia la epochè husserliana mettendo tra parentesi la malattia.”
Le pratiche del movimento basagliano non curano in senso clinico, ma liberano in senso politico.
La 180 è stata una rivoluzione e le rivoluzioni per essere mutamento spazzano via e rompono con il passato. Purtroppo Basaglia è morto troppo presto e non sappiamo come avrebbe proseguito il suo percorso. Ricordo un episodio durante quel periodo: in una riunione a Reggio Emilia, Giovanni Jervis fece un duro attacco a noi operatori psichiatri che seguivamo studi di psicoanalisi pur lavorando nei servizi con la logica basagliana. Sappiamo che poi ha finito la sua carriera come psicoanalista.
A questo vuoto di indicazioni scientifico-culturali, presente nella riforma basagliana, si aggiunge il problema della formazione universitaria, che appare totalmente slegata dalla storia della riforma psichiatrica in Italia. Basaglia non si insegna all’università. Basaglia e Università (intesa come istituzione totale, come un potere chiuso), non potevano andare d’accordo. Non solo non si studia Basaglia all’università ma non si studiano più, se non rari casi, né la psicoanalisi, né la psichiatria fenomenologica. Abbiamo riscontrato dopo gli anni 60-70 l’ostilità storica di certa psichiatria nei confronti della psicoanalisi e nei confronti delle “tecniche psy”. Un atteggiamento diverso è stato riservato alla terapia cognitivo - comportamentale. All’università si studia piuttosto il DSM-5 che dimentico della Psicopatologia è un catalogo di Disturbi. Dovrebbe essere la Psicopatologia invece il denominatore comune, un linguaggio comune per avvicinare e dare senso alla sofferenza.
Quella esperienza della riforma psichiatrica è stata entusiasmante ma anche molto difficile. Il quotidiano far fronte alle carenze strutturali dei servizi, alle continue emergenze, non hanno permesso pause o ambiti di riflessione: l’aspetto più difficile è stato conciliare la salvaguardia degli aspetti concreti della relazione con i pazienti più gravi (casa, lavoro, tutela sociale) con la funzione curante. Non vi era una identità nella quale potersi riconoscersi pienamente. La funzione curante in psichiatria non dovrebbe essere confusa con l’assistenza.
Le nuove generazioni di operatori sono prive della conoscenza più profonda della 180; essa è entrata nella loro vita professionale solo per il lascito organizzativo dei nuovi servizi territoriali e degli SPDC, ma manca quel portato di recupero dei diritti del soggetto che questa riforma aveva sancito. Per loro sono forse solo delle strutture senza storia. Su questo diverso e ulteriore vuoto, si è andata innescando una difformità di preparazione e conoscenze, abbiamo tanti psichiatri e tanti psicologi quante sono le teorie: non si riflette e non si definisce quale psichiatra, rispetto ai malati, serva in questa società.
Su questa molteplicità di orientamenti, su questa confusione delle lingue, si è imposta la formazione biomedica attraverso le neuroscienze, attraverso gli avanzamenti pur utilissimi delle ricerche sul cervello. La standardizzazione farmacologica ha preso il sopravvento, aiutata anche dalla semplificazione dell’atto terapeutico di cui è impregnata, facilitata dall’aumento della domanda e dalla diminuzione delle risorse. Non c’è tempo nei servizi che per una rapida scelta del farmaco, che azzeri il sintomo azzerando la complessità della persona. Ma tutti gli operatori ne sono consapevoli? Mancano momenti e pause di riflessione: gli psichiatri esistenti sono stremati dal fare, e con un pensiero unico, “sistemare” il paziente e non avere problemi giudiziari. C’è una fuga dai servizi, come accade anche per i medici di MG e per i medici ospedalieri: uno su tre è insoddisfatto delle condizioni di lavoro, uno su quattro della propria vita, 10.000 hanno lasciato l’Italia e il SSN per migliori prospettive. I reparti si reggono sugli specializzandi. I riferimenti culturali sono sempre più flebili, con una formazione ed una pratica sul campo che rischia di rimanere soffocata dalla semplificazione, fino alla scomparsa della complessità insita sia nel soggetto che nelle discipline che si occupano di esso.
La genesi del dolore psichico è multifattoriale. Chiuderla in un campo piuttosto che in un altro non serve : è utile studiare le complesse relazioni che legano tra loro i vari campi, un obiettivo serio e rigoroso. Senza considerare che, con la pandemia, la situazione del disagio mentale è certamente peggiorata per tutti, soprattutto per gli adolescenti, uomini di domani.
Il tema delle risorse umane, è importante: senza di esse non è possibile attuare alcuna cura fondata sull’incontro, sull’ascolto e sul confronto, sulla relazione umana. Senza operatori, adeguatamente formati, non rimane che l’asse psicofarmaco - ricovero, che in termini di servizi si traduce in ambulatorio - SPDC - strutture residenziali.
Se oggi la situazione è così ridotta al minimo, l’apologia della 180 come difesa acritica dei suoi valori, pur restando un argomento importante, non basta più.
Oggi serve un nuovo pensiero perché i valori che difendiamo hanno a che fare con un grado enorme di complessità e quindi essi, anche per essere solo confermati, andrebbero continuamente ricontestualizzati.
Si è riflettuto molto poco sui problemi delle prassi e degli operatori, per niente sulla grande questione delle modalità operative, del problema epistemico, dei modi di conoscere. Non parliamo solo di organizzazione, questa è burocrazia; si tratta di andare oltre il solito discorso sui servizi per occuparci di prassi, di professioni, di soggetti. E’ necessario occuparsi della “sovrastruttura culturale” per un’inversione del paradigma che rimetta al centro il ruolo della ricerca scientifica, della prassi terapeutica, della formazione degli operatori e dell’identità professionale : favorire una proficua collaborazione tra politica e scienza medica per la conoscenza e la cura dell’umano.
Iniziamo a recuperare almeno due discipline dimenticate, che noi consideriamo fondamentali per mettersi in atteggiamento di ascolto, perché l’aspettativa del paziente è di essere ascoltato da qualcuno: la psicoanalisi e la fenomenologia. Per guidare l’ascolto è logico in questo campo affidarsi a discipline che teorizzino il soggetto e la sua centralità, e ci guidino con strumenti teorici e pratici nella decodificazione di comportamenti e strutture psichiche molteplici.
La psichiatria, sul modello delle scienze della natura, ha inseguito l'oggettivazione del sofferente rimuovendo la sua soggettività.
La fenomenologia riconosce l'unità dell'esistenza che si rifà all'immediatezza del mondo, della vita, delle evidenti relazioni che intercorrono tra il corpo e il mondo, e le produzioni di significato che queste relazioni esprimono. Per la psicologia fenomenologica sia il “sano” che il sofferente mentale sono dello stesso mondo: anche il sofferente presenta un certo modo di essere-nel-mondo e di progettare il mondo. Anche per la psicoanalisi la differenza tra soggetto sano e patologico non è qualitativa: siamo tutti uguali, la differenza può essere solo quantitativa, rispetto all’uso più o meno massivo di certi meccanismi difensivi o alle modalità o incidenti di percorso con cui si risale dall’infanzia alla cosiddetta maturità adulta.
La psicoanalisi è tesa riconoscere nel discorso dell’altro i segni dell’inconscio e considera i sintomi un terreno di dialogo, di un possibile allargamento di senso, senso che può essere solo unico e soggettivo.
Ho incontrato Antonello Correale quando aveva già scritto molte sue riflessioni, leggendo la prefazione alla edizione italiana del volume La psychose à rebrousse-poil di Marcel Sassolas del 1997 edito in Italia nel 2001 da Borla con il titolo La terapia delle psicosi. La funzione curante in psichiatria. In questo volume si incontrano riflessioni sull’approccio psicoterapeutico ai disturbi psichiatrici al di fuori dei protocolli psicoterapeutici classici. Attualmente si parla molto della estensione della psicoanalisi, al farla uscire dal rigido schema della terapia sul lettino, della stanza rigorosa nello spazio e nelle procedure: una psicoanalisi struttura mentale dell’analista nel suo atto analitico.
Chi ha letto di psicoanalisi ha incontrato autori come Racamier, Bion, Searles, Rosenfeld, Kohut, Kernberg, Winnicott, Conrad Stein e altri se ne aggiungono che descrivono pratiche e teorie elaborate nelle esperienze della terapia delle psicosi: da Nina Coltart a Piera Aulagnier, Anne Alvarez, allo stesso Correale, autori che partendo da Freud hanno spinto la psicoanalisi in ambiti dove lui non ha avuto certo il tempo di inoltrarsi. Continuare il percorso che Freud ha abbozzato e continuare lo studio e la ricerca sulle psicosi ha permesso di studiare la psiche universale.
Certamente non rifiutiamo la farmacologia, l’unica che sta reggendo -e purtroppo in solitudine- la cura psichiatrica attuale. Ma la funzione curante in psichiatria non può eludere il problema più importante: aiutare i pazienti gravi ad arrivare al pensiero, dall’impensabile al pensabile, aiutarli ad affrontare il dolore di pensare.
L’incontro di due personalità come Freud e Binswanger, che pian piano si sono nel tempo allontanate, è testimoniato dal carteggio trentennale tra i due autori. Binswanger incontrò Freud per la prima volta nel 1907 quando aveva 26 anni e Freud quasi il doppio. Pur nell’interesse reciproco, Freud medico e positivista era più lontano dalla dimensione filosofica e metafisica. Nel 1957 Binswanger nel volume : Analisi esistenziale, psichiatria clinica e psicanalisi, in un capitolo intitolato “Il mio cammino verso Freud”, scrive, riferendosi chiaramente alla fenomenologia : “Per la sua teoria dell’inconscio, e della intenzionalità inconscia, Freud ha reso l’uomo più vicino al mondo, e il mondo più vicino all’uomo”. Sia Binswanger che Freud fanno dell’incontro con l’altro, con il partner esistenziale la chiave autentica della azione terapeutica. Freud non ignora “l’essere l’uno con l’altro” del paziente e del medico, poiché lo ha messo al centro stesso della sua terapia e ne ha fatto il fondamento stesso della teoria fondamentale del transfert.
Bibliografia
Anne Alvarez: “Il Compagno Vivo”, Astrolabio, 1993- “Live Company”, Tavistock 199
Piera Aulagner: “La violenza della interpretazione”, Borla, 2005
Piera Aulagner: “Pensare la Psicosi”, Borla, 2001
Gaetano Benedetti: “Paziente e terapeuta nella esperienza psicotica”, Bollati Boringhieri,1991
Gaetano Benedetti: “La psicoterapia come sfida esistenziale”, Raffaello Cortina, 1997
Ludwig Binswanger: “Analisi esistenziale, psichiatria clinica e psicoanalisi”
Wilfred Bion: “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Armando, 2009
Eugenio Borgna:” L’agonia della psichiatria” Feltrinelli, 2022
Ivan Cavicchi: “Oltre la 180”, Castelvecchi, 2022
Piero Cipriano: “Basaglia e le metamorfosi della psichiatria “, Elèuthera, 2018
Nina Coltart: “Pensare L’impensabile” Raffaello Cortina
Nina Coltart: “Come sopravvivere da Psicoterapeuta”, Mimesis, 2022
Antonello Correale, L. Rinaldi: “Quale psicoanalisi per le psicosi” Raffaello Cortina, 1997
Antonello Correale, G. Berti Ceroni:” Psicoanalisi e Psichiatria” Raffaello Cortina, 1998
Antonello Correale: “La potenza delle immagini. L’eccesso di sensoriali nella psicosi, nel trauma e nel borderline”, Mimesis, 2021
Peppe Dell’Acqua: “Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni”, Stampa Alternativa ,2007
Heinz Kohut: “La cura Psicoanalitica”, Boringhieri,1986
Paolo Francesco Peloso: “Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno”, Erga edizioni, 2022
Paul Claude Racamier: “Lo psicoanalista senza divano” Raffaello Cortina, 1996
Paul Claude Racamier: “Il genio delle origini”, Raffaello Cortina, 1996
Marcel Sassolas: “La terapia delle psicosi. La funzione curante in psichiatria”, Borla, 2001
Harold Searles: “Scritti sulla schizofrenia”, Boringhieri, 1974
Giovanni Stanghellini M. Rossi Monti: “Psicologia del Patologico. Una prospettiva fenomenologico-dinamica”, Raffaello Cortina, 2009
Giovanni Stanghellini, M. Mancini: “Mondi psicopatologici. Teoria e pratica dell’intervista psicoterapeutica” Edra 2018
Giovanni Stanghellini, A. Molaro: “Storia della fenomenologia clinica” Utet 2020)
Donald W. Winnicott: “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, ultima ristampa Giunti, 2017