Dostoevskij e "I fratelli Karamazov"
seconda parte
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La morte dei bambini. Il Male Supremo
Dostoevskij rappresenta il male con l’omicidio e il parricidio ma anche con l'infanticidio, figurazione del male che occupa nello spazio giuridico, ma soprattutto pubblico, dei tragici avvenimenti del mondo attuale, uno posto terribile. egli intesse un fitto racconto di infanticidi. Dopo Freud, questo romanzo viene ricordato come il grande romanzo del Parricidio, ma se ci ricordiamo della madre, che avendo perso il suo bambino, va a fare visita allo starec Zosima, se ricordiamo tutti gli esempi di bambini sacrificati ed uccisi dalla crudeltà degli uomini, se ricordiamo la morte del piccolo Il’iuša sulla cui salma più che la benedizione di Alëša si fa sentire il grido del vecchio capitano suo padre: “Se ti dimenticherò, Gerusalemme!“, allora ”I fratelli Karamazov” si fa ricordare anche come il romanzo dell'infanticidio. Freud ha lasciato nell'ombra quello che domina in ogni piega del libro: il maltrattamento fino alla morte dei bambini, le loro enormi sofferenze che conducono il romanzo fino al bordo dell’abisso, ritorniamo con la mente al libro V, parte seconda, intitolato “Pro e Contra” dove ritroviamo le parole, già riportate, di Ivan che non vuole piegarsi davanti al Male, di cui le sofferenze dei bambini sono l’esempio più orrendo e ingiustificabile (p. 328). L’infanticidio (o l’uccisione di persone inermi) è una realtà che Ivan non accetta, mentre Alëša la santifica attribuendogli il significato di una ipotetica redenzione. L’innocenza del bambino ne fa l’ingiusta vittima del Male sia che prenda la forma astratta della fatalità, o quella, atroce, della malvagità e della perversione. Ivan racconta ad Alëša due storie che sottolineano la mostruosità di cui gli uomini sono capaci: una bambina martirizzata dai propri genitori, onorati funzionari, istruiti e ben educati, e un ragazzino sbranato da una muta di cani lanciata su di lui da un generale cui il piccolo aveva azzoppato per sbaglio un cane. Tutto davanti gli occhi della madre. La morte di un bambino, sia a causa di un delitto che di una malattia, non può avere significato religioso, Ivan la considera il capriccio crudele di un Creatore.
C'è un ulteriore avvenimento nella vita Dostoevskij, causa di un ultimo grande dolore: il 16 maggio 1878 muore Alëkseij, di tre anni, suo ultimogenito. I due genitori sono talmente sconvolti che si recano in pellegrinaggio all’eremo di Optimo, come la madre che ha perso il figlio va dallo starec Zosima.
Molte delle donne che gli s'affollavano da presso s'effondevano in lacrime di tenerezza e di gioia, provocate dalla commozione del momento; altre si gettavano a baciare almeno l'orlo di quel suo vestito, e altre litaniavano come prefiche. Egli le benedisse tutte, con qualcuna si mise a discorrere. La klikuša gli era già nota: veniva di poco lontano, da un villaggio a non più di sei miglia dal convento, e già altre volte era stata condotta qui. -Eccone una che è di lontano! - ed egli indicava una donna tutt'altro che vecchia, ma molto magra ed emaciata, non tanto abbronzata quanto, piuttosto, stranamente annerita in viso. Essa stava in ginocchio, e con lo sguardo immoto fissava lo starec. Nel suo sguardo c'era qualcosa d'attonito. - Di lontano, padre mio, di lontano, da trecento miglia di qui. Di lontano, padre, di lontano- cominciò la donna cantilenando, e dondolava lentamente la testa da una parte e dall'altra, sostenendosi la guancia col palmo della mano. Parlava come se recitasse le lamentazioni funebri. C'è nel popolo un dolore taciturno e paziente: si ritira in sé stesso, e tace. Ma c'è anche un dolore che esplode; esso dapprima prorompe in lacrime, e poi continua a colare in lamentazioni. Questo è comune soprattutto fra le donne. Ma non è un dolore piú lieve di quello taciturno. Le lamentazioni non gli danno altro ristoro fuorché quello d'esulcerare e di lacerare il cuore. È un dolore che non desidera neppure di trovar consolazione: si nutre del senso d'essere inconsolabile. Le lamentazioni sgorgano da un bisogno di rinfiammare incessantemente (p. 63)
[…]
- Ma che cosa ti fa piangere?
- Ci ho una pena di quel figlietto, padre mio: tre anni ci aveva ormai, che ancora tre mesi soli, e avrebbe compito tre anni. Di quel figlietto m'accoro tanto, padre, m'accoro tanto. tre anni. Era l’ultimo figlietto che ci restava, ché quattro ne abbiamo avuti io e Nikituška: ma non ci vivono i figli a noialtri, non ci vivono, caro, non ci vivono. I primi tre li ho messi sottoterra, e un gran dispiacere non l'ho sentito: ma quest’ultimo, da che l'ho messo sottoterra, non me lo posso scordare più. Ecco, è come se mi stesse qua davanti, non mi lascia un momento. Mi s'è succhiata l'anima. Mi casca l'occhio su quella robetta sua, su quelle camiciole, quegli scarponcini, e subito attacco a piangere. Rimetto in ordine quello che ha lasciato, ogni oggettino che ci aveva: mi ci affisso cogli occhi, e piango. Dico a Nikituška, a mio marito: lasciami andare, tu sei il capo di casa, lasciami andare in pellegrinaggio.
Quello, da che non ci sono io, ha cominciato cogli stravizi, il mio Nikituška, è cosa sicura: anche prima, appena voltavo gli occhi, subito s'ubriacava. Ma ora non penso più nemmeno a lui. Ecco qua, sono già tre mesi che sto via da casa. M'è uscito di mente, tutto m'è uscito di mente, e non mi va nemmeno di ricordarmene: già, ormai, che potrei avere a che fare con lui? È finita ogni cosa con lui, ogni cosa è finita; per me è finita con tutti. Non darei più un'occhiata a casa mia, alla mia roba, e non vorrei vedere più niente al mondo!
- Ascoltami, madre - disse lo starec.
- Una volta, ai tempi di prima, un gran santo vide nel tempio una madre come te, che piangeva, e anche lei per un suo figlioletto, l'unico che avesse, che anche quello lo aveva chiamato il Signore. ‘Ma dunque non sai’, le disse il santo, ‘quanto ardire prendono questi piccini dinanzi al trono del Signore? Non c'è nessuno più ardito di loro, nel Regno dei Cieli. Tu, Signore, ci hai donato la vita, dicono a Dio, non appena noi l'abbiamo vista, subito Tu ce l'hai ritolta. E con tanto ardimento chiedono e domandano, che il Signore concede loro senz'altro il grado di angeli.
- Perciò, - disse quel santo, - anche tu rallegrati, o donna, e non piangere: ché anche il piccino tuo, ora, sta col Signore, nell'accolta dei suoi angeli.’-
Ecco che disse quel santo a quella donna piangente, nei tempi antichi. E quello era un santo grandissimo, che cose non vere non poteva dirgliele. Per tutto questo, sappi anche tu, o madre, che anche il piccino tuo ora sta certamente dinanzi al trono - rallegra e gioisce, e prega Iddio per te. E dunque anche tu non piangere, ma anzi rallegrati. -
La donna lo ascoltava, puntellandosi colla mano la guancia e tenendo gli occhi a terra. Essa diede un profondo sospiro. - E così anche Nikituška mi consolava sempre, mi diceva tutta una parola con te: - Tu non ragioni,- mi diceva: - perché piangi? il figlietto nostro, adesso, sta di sicuro accanto al Signore, a cantare in coro cogli angeli - Mi diceva così, ma intanto anche lui piangeva, io lo vedevo, piangeva tal e quale a me. - Lo so anch’io -, gli rispondo, - Nikituška mio: dove vuoi che si trovi, per forza sta accanto al Signore; ma qui, però, con noialtri, Nikituška mio, adesso lui non c'è più, qui accanto a noi, come stava allora!
- E se io potessi solamente vederlo una volta e non più, quanto una piccola volta posare un'occhiata su lui, non pretenderei nemmeno di accostarmigli, non fiaterei, mi acquatterei in un cantuccio, basta che per un minuto solo potessi vederlo, sentirlo, come giocava in cortile, e poi veniva lì, gridava con quella vocetta: -Mammina, dove sei? - M'accontenterei di sentirlo per quella stanza come passava coi suoi piedini, quanto un momento, un momentino solo, che con quei piedini faceva tuc-tuc, e mi ricordo che ogni poco, ogni poco lo sentivo così, che correva da me, gridava e rideva; m'accontenterei di risentire i suoi piedini, basta di risentirli, di riconoscerli! Ma lui non c'è più, padre mio, non c'è più, e non lo risentirò più mai! Ecco qua il suo cinturino: ma lui, lui non c'è più, mai più, di qui in avanti, non lo rivedrò, non lo sentirò! -
Aveva estratto dalla bisaccia il piccolo cinturino di passamano, ch'era stato del suo bambino, posatoci appena lo sguardo, cominciò a sussultar fra i singhiozzi, coprendosi con le dita gli occhi, da cui le scorrevano giù, zampillate di colpo a torrenti, le lacrime.
- E così, - disse lo starec: - è l'antica Rachele che piange i suoi figli, non può consolarsi, perché essi non esistono più (Geremia 31,15). Questo, o madri, è il destino che vi è assegnato sulla terra. E non consolarti, non bisogna nemmeno che tu ti consoli: non consolarti, e piangi, purché ogni volta che piangerai ti ricordi sempre che il figliolino tuo è uno degli angeli del Signore, e di lassù ti guarda e ti vede e le lacrime tue lo fanno contento e lui le mostra al Signore, E ancora per un pezzo ti seguiterà questo gran pianto materno; ma alla fine ti si convertirà in pace e gioia, e queste tue lacrime amare diverranno lacrime di calma tenerezza e d'intima purificazione, che ti preserverà dai peccati. E il tuo bambinetto, io lo ricorderò nella messa dei defunti: come si chiamava? - (pp. 65 - 67)
Di ritorno dal pellegrinaggio Dostoevskij si lancia nella scrittura del suo ultimo romanzo, quasi a immettervi tutti i suoi traumi e lutti. Così il cerchio si chiude, si chiude la catena delle colpe profonde: pensando di aver ucciso suo padre si accusa ora di aver ucciso suo figlio. Sembra che lo scrittore a 57 anni, mentre scrive il suo ultimo libro, sia, nel suo intimo, quel ragazzo che ha desiderato che suo padre morisse, ma anche il padre addolorato e colpevole che di fronte alle spoglie del figlio è costretto a riveder tutta la sua vita.
Per Dostoevskij dunque il male è insito nel profondo della natura umana, la sua origine è interiore. Egli rifiuta l’idea esteriore del male e del delitto come esito di un ambiente sociale e non ripudia il castigo. Non accetta un’idea positiva e umanitaria del delitto e della pena perché negherebbe la profondità della natura dell’uomo, la libertà dello spirito e la responsabilità. Se l’uomo è solo il riflesso passivo dell’ambiente esterno, non sarebbe responsabile, non ci sarebbe l’uomo, né Dio, né libertà, né bene, né male. Egli condanna il male e vorrebbe eliminarlo, ma come distruggerlo se fa parte dell’uomo? È il destino ineluttabile dell’uomo, la sua via tragica. L’uomo deve essere sempre consapevole del male che è in lui, immanente. Qualsiasi parola Dostoevskij adoperi per descrivere lo scandalo del male, in esso rimane intoccato il suo carattere di aporia, di difficoltà irrisolvibile ad essere compreso. Si dimostra qui l’ambivalenza segreta dell’immaginario dello scrittore, costretto tra il senso di colpa per la morte dell’odiato padre e il dolore per la morte dell’amato figlio Alëkseij di tre anni. Egli è convinto che sia morto per un attacco epilettico, vittima quindi di un male che lui gli ha trasmesso.
La conoscenza del male, sempre presente in ogni uomo, è quella che Freud propone come unico tentativo di liberarsi dal male quando dice: “Solo chi conosce l’incesto o il parricidio che abita in lui può tentare di dominare e liberarsi dal male.”
Il male non si elimina con la punizione dall’esterno, esso provoca travagli interiori insormontabili che durano fino alla morte dell’individuo. I tormenti interiori sono molto peggiori di quelli inflitti dallo Stato. Nella istruttoria e nel processo di Dimitrij, Dostoevskij fa vedere l’ingiustizia della legge esterna. L’anima non si ribella alla legge dello stato anche se apparentemente ingiusta, anzi si presta ai suoi colpi. In questo risiede il suo essere cristiano.
L’opposizione dei contrari
Due anime si confrontano in Dostoevskij come abbiamo letto, nel capitolo “Pro e Contra”: quella cui da voce Alëša, della riconciliazione, della speranza della resurrezione, della salvezza nel Cristo, della certezza ritrovata; l’altra cui da voce Ivan, la voce della lacerazione del rivoltoso, spinta dall'inammissibile sofferenza infantile, grido soffocato dall’armonia dall’apparenza menzognera delle ultime pagine del romanzo.
Il mondo dello scrittore tesse una trama sempre dialogica: Ivan e Alëša, Il Cristo e il Grande Inquisitore, in una polifonia che lo porta con ironia in una sorta di ambivalenza: non c’è al mondo nulla di definitivo. Dostoevskij descrive, in fondo, il tempo del nichilismo, che anche noi viviamo, di cui i bambini sono le vittime scelte; il terrorismo planetario ammantato di religione che fa diventare i bambini soldati bomba per altri bambini, il traffico di organi, il crimine sessuale generalizzato (pedofilia, schiavitù sessuale), l’estorsione sentimentale della spettacolarizzazione (la malattia e la morte dei bambini che diventa speculazione televisiva). Egli racconta di donne maltrattate: le due mogli del vecchio Karamazov e Lizateva. È un’apocalisse sinistra che il romanzo profetizza. In un mondo come questo, cosa può fare il romanzo? Può mantenere viva l’attenzione, conservare al male e alla morte di un bambino il profondo senso di vertigine che l’accompagna.
Idee come dialettica concettuale
La voce umana nasce dal dialogo e lo scrittore se ne serve per far dialogare l’alterità, il contraddittorio, l’identificazione e la confusione, il doppio e il dissimile. Le idee hanno una parte centrale nelle opere di Dostoevskij. Accanto ad una capacità psicologica eccezionale, un tratteggio dei personaggi rilevante, una parte non meno importante è occupata dalla dialettica concettuale. Queste idee hanno una vita dinamica con un ritmo senza sosta, all’interno di una vita infuocata e contraddittoria. Esse non sono essenze o prototipi, sono lontane dal mondo delle idee di Platone: sono i destini dell’essere. I dialoghi dei suoi romanzi sono una dialettica delle idee: riguardano problemi universali. Ciò ha fatto di lui il difensore degli ultimi, degli umiliati e offesi, ma anche il genio crudele, o il profeta del cristianesimo, e ancora il grande conoscitore del lato oscuro dell’uomo, un autentico ortodosso e tessitore dell’idea messianica russa. Non vi è un’idea unitaria in Dostoevskij, egli rimane un enigma, come l’uomo stesso. E la sua epilessia non è solo una malattia ma quasi l’emblema della profondità dello spirito. Un tremore del corpo che si trasforma in un tremore dello spirito. Ma il suo spirito alla fine è positivo, il suo pathos afferma, non nega, poiché ha accettato l’uomo, il mondo, Dio, attraverso tutte le pene del dubbio, del dualismo e soprattutto passando attraverso le tenebre. Nel suo mondo tutto si concentra intorno all’uomo, unico interesse, tutto ruota intorno a questo asse, in un turbine appassionato di rapporti rendendo lo scrittore un grande antropologo della natura umana. Scopre che la natura umana è contraddittoria, antinomica, irrazionale: nell’uomo c’è una tendenza insopprimibile all’irrazionale, a una libertà folle, al dolore. E nell’irrazionalità e nella follia si colloca la libertà che induce a oltrepassare i limiti. Egli segue l’uomo nel suo cammino libero, caratterizzato da un individualismo estremo. E tale libertà smisurata tormenta l’uomo e lo conduce al dolore: Il burrascoso conflitto tra la luce e la tenebra, tra il divino e il diabolico. Dostoevskij fa dire ad un personaggio de “L’Idiota”: “Quale bellezza salverà il mondo?” Non la bellezza divina e quieta dell’idea platonica, bensì quella del moto infuocato, del tragico scontro. La bellezza, per lui si rivela nell’uomo e non c’è quiete nell’uomo. La bellezza è la visione dell’invisibile nel visibile.
Il libero arbitrio
Comprende che l’uomo è terribilmente libero e che questa libertà è tragica, un fardello doloroso. La sua opera si colloca al confine ultimo dell’umanesimo razionalistico. Ha pensieri geniali sulla libertà: studia il destino dell’uomo lasciato in libertà. L’effetto dell’uomo sulla libertà e della libertà sull’uomo. La libertà non può essere identificata con il bene, la verità, la perfezione ma ha la sua natura originale. Confondere la libertà con il bene stesso e la perfezione, equivale a negarla. Ci dice che il bene libero, che è l’unico bene, presuppone la libertà del male. In ciò è la tragedia della libertà secondo Dostoevskij che lascia percorrere all’uomo tutta la via, anche se essa passa attraverso le tenebre, l’abisso, lo sdoppiamento, la tragedia. Ma è una via di prova in cui si esperisce il bene e il male. È quello che fa dire allo starec Zosima, quando consiglia a Alëša di non chiudersi in convento ma di vivere nel mondo e fare tutte le esperienze. La libertà di cui parla Dostoevskij è una manifestazione dello spirito nuovo. I suoi personaggi ne sono i testimoni. La sua tragedia è un inno alla libertà.
La vita potrebbe essere facilitata? Certo: limitando o sopprimendo la libertà umana; questo è il contenuto del discorso del grande inquisitore. Il modo in cui si può fiaccare la libertà, il processo di degenerazione della libertà attraverso il dispotismo illuminato, occupa un posto importante nella concezione di Dostoevskij. Molte cose egli ha visto per primo, e più lontano di altri. È stato oracolo di come la rivoluzione, che intuiva serpeggiare nel sottosuolo russo, non avrebbe portato alla libertà, ma poteva far nascere un movimento diretto ad asservire lo spirito umano. Aveva intuito questo e lo scrive nel discorso dispotico, illuminato, del Grande Inquisitore in cui afferma che si può rinunciare alla libertà per una piccola felicità. L’uomo avrebbe la tendenza a spaventarsi della libertà e preferirebbe rifugiarsi in un’organizzazione di felicità forzata e imposta da fuori di lui. Gli uomini liberi sono costretti a confrontarsi con il male e con la scelta tra il bene è il male; gli schiavi non hanno questo privilegio; solo un grande strazio proveniente dal male può condurre l’uomo ad elevarsi. Ma Dostoevskij ci dice che anche colui che nell’arbitrio non riconosce i suoi limiti, perde la libertà, è ossessionato da una idea grandiosa che lo rende comunque schiavo.
Libertà dalla libertà
La leggenda del Grande Inquisitore si trova tra la prima e la seconda parte del romanzo: la forza attrattiva di questa parte non è diminuita nel tempo poiché tratta di questioni ineludibili, questioni costituzionali, che si rinnovano col passare delle epoche: la libertà di fronte al bene e al male, benedizione o maledizione, il nichilismo, la violenza, la felicità e la infelicità degli uomini, il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato. Il cristianesimo, il socialismo come controllo delle coscienze, la religione e l’ateismo. Quando fu scritta, nella Russia della metà dell’ottocento, sembrò una farneticazione letteraria; in seguito fu condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico, antimoderno, quasi una restaurazione. Poi, alla luce degli sviluppi storici, politici, sociali del 900, fu giudicata una previsione ante litteram e una condanna dei totalitarismi, un ammonimento profetico. Ora, ciò che preannunciava è ormai dispiegato davanti i nostri occhi e la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata come una previsione apocalittica, una profezia di sventura del nostro presente.
Il racconto è un discorso sul governare, e spiega come nasce l’obbedienza degli esseri umani. L’idea dell’Inquisitore è spaventosa: l’obbedienza nasce dall'odio per la libertà. Egli declina la servitù volontaria: vi è una ragione di stato e una ragione del volgo; vi è una doppia legge: quella che riguarda i governanti e quella che riguarda i governati. Gli interessi superiori dello stato devono essere nascosti ai comuni mortali e riguardano decisioni importanti come la sopravvivenza, la difesa, la salute, l’organizzazione sociale; il volgo è incapace di visioni veramente politiche. Il racconto è situato nel XVI secolo e l’Inquisitore si presenta come umano, sembra stare più dalla parte del volgo, il suo appare come un governo benigno per loro, per i poveri uomini: si pensa a come sedurre il volgo, o per usare una espressione di Tocqueville, si “costruisce un potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite”, che ottiene l’obbedienza senza usare la violenza. Insomma il grande Inquisitore è un rassicuratore che vuole essere amico di tutti. È infelice perché sa, mentre il volgo è felice perché non sa. Il suo compito è assecondare: il potere potrebbe essere assoluto se non si proponesse di cambiare o di punire o frenare la natura umana; un potere illuminato conosce la natura umana e non vuole svegliarla ma addormentarla perché non debba trovarsi dinanzi alla scelta tra il bene e il male, cioè di fronte alla libertà. I suoi argomenti ci possono sembrare molto familiari, utili a farci riflettere sulla vita sociale e politica del nostro tempo presente.
La leggenda è posta nel punto cruciale in cui due drammi si incrociano: i due fratelli più spirituali cominciano la loro conoscenza. Ivan fa un monologo nichilista mentre Alëša silente lo ascolta, quasi un doppio della scena dell’inquisitore che parla e il Cristo che non parla mai. Questo faccia a faccia rispecchia le posizioni correnti dei circoli intellettuali del tempo, cioè la tendenza atea e occidantelizzante impersonata da Ivan, l’intellettuale che guarda ad occidente, e l’ortodossia nazionale del cristianesimo russo impersonata da Alëša, il pupillo dello starec Zosima. Andiamo al racconto: siamo nella Siviglia del cinquecento, davanti alla cattedrale dove è radunata una folla brulicante: il giorno precedente, ordinato dalla santa inquisizione, c’è stato il rogo di un centinaio di eretici. Compare una figura, il Cristo. Nessuno lo nomina ma tale è la sua presenza che tutti lo riconoscono. Qui prende avvio la storia che vedrà contrapposti l’Inquisitore, cioè il potere, e il Cristo subito fatto prigioniero, muto memento del discorso messianico di una salvezza futura. Si avvia il discorso dell’Inquisitore, che lo va a trovare in cella, discorso cui si oppone il silenzio del Cristo. Il discorso e il racconto si chiudono con il bacio del Cristo all’inquisitore. La prima cosa che l’inquisitore rimprovera è il ritorno “intermedio” di Cristo, che definisce uno scandalo: - Tu non hai neppure il diritto di aggiungere qualcosa a quello che già è stato detto da Te in precedenza.” -
L’annuncio del Cristo si è risolto ed esaurito tutto nel messaggio evangelico. Non può il Cristo ritornare e aggiungere qualcosa, perché metterebbe in discussione l’autorità della Chiesa-Istituzione. Ciò che è detto, è detto per sempre. Non c’è posto per un ritorno.
La Chiesa qui è vista come una istituzione di potere religioso che ha abbandonato la libertà cristiana e l’ha sostituita con la felicità mondana. E il socialismo incipiente di allora pensa la stessa cosa, per cui non è impensabile un’alleanza fra i due. Dostoevskij sta dalla parte del Cristo, della libertà in Cristo, dalla parte di Alëša, per lui la felicità non è realizzabile sulla terra. O meglio è possibile al solo prezzo dell’abbandono della libertà che viene trasformata in qualcosa di preumano (come dice G. Zagrebelskij) una specie di incoscienza, come negli animali. Questa felicità disumana, subumana, porta alla idea che il dolore è imprescindibile dall’uomo. La felicità si può avere, una piccola felicità si può ottenere con la seduzione dell’uomo attraverso la società del benessere: costringeremo gli uomini a lavorare (dice l’Inquisitore), ma nel tempo libero daremo loro modo di occuparsi in maniera piacevole; noi daremo loro una felicità da esseri deboli, quali essi sono.
La via della libertà è così faticosa, così tragica poiché conduce l’uomo ad una continua e inevitabile scelta dilaniante, esponendolo al rischio della frattura e frantumazione: Dostoevskij riesce a sdoppiare l’essere umano con grande capacità psicologica. L’opera dà autorevolezza alle parole che descrivono lo spingersi fino al limite dell’essere nel mondo: “Nella mia vita ho solo portato alle estreme conseguenze ciò che voi non avete osato condurre neppure a metà, prendendo oltretutto per buonsenso la vostra viltà”. ("Memorie dal sottosuolo", 1864).
“Il sottosuolo non è al di fuori di noi, è dentro di noi: sdoppiati lo siamo, nella quotidianità, per separazione stagna.” (J. Kristeva, 2020)
Scissione e proiezione
Psicoanalista ante litteram Dostoevskij intuisce e trasforma in racconto suggestivo le modalità di difesa dell’uomo rispetto a verità insopportabili: la scissione e la proiezione sono le difese, descritte dalla psicanalisi, messe in atto dalla psiche, per placare gli animi sofferenti che non accettano la presenza del male dentro di loro. L’uomo si spezza e proietta la parte malvagia fuori da sé, dando origine alla follia. Il male scinde in due, una parte non accetta l’altra e la proietta al di fuori di sé: vediamo Ivan e il diavolo, nella scena della sua pazzia altrettanto splendida, il diavolo come personificazione del male che è dentro Ivan: il diavolo, incubo di Ivan Fëdorovič.
Io non sono dottore, ma sento ch'è arrivato il momento in cui è assolutamente necessario ch'io dia per lo meno qualche chiarimento al lettore sulla natura della malattia d'Ivan Fëdorovič. Anticipando sul corso degli avvenimenti, dirò soltanto una cosa: che egli si trovava, stasera, per l'appunto alla vigilia del delirio cerebrale, che fini con l'impossessarsi totalmente del suo organismo, da tanto tempo ormai sconvolto, e tuttavia ostinatamente resistente al male. Del tutto ignaro di cose mediche, m'arrischio a supporre che egli, realmente, era forse riuscito, con un terribile sforzo di volontà, a procrastinare di qualche tempo l'accesso, immaginando (s'intende) di aver completamente soggiogato il male. Sapeva, egli, di non star bene; ma gli ripugnava, non voleva esser malato ora, mentre s'approssimavano quei fatali momenti della sua vita, in cui conveniva agire a viso aperto, dire le proprie cose francamente e recisamente, e soprattutto ‘giustificarsi di fronte a sé stesso’. Si era, del resto, recato una volta da quel dottore arrivato di fresco da Mosca, chiamato da Katerina Ivanovna per una di quelle sue fantasie, a cui ho già accennato sopra: e il dottore, ascoltatolo ed esaminatolo, aveva concluso ch'egli era affetto da una specie di perturbamento cerebrale, non s'era meravigliato punto di certa confessione che l'altro, seppur con ripugnanza, s'era indotto a fargli.
- Allucinazioni, nelle vostre condizioni, sono più che possibili - aveva diagnosticato il dottore, - anche se bisognerebbe verificarle ... - In ogni modo, è necessario imprendere seriamente una cura, senza perdere un istante, O sarà peggio. - Ma Ivan Fëdorovič, una volta separatosi dal dottore, non seguì quel saggio consiglio e sdegnò di sottoporsi a una cura: “Finché la reggo, ecco qua, tiro avanti; quando cascherò giù, allora sarà un altro affare, e che mi curi pure chi vuole”, decise con un gesto di noncuranza. E così, ora, stava lì seduto, sentendo confusamente egli stesso d'essere in preda al delirio, mentre, come s'è detto, ostinatamente tornava a sogguardare qualche cosa alla parete di fronte, sul divano. Là apparì a un tratto un uomo, Dio sa come entrato qui dentro, giacché nella stanza non c'era quando Ivan Fëdorovič, di ritorno da Smerdjakov, ci aveva posto piede.
Si levò a un tratto su dal tavolo Ivan Fedorovič. - Io ora sto come in un delirio ... già, non dev'essere che un delirio ... inventa quante trappole vuoi, che non me n'importa niente! Non ci riuscirai a farmi andar sulle furie, come l’ultima volta. Ho solo un senso di vergogna … Voglio camminar per la stanza ... A volte, non ti vedo, e neppur odo la voce tua. Era costui un signore, o, per dir meglio, un tipo caratteristico di gentiluomo russo, non più giovane, qui frisait la cinquantaine (direbbero i francesi), con una brizzolatura non molto accentuata sui capelli scuri, piuttosto lungi e ancor folti, e sulla barbetta tagliata a cuneo. Indossava una specie di giacca da casa color cannella, di fattura evidentemente eccellente, ma un po' troppo portata; confezionata, a occhio e croce, un tre anni prima, e ormai completamente fuori moda, sicché da un paio d'anni nessuna agiata persona di mondo ne portava di simili. La biancheria, la lunga cravatta a mo' di sciarpa, erano in tutto e per tutto, di quelle che portano tutti i gentiluomini eleganti; ma, a guardar da vicino, la biancheria era sporchetta, e l'ampia sciarpa era molto lisa. I calzoni dell'ospite, a quadretti, cadevano a pennello, ma erano, anch'essi, troppo chiari e direi troppo attillati, come ormai non si portavano più; allo stesso modo che il molle berretto di pelo bianco, che l'ospite se messo in capo, troppo fuor di stagione. In una parola, si aveva la sensazione d'un'accuratezza alle prese con modestissime possibilità finanziarie. Veniva fatto di pensare che il gentiluomo appartenesse alla categoria degli oziosi ex possidenti, fioriti al tempo della servitù della gleba; uno che evidentemente avesse conosciuto il mondo e la buona società, che avesse, dai dì d’allora, avesse avuto relazioni e magari le avessi mantenute fino ad oggi, ma assumendo insensibilmente, impoverito dalla vita allegra degli anni giovanili e dal recente abolizione della servitù, certe maniere da parassita di classe, sempre in giro presso le buone vecchie conoscenze, che lo accolgono volentieri per il suo carattere affabile e duttile, e anche in vista del fatto che si tratta pur sempre d’un uomo distinto che può addirittura far comodo tenere alla propria tavola seppure, alla fin fine, in un posto modesto.
Senti, - l'ultima volta; ma sempre indovino quel che macini, perché é son io, son io che parlo, e non tu! Soltanto, non saprei se dormivo l’ultima volta, o ti ho visto sveglio ... Ora inzuppo l'asciugamano nell'acqua fredda me lo applico in testa, e vedrai che tu andrai in fumo. Ivan Fëdorovič andò nel cantone, prese l'asciugamano, fece come aveva detto, e coll'asciugamano bagnato sul capo si mise ad andar su e giù per la stanza.
- Mi piace che, tra noi, ci siamo subito dati del tu, - azzardò l'ospite.
- Stupido, - scoppiò a ridere Ivan, - proprio del voi, proprio, mi metterò a darti! Io ora mi sento allegro; se non mi facessero male le tempie ... e questa nuca ... Fammi soltanto il piacere di non metterti a filosofeggiare, come l'ultima volta. Se non puoi levarti dai piedi, almeno inventa qualche cosa allegra! Chiacchiera: tu sei un parassita, e dunque chiacchiera. Mi si sta addensando intorno uno di quegl'incubi! Ma di te non ho paura. Io riuscirò a dominarti. Non mi porteranno al manicomio!
- C’est charmant: un parassita! Sì, mi ci riconosco perfettamente. E chi sono io sulla terra, se non un parassita? A proposito: io ti sto ascoltando e provo una certa sorpresa: per Dio, si direbbe che tu a poco a poco cominci, ormai, a riconoscermi per qualcosa di reale, ben altro che una tua pura fantasia, come tenesti duro la volta scorsa ...
- Neanche un istante ti riconosco per una verità reale! - gridò Ivan, addirittura furente. Tu sei una menzogna, tu sei una mia malattia, tu sei un fantasma. Soltanto non so come fare a distruggerti, e vedo ch'è necessario che io per un po' ti sopporti. Tu sei una mia allucinazione. Sei una incarnazione di me stesso, ma d'una parte sola di me stesso... dei miei pensieri, dei miei sentimenti, ma solo di quelli più ripugnanti e più stupidi. (pp. 833 - 835)
Il diavolo in Dostoevskij non è mai un uomo bellissimo e seducente. Non si manifesta come un angelo decaduto, splendente nella sua luce infernale di un fuoco ardente e seducente, un angelo dalle ali infuocate; è invece una specie di gentiluomo con gli abiti vecchiotti e consumati, un po’ sporchetto, ha l’aria del parassita, buon conversatore tollerato alle tavole dei ricchi e dei nobili, assomiglia un po’ al vecchio Karamazov.
Conclusioni
“Si può amare Dosto?” si chiede Julia Kristeva. Domanda retorica naturalmente. Racconta di averlo amato immediatamente, da quando, giovanissima, lo lesse di nascosto a causa delle proibizioni paterne. Non si può avere opinione diversa. Leggendo le opere di questo grande scrittore si incontra con meraviglia “la rivoluzione psichica della materia”, tanto da perdere la cognizione storica dell’epoca di stesura. Si prova uno spaesamento che conduce in uno spazio temporale eterno, dove il russo e Freud sono contemporanei. Mancano ancora anni alla comparsa della “Metapsicologia” di Freud in cui si concettualizza una tale rivoluzione (Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, 1911). Molto tempo prima Dostoevskij aveva trasformato le crisi epilettiche in parola e motore di pensiero. Aveva realizzato che l’esplosione epilettica, le sue aure, i suoi dolori e le paure potevano metterlo in contatto con una dimensione essenziale della condizione umana: la presa e la perdita della coscienza. Tutti i suoi romanzi sono pervasi da una infinita, empatica, compassione per l’uomo e per il suo tragico destino. “L’uomo è vasto, sin troppo vasto, io lo restringerei”, afferma Dimitrij. La grandezza o la miseria dei personaggi è soffusa e intrisa d’inconscio ed è questa caratteristica che li rende perenni. Leggendone le sofferenze e i conflitti ritroviamo i punti di repere della clinica psicanalitica: il trauma, il fantasma, la perversione e la follia. Dostoevskij non conosceva il fantasma come Freud lo concettualizzerà più avanti, ma ugualmente percorre insieme ai suoi personaggi la sottile linea che separa le creazioni letterarie e il precipizio delle azioni. Nell’ottocento dominava un certo ottimismo idealistico e un’idea positivistica di progresso dell’umanità; lo scrittore invece, in quel medesimo tempo, ha il lampo folgorante che illumina una realtà umana ineludibile, fatta di dolore, di peccato, di sofferenza, invidia, gelosia, insomma, di male. Egli mette a nudo tutto ciò che nell’uomo non può essere migliorato da una spiritualità edulcorata, proprio perché la materia di cui è impastato l’uomo contiene un intrico di pulsionalità e desiderio. Dostoevskij pone di fronte ai nostri occhi la pervicace forza autodistruttiva e distruttiva dell’uomo, che Freud concettualizzerà come pulsione di morte. È una teoria ipocrita quella che sostiene che basti conoscere il bene per farlo. Anzi la conoscenza del bene porta a trasgredire, è istigazione e tentazione a commettere il male. La condizione umana essenzialmente tragica è dipinta: l’uomo dispiega nelle sue azioni, con il suo arbitrio e indipendenza, il desiderio e la pulsione che lo porteranno direttamente verso l’infelicità. Per Dostoevskij, in questo romanzo, l’idea di salvezza, il suo polo positivo, risiede nella figura luminosa del Cristo, supremo ideale cui l’uomo deve guardare, Cristo il verbo incarnato, Cristo l’uomo che ha sofferto, che ha accettato in silenzio la sofferenza per riscattare i mali del mondo. Cristo che risuscita dal mondo dei morti Lazzaro e la fanciulla nella leggenda del Grande Inquisitore, per non dimenticare la sua stessa vittoria sulla morte poiché egli è resuscitato. Freud, laico, positivistico, non ha un simile credo e speranza ma ci dice, che se conosce il male dentro di sé, l’uomo può essere consapevolmente capace di astenersene.
“I quattro Karamazov sono l’emblema della umanità tutta, un crogiolo di bene e di male, demoniaca e angelica insieme, destinata alla perdizione e alla salvezza, all’abiezione definitiva nel male e alla redenzione finale nella sofferenza “(Luigi Pareyson, 1993), al punto che perfino il serafico Alëša afferma: “I miei fratelli si perdono, e mio padre anche.” …” È la forza fangosa dei Karamazov, una forza fatta di fango”. “Non so nemmeno se al di sopra di questa forza aleggi lo spirito divino. So soltanto che anch’io sono un Karamazov.” In epigrafe ai Fratelli Karamazov troviamo la frase tratta dal Vangelo secondo Giovanni: “Se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Alla fine del romanzo, sembra che il piccolo Il’juša rappresenti proprio quel chicco che, morto, produce il frutto dell’armonia attraverso il coro dei suoi compagni che si prendono per mano gioiosi e si avviano a riprendere fiduciosi la loro vita.
Ho citato, nelle righe di questo elaborato, e ho riportato nella bibliografia, numerosi critici e scrittori che si sono occupati del “gigante russo”. Sono tantissimi, a mostrare la spinta propulsiva di questo scrittore, a rimanere attratti dalla sua opera, dalla genialità e acuta osservazione pre-freudiana, tanti a commentare, riga per riga i suoi scritti. Tra loro vorrei portare un piacevole esempio della sua influenza in letteratura per me insospettabile: Virginia Woolf, che ha subìto un fascino talmente coinvolgente dall’opera di Dostoevskij, da introdurre mutamenti nel suo modo di scrivere dopo averlo letto.
Nel 1910 Constance Garnett, nuora di Richard Garnet, scrittore, critico letterario e bibliotecario del British Museum, consegnava all’editore Heimann, dopo un faticoso e appassionato lavoro, la traduzione de “I Fratelli Karamazov”. Da quell’anno in poi il culto di Dostoevskij si estese a tutto il mondo culturale anglofono: figure, linguaggi e trame completamente diversi da quella cultura, in un periodo in cui noti avvenimenti si apprestavano a capovolgere la storia della Russia. La lettura di opere russe imponeva agli inglesi uno sguardo diverso sulla esperienza umana e su come essa venisse trasfusa in racconto. Cosi, “il punto di vista russo” diviene un tema di riflessione della Woolf che inizia la sua critica verso scrittori edoardiani come H.G. Wells, John Galsworthy e Arnold Bennett accusati di mancanza di profondità: i loro libri erano cosi ben costruiti che sembrava impossibile capire dove fosse la crepa, la fenditura da cui potesse passare uno soffio d’aria. Gli scritti di questi autori erano perfetti e formalmente gradevoli: “Ma … se la vita si rifiutasse di andarci a vivere?” (V. Woolf, 2015). Le parole di V. Woolf creano metafore suggestive per descrivere l’effetto che in lei produceva il narrare di Dostoevskij: “I romanzi di Dostoevskij son vortici ribollenti, mulinelli di sabbia in una tempesta, trombe d’acqua che sibilano e gorgogliano e ci risucchiano. Sono composti puramente e completamente della materia dell’anima. Veniamo inghiottiti contro la nostra volontà, presi nel vortice, accecati, soffocati, e allo stesso tempo riempiti di un’estasi che ci stordisce “
Il “Punto di vista russo” di Virginia Woolf infine comparve su “The Common Reader” nel 1925, a pochi mesi dalla pubblicazione di “Mrs Dalloway”, sicuramente influenzato dall’approccio e dallo studio dei russi da parte della scrittrice. I romanzi di Dostoevskij, ci dice V. Wolf, affascinano gli inglesi, ma questi, pur subendo il suo fascino, scrivono sotto la pressione costante delle barriere tra le classi, che in Dostoevskij non c’è, poiché egli descrive l’Uomo e l’Uomo, per lui, è il popolo russo. Allo scrittore inglese viene imposto un ordine e una forma: è incline alla satira più che alla compassione, alla disamina della società piuttosto che alla comprensione degli individui stessi.
“Unico tra gli scrittori Dostoevskij ha il potere di ricostruire tutti gli stati mentali repentini e complicati, di ripensare l’intero flusso delle idee in tutta la sua velocità, simile ad un treno mentre appare in un lampo di luce, per poi sbandare nella oscurità subito dopo; perché lui è in grado di seguire non solo la vena scoperta del pensiero compiuto, ma anche di suggerire il sommerso più offuscato della coscienza. “
Bibliografia
- Tutti i passi del romanzo “I Fratelli Karamazov” sono tratti dalla edizione Einaudi – collana I Millenni - 2007- traduzione di Agostino Villa. Il volume contiene, come una sorta di prefazione, il saggio di Freud “Dostoevskij e il Parricidio”
- Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, 2002
- Nikolaj Berdjaev, La concezione Dostoevskij, Einaudi 2002
- Heitor O’Dwyer De Macedo, Os ensinamentos da loucura, a clínica de Dostoevskij, Säo Paulo, Perspectiva, 2014
- Claudia Di Natale, Dostoevskij. Equilibri precari sul filo della creazione, Albatros
- Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Einaudi, 2014
- Fëdor Dostoevskij, Lettere, Il Saggiatore, 2020
- Philippe Forest, Le Roman Infanticide: Dostoevskij, Faulkner, Camus, Éditions Cécile Defaut, 2010
- Anna Grigór’evna Dostoéavskaja, Dostoevskij mio marito, Castelvecchi, 2018
- Hideo Kobayashi, Literary Criticism, 1924-39, Stanford University Presse, 1995
- Julia Kristeva, Dostoevskij. Lo scrittore della mia vita, Donzelli, 2020
- Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, 1993
- Philippe Sollers, Théories des exceptions, Gallimard, Paris, 1986
- Gustavo Zagrebelsky, La leggenda del Grande Inquisitore, A cura di Gabriella Caramore - coll. Uomini e Profeti, Morcelliana, 2003
- Gustavo Zagrebelsky, Liberi servi: Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere, Einaudi, 2015
- Virginia Woolf, L’anima russa. Dostoevskij, Čechov, Tolstoj, Lit Edizioni Srl, 2015