Freud e i tormenti della letteratura
Freud e i tormenti della letteratura
Invito alla lettura di S. Freud, I racconti analitici, Einaudi, 2011, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto
Se gli psicoanalisti hanno per un certo tempo trattato il testo letterario come un sintomo, riducendo la biografia dell'autore a una patografia, oggi sanno che si tratta non di applicare la psicoanalisi fuori dalla cura ma di co-implicare psicoanalisi e altri campi del sapere, facendoli interagire tra di loro. Questa interazione comporta che la psicoanalisi interroghi il proprio statuto epistemologico, cioè il proprio modo di produrre conoscenza.
"Interpretare l'arte è ciò che Freud ha sempre [...] ripudiato; ciò che si chiama psicoanalisi dell'arte è ancor più da scartare della famosa psicologia dell'arte, che è una nozione delirante. Dell'arte, noi dobbiamo prendere il seme" (Lacan, 1974)
Prendere il seme: cioè apprendere dall'arte qualcosa. Qualcosa che ci riguarda, che tocca le peripezie e i misteri del nostro essere soggetti.
Nessun dubbio che la letteratura sia inscritta nel cuore della teoria freudiana, nell'origine e nell'elaborazione dei concetti e, soprattutto, nella concezione del linguaggio e della sua stessa pratica. "Aggiungete del metodo scientifico a Shakespeare e otterrete della psicoanalisi", ha detto in modo scherzoso lo psicoanalista inglese Adam Phillips.
Certo è che la letteratura rappresenta per la psicoanalisi una specie di Unheimliche, di inquietante estraneità, che offusca e confonde i contorni della patria psicoanalitica - heimat -, obbligandola costantemente a ripensarli.
È in questa logica che va preso il volume sui Racconti analitici di Freud e l'operazione editoriale che con l'intelligenza che gli è consueta Mario Lavagetto ha realizzato. Lavagetto ha da sempre abituato i suoi lettori alla brillantezza dello stile, al rigore della ricerca, alla profondità dell'argomentazione. Ho trovato il suo saggio introduttivo talmente pertinente quando si voglia riflettere sui legami tra Freud e la letteratura e talmente affascinante per psicoanalisti e non, che ne proporrò un’ampia sintesi.
Didier Anzieu ha detto che la formazione scientifica di Freud rappresenta solo il terzo strato di un edificio le cui fondamenta sono costituite in primo luogo dalla formazione spirituale ebraica e in secondo luogo dalla formazione letteraria e filosofica, senza le quali la psicoanalisi non sarebbe nata.
Certo è che lo studio del Freud adolescente e giovane è essenziale per chi non voglia rinchiudersi in una concezione tecnica del pensiero freudiano.
Questo studio dovrebbe occuparsi dell'insieme delle lettere che tra i 15 e i 25 anni Freud scrisse al grande amico e confidente Eduard Silberstein. Di esse oltre 70 sono scritte nello spagnolo scolastico che Freud studiava con l'amico.
È da queste lettere che prende avvio il saggio di M. Lavagetto.
La corrispondenza con E. Silberstein. L'Accademia Spagnola
Quella con Eduard Silberstein è la prima tra le grandi amicizie che costellano la vita di Freud. Le lettere che ci restano coprono un arco di dieci anni e costituiscono una preziosa testimonianza non solo sulla vita, ma anche sulla formazione culturale e intellettuale di Freud. Nel loro insieme sono redatte come i verbali di un'associazione segreta stipulata tra due adolescenti e retta da statuti minuziosi per proteggerla dall’esterno. Si tratta di una società che i due fondatori hanno battezzato Accademia Spagnola, assumendo a loro volta, secondo le regole, nomi fittizi e derivati da una delle Novelle Esemplari di Cervantes, Matrimonio degli inganni e colloquio dei cani: Silberstein è Berganza e Freud è Cipio.
Nel racconto di Cervantes, l’alfiere Campuzano riferisce all’avvocato Peralta il “colloquio” che ha potuto ascoltare durante il suo ricovero nell’Ospedale della Resurrezione a Valladolid e della cui “autenticità” ha dovuto lui stesso capacitarsi: “Dato che non può trattarsi di una mia invenzione, sono stato costretto a convincermi, sia pure contro ogni apparenza e a malincuore, che non ho sognato e che i due cani parlavano”. Distesi su vecchie stuoie, i cani si sono raccontati nel cuore della notte la loro esistenza: per primo ha parlato Berganza e l'alfiere ha trascritto fedelmente le sue parole, riservandosi di redigere anche il resoconto della seconda notte (quando Cipio assumerà il ruolo di narratore), una volta che avrà raggiunto la certezza di essere creduto o, almeno, non disprezzato. Quella certezza, dobbiamo supporre, l’alfiere non riuscì a raggiungerla e ai lettori resta solo il resoconto della prima notte. “La prossima notte — aveva detto Cipio congedandosi— se questo gran dono della favella non ci avrà abbandonato, sarà tutta mia, e ti racconterò la mia vita”.
Le lettere di Freud a Silberstein, così come ci sono pervenute (senza le risposte del suo corrispondente), possono essere considerate, nel giocoso regime dell’Accademia Spagnola, il racconto di quella seconda notte, il racconto che l'erede di Cipio fa della sua esistenza.
Che queste lettere costituiscano agli occhi del giovane Freud una sorta di autobiografia, non è una congettura. Lo dice lui stesso, diciottenne, il 13 agosto 1864: "Dio non ha creato il mondo in un secondo per indicare agli uomini che in ogni opera bisogna mostrare un ordine e una successione [...] è lo stesso ordine che devono mostrare le nostre lettere, non un ordine artificiale e privo di vita, ma quello di un’opera d’arte in cui le singole parti non sono soltanto separate le une dalle altre, ma mostrano uno stretto legame interno".
E qualche mese più tardi, dopo avere proposto a Silberstein di trasformare la loro corrispondenza in uno scrupoloso diario giornaliero, Freud ribadirà: “una lettera è sempre una messa in opera delle cosiddette arti liberali”.
Se queste lettere sono intrise di filosofia e letteratura, in esse la scrittura è già utilizzata e sentita come strumento di ricerca della "verità". Mentre indaga squarci di realtà interna ed esterna, sollecitando altra scrittura, essa ha già a che fare con la verità del mondo che in quel racconto, in quella descrizione, si rivela, secondo un intimo nesso teleologico che li connette.
Queste lettere, che si collocano all'inizio della scrittura freudiana, quando questa è ancora solo strumento di comunicazione privata e non veicolo di verità scientifica, rappresentano l'incipit, lo strato originario di ciò che Ricoeur chiama la "struttura narrativa dell'esperienza analitica".
Le preoccupazioni (o le tentazioni) letterarie di Freud non si limitano al solo epistolario: in quegli anni scrive racconti, poesie, trattati, e li accumula negli “Archivi” dell'Accademia spagnola, probabilmente sottratti alla nostra curiosità dal rogo a cui Freud racconterà a Martha di avere destinato tutte le sue carte “a disperazione dei futuri biografi”. Ci resta qualche frammento, che testimonia una volontà di scrittura molto determinata e sostenuta da un talento tanto forte da sorprendere anche chi abbia riconosciuto da tempo le qualità stilistiche di Freud.
Affiora, in una circostanza, una formula perentoria e citata tra virgolette: il problema, si dice, “è quello di dare artisticamente forma al vissuto” [das Erlebt künstlerisch zu gestalten]. La fonte di Freud, se esiste, non è stata identificata e tuttavia non è difficile riconoscere in queste parole un prodotto di quella sorta di “aristotelismo naturalistico”, che sembra affiorare talvolta nella narrativa di fine secolo: ... das Erlebt è il vécu (la tranche de vie, il vissuto), che negli ultimi trent’anni dell’Ottocento assume quasi il valore di una parola d’ordine. Non ci sarebbe alcuna scorrettezza a riutilizzare quella formula per definire il lavoro compiuto da Freud al momento di redigere e dare forma ai suoi casi clinici, anche se — con ogni probabilità — lo stesso Freud avrebbe respinto — come vedremo — l’avverbio künstlerisch, che gli sarebbe apparso insieme pericoloso (nelle mani di possibili avversari) e fuorviante sul piano teorico.
Simili precauzioni erano del tutto superflue nell’ambito dell’Accademia Spagnola e Freud, studente di medicina, non esita a progettare il proprio passaggio alla facoltà di lettere: e questo avviene quando più forte è su di lui l’influenza di Franz Brentano - “un uomo, uno scienziato e un filosofo meraviglioso” -, di cui segue le lezioni nel semestre invernale del 1874. “È maturata in me la decisione — scrive il 7 marzo 1875 — di sostenere il dottorato in filosofia sulla base di studi filosofici e zoologici”. E un mese dopo, l’11 aprile: “Siamo alle soglie del secondo semestre: una nuova vita per me, in cui sarò prima di tutto filosofo e zoologo, perché seguirò corsi di filosofia, di logica e due di zoologia” ...
Chi conosce l’itinerario biografico di Freud e la sua opera è abituato ai rivolgimenti improvvisi. Una parte dell’estate del 1875 la trascorre in Inghilterra a Manchester, in casa del maggiore dei suoi fratelli, Emmanuel. Al suo ritorno scrive una lunghissima lettera a Silberstein datata 9 settembre:
"...ti dirò francamente che preferirei vivere là che a Vienna, a dispetto della nebbia e della pioggia, degli abusi alcoolici e del conservatorismo [...] Ti confesserò una cosa: oggi ho più di un ideale; ho aggiunto un ideale pratico al mio ideale teorico degli anni precedenti. L’anno scorso alla domanda: qual è il tuo desiderio più grande? avrei risposto: avere un laboratorio e del tempo libero o una nave sull’oceano, provvista di tutti gli strumenti di cui un ricercatore ha bisogno; ora sono incerto e mi chiedo se non dovrei dire piuttosto: un grande ospedale e abbastanza denaro per arginare o bandire da questo mondo qualcuno dei mali che colpiscono il nostro corpo. [...] Un uomo che godesse di alta considerazione e del sostegno della stampa e dei ricchi potrebbe fare miracoli per attenuare le sofferenze fisiche, se ha sufficiente spirito di ricercatore per impegnarsi in nuove strade terapeutiche".
E più avanti, a sancire la completa rivoluzione delle sue prospettive:
"La conoscenza che ho acquisito di opere scientifiche inglesi avrà come conseguenza di tenermi sempre, nei miei studi, dalla parte degli Inglesi che, ai miei occhi, godono di un pregiudizio altamente favorevole: Tyndall, Huxley, Lyell, Darwin, Thomson, Lockyer. Sono più diffidente che mai nei confronti della filosofia..."
Venti giorni dopo, il 1° ottobre, Freud aggiunge un poscritto alla lettera con cui ha inviato a Silberstein il suo Poema nuziale:
"Qui si chiude un periodo di formazione, qui seppellisco la bacchetta magica che ha contribuito alla sua creazione, che qui inizi una nuova era, non immischiata con le forze oscure, un’era che non avrà bisogno né di poesia, né di fantasia".
Si tratta insieme di un esorcismo e di un proponimento: queste parole - “con un misto di dileggio e di tristezza” - ufficializzano la nascita dello “scienziato positivo”, del terapeuta capace di intraprendere nuove strade. Che poi - per annunciare questa nascita — Freud abbia bisogno di ricorrere a una citazione letteraria e di evocare le parole di Prospero all’inizio del quinto atto della Tempesta - “I’ll break my staff...” -, è sintomatico: è il segno di un tramonto provvisorio, reiteratamente celebrato e mai definitivo.
La lettera a Marta. Il suicidio di Weiss
Freud - il 16 settembre 1883, in una lunga lettera a Martha - dissotterra, in modo non certo inconsapevole, la sua bacchetta per raccontare la morte di un amico, Nathan Weiss.
Giovane medico, assistente alla Clinica neurologica, Weiss si è impiccato alle due del pomeriggio del giorno 13 in un bagno della Landstrasse. “Era sposato da appena un mese e tornato da dieci giorni dal viaggio di nozze”. Ha lasciato due lettere, ma il suo gesto resta, per tutti, inspiegabile: nessuno riesce a immaginare che quell’uomo tanto irrequieto e con un così profondo gusto per la vita, sia “morto e muto”. “Anche ora, dopo aver sentito rotolare le zolle di terra sulla sua bara, non riesco ad abituarmi a quella idea”.
Freud si mette a scrivere subito dopo essere rincasato dal funerale. È depresso e profondamente turbato. Racconta a Martha perché ha bisogno di raccontare a sé stesso. Ha bisogno di mettere ordine, di comprendere. Quel suicidio, apparentemente inspiegabile, coinvolge tutti coloro che lo conoscevano e che ora si trovano a dover fare i conti con l'enigma di quel gesto.
Pareva che, sul piano professionale, Weiss avesse conseguito, o fosse sul punto di conseguire, tutto quanto poteva desiderare: era docente, dirigeva un reparto dell'ospedale, aveva una vasta clientela. Per capire - dice Freud - cosa lo ha spinto a darsi la morte, bisogna cercare nel suo matrimonio.
"Non so cosa ti ho raccontato sulla preistoria di questo matrimonio; credo di doverti ripetere tutto quel che so di lui, perché non è morto per caso, piuttosto il suo essere si è compiuto, le sue buone e cattive qualità si sono unite per condurlo alla rovina, la sua vita era come composta da un poeta, e la morte ne fu come la necessaria catastrofe".
Fatta questa premessa, Freud comincia a riferire a Martha “tutto quello che sa” di Weiss: ne nasce uno splendido racconto e un magnifico esempio di cosa significhi "dare artisticamente forma al vissuto", che viene elaborato, con inflessibile rigore e con accorta strumentazione, da chi si era qualche anno prima proposto come "un felice continuatore della poetica di Aristotele".
Il narratore, nelle sue vesti di testimone oculare, enuncia i fatti, formula congetture, cerca accanitamente le impronte della necessità.
Egli recupera e mette in ordine i singoli dettagli evitando scrupolosamente, con talento di ritrattista, di fornirne una lettura univoca. Prende corpo, un pò alla volta, tutto l’organico di una compiuta tragedia borghese che Freud sviluppa con consumata abilità narrativa.
Alla fine, però, Freud si schernisce, cerca di negare ciò che ogni lettore, anche il più malintenzionato, sarebbe pronto a riconoscere, e cioè che la bacchetta magica di Prospero è stata in questa circostanza felicemente, meravigliosamente dissotterrata. Ma quel che importa sottolineare è la poetica implicita di Freud, che — nella sua essenzialità — potrebbe essere stata ricavata da Aristotele: una tragedia è perfetta quando le azioni si susseguono le une alle altre secondo verosimiglianza o necessità, quando la vicenda non procede in modo episodico e discontinuo e i fatti si convengono reciprocamente, disponendosi in un intreccio ordinato, in modo che i singoli casi “nascano dalla struttura stessa del racconto”, poiché è “molto diverso se una cosa accade a causa di un’altra o semplicemente dopo un’altra”.
Già qui, nel 1883, fanno la loro comparsa alcune questioni cruciali.
1) La casualità è rigorosamente esclusa, e nella narrazione e nella vicenda umana: la morte di Nathan è stata la necessaria conclusione della sua vita. Ecco perché, a partire da un certo elemento, sarà possibile ricostruire, procedendo a ritroso, le condizioni che hanno reso possibile quell'elemento. È il ferreo determinismo - la ratio freudiana - che, sul piano narrativo, impone un metodo non dissimile da quello che, a partire dal 1887, Conan Doyle mette a disposizione di Holmes.
2) Nella misura in cui non solo la vita di Nathan, ma ogni vita, è dominata da una legge di determinazione, essa risulta “come composta da un poeta”. Ma allora, in che cosa si differenzia il lavoro dell’analista dal lavoro del poeta? Se la non casualità è insita in ogni vita, sia l’uno che l’altro - lo psicoanalista e il poeta - mirano a metterla in luce.
Tuttavia, già nel 1883 la specificità della letteratura è fortemente sottolineata: Freud la dichiara altra, irriducibile al suo resoconto. La necessaria conclusione: mentre la messa in intreccio è per lo scrittore un traguardo, qualcosa che egli si prefigge e che costruisce, usufruendo di una licenza tanto ampia da consentirgli di sostituire all’interno della sua creazione i legami di necessità con quella di verosimiglianza - o, se si preferisce, di fare della verosimiglianza una necessità fittizia -, lo psicoanalista mira a quella composizione come a un risultato della sua ricerca, un risultato reso obbligatorio dal determinismo assoluto del mondo che egli va esplorando, ma che non corrisponde in se stesso a nessuna intenzione esplicita, a nessun programma pregiudizialmente definito.
La forma narrativa negli Studi sull'isteria
Apriamo ora gli Studi sull'isteria e facciamo attenzione alle modalità con cui i singoli casi clinici vengono presentati. Non è difficile accorgersi che Freud è alla ricerca di una forma, di una tecnica espositiva, e che oscilla tra il desiderio di azzerare la "finzione", rifugiandosi nella forma diario e la disponibilità a farsi invece pienamente carico dell'invenzione narrativa.
Così in Emmy von N. leggiamo: " Forse riuscirò a rendere chiaro lo stato della paziente e il mio procedimento terapeutico riportando le annotazioni prese tutte le sere nelle prime tre settimane di trattamento. Ove un'esperienza successiva mi ha reso possibile una comprensione migliore, sarà evidenziato in note e osservazioni tra parentesi".
Freud si scontra però rapidamente con i limiti della forma diario: egli ha il problema di dover rendere conto e della malattia e del procedimento terapeutico. Inoltre un certo dettaglio, un certo episodio, può diventare comprensibile solo grazie ad una consapevolezza che viene acquisita in un secondo tempo.
Alla fine della terza settimana Freud sembra rendersi conto che la forma non tiene più e la abbandona bruscamente: "Spero che il precedente estratto della cronaca delle prime tre settimane sia sufficiente a dare un quadro chiaro dello stato della paziente, della peculiarità del mio sforzo terapeutico e del suo esito. Ora mi accingo a completare la storia della paziente". Dunque il diario è stato un punto d'appoggio, un ancoraggio, per la rappresentazione della storia, ma questa finisce per restarvi compressa. Il diario non è adeguato ad essa e al racconto che è necessario farne.
In Katharina l'approccio è radicalmente diverso. Freud è in vacanza in montagna e sta contemplando il paesaggio quando la ragazza che lo ha servito in tavola lo apostrofa "Lei è un dottore?". È l'inizio di una conversazione che si svolgerà nello studio di Freud e si concluderà con uno spettacolare successo terapeutico. Freud riferirà di questa terapia "così come si è impressa nella memoria". Questa volta sceglie dunque un procedimento narrativo ben noto e ben collaudato: il medico appare come un personaggio a cui il narratore, che gli sta alle spalle, ha delegato il compito di dipanare il filo del dialogo che avviene tra lui e la ragazza. Ma il narratore fa irruzione in una nota aggiunta nel 1924: "Dopo tanti anni mi azzardo a mettere da parte la discrezione che avevo osservato allora e a rivelare che Katharina non era la nipote, bensì la figlia della locandiera, quindi la ragazza si era ammalata per le tentazioni sessuali che provenivano da suo padre. Un'alterazione come quella che ho compiuto in questo caso dovrebbe essere assolutamente evitata in una storia clinica". Certo: sostituire la figura del padre con quella dello zio modifica in modo radicale il sistema e la dinamica degli affetti, censura quello che un medico non può censurare, salvo trasformarsi in uno di quegli scrittori che vanno incontro ai desideri del pubblico.
Con questa correzione Freud obbedisce dunque all'esigenza della verità e della ricerca scientifica, ma è evidente che la trasparenza del caso clinico è irrimediabilmente compromessa.
Il caso Elisabeth von R.
Si tratta della prima analisi completa di un'isteria, il caso più complesso e la storia più articolata. Per renderne conto le soluzioni utilizzate in precedenza (il diario, la finzione) appaiono inadeguate.
Freud si trova di fronte non ad una singola storia, ma ad una pluralità di storie che si intrecciano le une con le altre e a volte sembrano sovrapporsi. Mentre ricostruisce a ritroso la storia della paziente, appare pienamente consapevole che il percorso non può essere lineare e che, di conseguenza, si porrà il problema di rappresentare un insieme pluristratificato di storie, ognuna nella sua multiforme complessità: la storia della malattia, quella del trattamento, quella della malattia ricostruita dal processo di scavo analitico, la storia, infine, della guarigione.
A conclusione dei quattro casi clinici Freud ricorre ad una lusis, uno scioglimento. Freud avrebbe potuto utilizzare il termine tedesco Lòsung, che corrisponde al greco lusis. Invece questo scioglimento lo chiama Epikrise, "epicrisi": si tratta di un termine medico che indica il risultato conclusivo di una autopsia, quando, al momento di formulare la diagnosi anatomoclinica, si ripercorrono in senso cronologicamente inverso, gli eventi che hanno portato dalla comparsa della malattia alla morte del paziente. La scelta è significativa. Utilizzare quel termine tecnico indica la precisa volontà di rivendicare un protocollo collaudato.
Con Elisabeth Freud ha messo a punto una tecnica che in seguito verrà elevata a metodo: "Arrivai ad un procedimento che in seguito ho eretto a metodo e che si potrebbe paragonare alla tecnica di scavo di una città sepolta": l'archeologia è collocata sotto il patrocinio della scienza.
Di questo lavoro archeologico Freud darà nella primavera del 1896 una descrizione dettagliata e sorprendente, visto che la conferenza si tiene di fronte alla Società di psichiatria e neurologia di Vienna: "Supponiamo che un esploratore giunga in una regione poco nota in cui una zona archeologica, con rovine di mura, frammenti di colonne, lapidi dalle iscrizioni confuse e illeggibili, abbia suscitato il suo interesse. Egli potrà accontentarsi di osservare quanto è possibile vedere, recarsi da coloro che abitano la zona, magari semibarbari, per interrogarli su quanto la tradizione ha tramandato loro circa la storia e il significato di quei resti monumentali, annotarsi le risposte ottenute e ripartire. Egli può tuttavia agire anche in un altro modo; può aver portato con sé zappe, pale e vanghe, può munire di tali strumenti gli abitanti del luogo, rimuovere con loro dalla zona archeologica le rovine ivi giacenti e scoprire, dai resti visibili, altri pezzi sepolti. Se il suo lavoro sarà coronato da successo, i reperti archeologici si spiegheranno da soli; i resti di mura si dimostreranno appartenenti al periplo di un palazzo o di una camera del tesoro; partendo dale rovine delle colonne sarà possibile restaurare un tempio, mentre le numerose iscrizioni scoperte, bilingui nei casi più fortunate, riveleranno un alfabeto e una lingua e, una volta decifrate e tradotte, permetteranno di ricavare un'insperata conoscenza degli avvenimenti del passato, avvenimenti in memoria dei quali quei monumenti erano stati eretti".
È evidente che Freud sta mettendo a confronto due diverse e inconciliabili procedure. L'esploratore che si guarda intorno, raccoglie le notizie e poi riparte, è lo psichiatra che si accontenta dell'anamnesi tradizionale e si limita a fornire una rappresentazione puramente descrittiva dei suoi casi. L'altro, l'esploratore che con lavoro lento e paziente scava alla ricerca dei nessi segreti, che si misura con la difficoltà di decifrare una lingua antica e lotta per svelare gli enigmi, questo è Freud stesso, impegnato nell'esplorazione di quel mondo sommerso e misterioso che le parole delle pazienti isteriche cominciano a far apparire.
Senonché, al momento di aprire l'epicrisi del caso Elisabeth, Freud se ne viene fuori con una dichiarazione che lascia stupiti, e che si riferisce non solo al caso di Elisabeth, ma a tutti i suoi resoconti clinici: "Non sono stato sempre psicoterapeuta, bensì mi sono formato con le diagnosi locali e l'elettroprognosi come altri neuropatologi, e mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano, per così dire, prive dell'impronta severa della scientificità. Devo consolarmi perché la responsabilità di questo risultato si deve attribuire evidentemente più alla natura dell'oggetto che a una mia preferenza; infatti nello studio dell'isteria la diagnostica locale e le reazioni elettriche non hanno valore, mentre una rappresentazione approfondita dei processi psichici, quale di solito si può ricavare dagli scrittori, mi permette di acquisire, con l'impiego di poche formule psicologiche, una sorta di comprensione dello sviluppo dell'isteria. Storie cliniche di questo genere vogliono essere giudicate come psichiatriche, ma hanno un vantaggio rispetto a queste, e cioè l'intimo rapporto tra la storia delle sofferenze e I sintomi della malattia che cerchiamo ancora invano nelle biografie di altre psicosi."
Eccoci dunque al cuore del problema: Freud dichiara che ha finito per sconfinare, suo malgrado, verso la letteratura. Suo malgrado, perché è uno scienziato, e infatti mette avanti le proprie credenziali; ricorda il suo apprendistato con le diagnosi locali e l'elettroprognosi, in modo da potere presentare il suo attuale imbarazzo come una controprova. La correttezza dell’atteggiamento scientifico è dimostrata - non invalidata - dalla rinuncia all’impronta severa della scientificità, perché proprio quella rinuncia testimonia che il ricercatore ha saputo adeguarsi all’oggetto, accantonando le proprie preferenze. Se le sue storie cliniche si leggono come novelle, questo non dipende da una scelta: è una necessità imposta dalla natura stessa dell'oggetto.
Le storie psichiatriche, contrassegnate da una “rigorosa impronta di scientificità”, non colgono la stretta relazione che intercorre tra i sintomi e l’evoluzione complessiva dei quadri clinici, si limitano a una descrizione, forniscono solo un inventario di sintomi asetticamente allineati uno di fianco all’altro. Non c'è storia, non c'è intreccio, solo una minuziosa catalogazione di comportamenti.
Dall'altro lato, ci sono le storie di Freud: storie cliniche che si leggono come novelle e mirano a mettere in luce non solo il sintomo, ma anche la sua genesi, le sue trasformazioni, i suoi rapporti con la storia di vita. Per ottenere questo risultato occorre un modello narrativo simile a quello cui ricorrono gli scrittori.
Si tratta di un punto decisivo. L'intelligenza del caso, infatti, viene fatta dipendere direttamente dalla forma narrativa, è una funzione di quella forma. Il racconto non è solo un espediente per presentare i fatti, e non è nemmeno una scelta tattica e congiunturale: è, viceversa, e a pieno titolo, un insostituibile strumento di conoscenza. Se queste storie cliniche si leggono come novelle questo è anche il loro pregio: serve a dare loro il respiro della vita.
Rappresentare gli eventi reali secondo i canoni della narrazione nasce, secondo Hayden White, dal desiderio di attribuire ad essi “la coerenza, l’integrità, la pienezza, l’organicità di una immagine della vita che è e può essere solo immaginaria.... È forse possibile che il mondo si presenti alla nostra percezione nella forma di una storia ben costruita con un tema portante, un congruo inizio, un mezzo e una fine, e con una coerenza tale che ci permetta di scorgere in ogni inizio la fine che gli è propria?”
La risposta che Freud avrebbe dato a un simile interrogativo non è difficile da ipotizzare: chiedere al mondo di presentarsi nella forma di una “well - made story” gli sarebbe certamente apparso illegittimo; e tuttavia gli sarebbe apparso non meno illegittimo immaginare un resoconto che parlasse di quel mondo e non avesse una forma in qualche modo narrativa, la forma, magari, di una “badly-made story” non conforme a rigorosi principi di coerenza e ai protocolli aristotelici, ma -viceversa - all'ordine in cui si presentano molto spesso “desideri, sogni ad occhi aperti e fantasticherie”. D’altronde, avrebbe aggiunto, la finzione è l’unico modo di rappresentare “una psicologia tridimensionale” proiettandola, al momento della scrittura, su una superficie piana. Non a caso la sua tecnica e la sua strategia di narrazione si modificano negli anni, man mano che la teoria si complica per dare conto di una materia che appare sempre più complicata.
Frammento di un’analisi di isteria
Nel 1901 Freud pubblica il Frammento di un’analisi d’isteria (1901), che è il primo dei grandi casi clinici scritto alla luce della teoria psicoanalitica. Freud procede con molta cautela e scrive nella Premessa: “non ho ancora risolto il problema di come fissare, per esporla in seguito, la storia di un trattamento di lunga durata”. I procedimenti narrativi utilizzati fino a quel momento non sono più sufficienti? Cosa è cambiato?
Intanto, si tratta di un frammento, non di una storia compiuta, poiché Dora ha interrotto il trattamento prima della sua fine. Di conseguenza la storia è rimasta incompleta, frammentaria. Freud ha scrupolosamente rispettato la storia clinica così come si è venuta configurando attraverso le parole della paziente. Ma queste parole sono andate avanti per omissioni e contraffazioni, il discorso si è arenato su punti di resistenza, è stato menzognero, perché questa è la logica del discorso cosciente. Esso si è presentato, dice Freud, "come un fiume non navigabile il cui letto è ora ostruito da rocce, ora diviso da banchi di sabbia e cosparso di secche". Ecco dunque che il resoconto non può essere privo di lacune, ma queste lacune non sono casuali. Sono, viceversa, l'inevitabile conseguenza di un'attrezzatura tecnico-narrativa che non riesce - non riesce ancora - ad adeguarsi alle richieste dell’oggetto da descrivere, a cui non possono più bastare gli strumenti di stampo essenzialmente naturalistico di cui Freud si è servito negli Studi sull’isteria. Freud deve mettere insieme il resoconto del caso partendo da elementi illogici o almeno che appartengono a un’altra logica. Non è solo la spiegazione psicologica tradizionale che crolla: è anche la forma narrativa che si rompe e dev’essere rinnovata.
Nel passaggio dal reale svolgimento delle sedute al resoconto analitico si profilano due possibilità: il “modello” può essere ristampato - un esempio verrà fornito dal Diario dell’uomo dei topi -, o sottoposto a un radicale rifacimento, come accade nei Casi clinici. Allora il narratore, che non coincide affatto con il terapeuta, ma è solo un suo omonimo, si concede ampie libertà: libertà di taglio, di “intrusione”, ma soprattutto di “messa in intreccio”, di affabulazione e di rettifica dell’ordine cronologico.
Il resoconto — scrive Freud nella Premessa al Frammento— non è di una fedeltà assoluta, fonografica, ma gli si può riconoscere un alto grado di attendibilità. “Nulla di sostanziale è stato mutato, se non in alcuni punti il succedersi dei chiarimenti, cosa che ho fatto per migliorare la coesione dell’insieme (Zusammenhang)”.
L’esito più spettacolare della regia di Freud è rappresentato, in questa circostanza, dalla messa in scena, alla fine, di due grandi sogni, due sogni che hanno avuto un ruolo decisivo nel trattamento e che sono intervenuti, il primo, a metà del trattamento, il secondo alla fine. Freud invece li colloca uno dopo l'altro a conclusione del caso clinico, con un intervento narrativo che sostituisce alla cronologia dei "fatti" una cronologia fittizia ma funzionale alle sue intenzioni. Egli vuole mettere in rilievo due punti nodali e ricavarne le chiavi per la soluzione di una serie di enigmi e perciò non esita a costruire il proprio resoconto in base a un protocollo inedito, che riserva alla produzione onirica il valore di una epifania.
Tra la Premessa e il Poscritto trovano posto tre atti: Lo stato clinico, Il primo sogno, Il secondo sogno. Quasi alla fine del primo atto, Freud sembra avere raggiunto una spiegazione soddisfacente: l'amore di Dora per il padre si è trasferito su K., una figura paterna. I conti, in tal modo, tornano perfettamente: tutto si tiene e il caso sembra avere raggiunto una sua conclusione esemplare ed esteticamente ineccepibile. Ma, a questo punto, Freud è costretto ad annunciare un rovesciamento inatteso e radicale: “Devo ora parlare di un’altra complicazione, a cui certo non dedicherei spazio alcuno se, come scrittore, dovessi inventare un simile stato d’animo per una novella, anziché, come medico, sezionarlo. L’elemento al quale ora accennerò non può che offuscare e dissolvere il conflitto bello e poetico che dobbiamo supporre in Dora; esso verrebbe a buon diritto sacrificato dalla censura dello scrittore che, del resto, quando entra nei panni dello psicologo, semplifica e astrae. Ma nella realtà che io mi sforzo qui di descrivere la complicazione dei motivi, l’accumulo e la combinazione degli stati d’animo, in una parola la sovradeterminazione, costituiscono la norma.”
Se fino a questo momento Freud è riuscito a conciliare le esigenze del medico con quelle dello scrittore, ora è costretto a varcare una linea di confine. La psicologia degli scrittori “semplifica e astrae”: può accontentarsi di ricostruzioni parziali e, in ogni caso, non è tenuta in linea di principio a rendere nessun conto alla realtà, perché deve limitarsi al rispetto di regole formali di costruzione. Se egli fosse uno scrittore si fermerebbe là dove è arrivato, sacrificando la verità a un'esigenza estetica.
Non è così per lo scienziato. Egli non può fermarsi, deve andare avanti, sacrificando le attenuazioni, le velature, gli smorzamenti, senza i quali - affermerà in un'altra occasione -, l'elaborazione poetica è impossibile. Sacrificando bellezza e poeticità dei conflitti deve inoltrarsi nell'intricato universo delle sovradeterminazioni. Dietro la figura del padre, dietro la figura di K, si profila una figura femminile e, con essa, l'inclinazione omosessuale di Dora.
Un confine instabile
Alcuni anni dopo, e precisamente la sera del 21 aprile 1909, nel corso di una riunione della Società psicoanalitica di Vienna che si tiene in casa di Freud, egli dice: "Le storie cliniche, se comunicate nella loro integralità, risultano del tutto indigeste. Resta una sola possibilità, una scrupolosa ma "artistica" presentazione come in Dora". Freud ha forse rinunciato a quella demarcazione tra scrittore e scienziato che ha fissato con tanta precisione qualche anno prima?
Possiamo rispondere di no. Ma indubbiamente c'è, nell'uso di questo aggettivo, l'affiorare confuso di una consapevolezza diversa, che si fa strada tra mille incertezze e che non arriverà mai a imporsi completamente: la consapevolezza che è possibile una nuova estetica non più condizionata dalla censura e dalla necessità di velare e nascondere, per non spingere i conflitti oltre un limite di sicurezza.
Freud non compirà mai questo passo decisivo e il suo rapporto con la letteratura seguirà sempre un percorso incerto: ora le distanze risulteranno nette e accentuate, ora sembreranno assottigliarsi fino a sparire.
Così è ne Il delirio e i sogni nella Gradiva di Jensen, dove Freud analizza una novella, Gradiva, appunto, per far emergere i fantasmi e i deliri del suo protagonista. Egli sottopone il testo a un vero e proprio lavoro di riscrittura, passando alle spalle dei personaggi e trattandoli - loro e il loro sintomi - come se fossero personaggi in carne ed ossa, come se quei sintomi fossero reali, come se la Gradiva fosse "non una fantasia bensì uno studio psichiatrico".
A un certo punto, smentendo che ci debba essere una divisione di competenze tra lo scrittore e il medico, giunge ad affermare: "In verità nessun vero poeta ha mai rispettato questa regola. Infatti la descrizione della vita interiore dell'uomo è il suo campo di competenza più proprio; il poeta è sempre stato il precursore della scienza e quindi anche della psicologia scientifica". La divisione delle parti e dei territori di competenza, che con tanta decisione era stata tracciata nel caso di Dora, sembra ora essere abolito. Di fronte al poeta non c'è più una zona proibita e impraticabile; anzi, se è un vero poeta, ha l'obbligo di avventurarsi là dove, con diversa strumentazione, si avventurerà anche la scienza.
Naturalmente una scienza tutta particolare come quella psicoanalitica: "Fra le premesse di ordine ereditario costituzionale e le produzioni del delirio che sembrano emergere ben finite la scienza lascia sussistere un vuoto, che troviamo invece riempito dallo scrittore ... dobbiamo allora dire che lo scrittore si trova solo contro la scienza intera? No, questo no, almeno se è lecito all'autore considerare anche i propri lavori come qualcosa che appartiene alla scienza".
Lo scrittore lavora dunque sullo stesso terreno di una scienza che è di natura particolare e che non può confondersi con la scienza ufficiale. La scienza ufficiale non ha ancora intuito il significato della rimozione, non riconosce ancora che volendo spiegare il mondo dei fenomeni psicopatologici è assolutamente indispensabile ricorrere all’inconscio, non cerca la radice del delirio in un conflitto psichico, non afferra la logica dei sintomi.
Freud sembra riprendere il discorso là dove l’aveva interrotto aprendo l’epicrisi del caso Elisabeth von R. La scienza di cui Freud parla in questa circostanza, non è la scienza nel suo complesso: è la psichiatria, che si limita a pure e semplici descrizioni dei quadri clinici e che - ignorando la rimozione e l’inconscio - non può interpretare i sintomi né può ricostruirne la storia e non può quindi che restare, quasi programmaticamente, al di qua di ogni possibile spiegazione. Agli occhi di Freud gli psichiatri si comportano come chi, di fronte a fenomeni inesplicabili, è disposto a prenderne atto, ma non a cercare di capirne le ragioni e le modalità. Nei loro confronti l’atteggiamento di Freud è apertamente provocatorio, quasi sarcastico: con una decisione spavalda colloca sé stesso, e la sua scienza, dalla parte della letteratura, limitandosi a sottolineare che esiste una differenza sul piano delle formulazioni tecniche: ma Jensen “ha visto tutto e ha raccontato tutto”.
Ha raccontato. Ha spiegato. Ha intuito la rimozione. Ha lasciato all’inconscio la sua parte. Freud non può fare diversamente: ogni altra scelta - ogni abbandono del piano narrativo a favore del piano descrittivo - risulterebbe fallimentare tanto per la teoria, quanto - e peggio ancora - per la terapia. Il racconto, in quanto strumento di conoscenza, può essere anche mezzo di guarigione.
L’uomo dei topi
Nell'ottobre del 1907 Freud inizia l'analisi di un giovane uomo che soffre fin dall'infanzia di rappresentazioni ossessive e che passerà alla storia come "l'uomo dei topi". Caso emblematico, nel quale ancora una volta Freud si scontra con la difficoltà di tradurre in scrittura, intrecciando insieme la storia della malattia e la storia del trattamento.
Per tre mesi e mezzo Freud tiene un diario delle sedute, affidandosi dunque ancora una volta alla forma della registrazione seduta per seduta. Poi lascia perdere. Presenta oralmente il caso nel 1908, prima nel corso di due riunioni della Società psicoanalitica viennese, poi a Salisburgo, in occasione del primo congresso internazionale di psicoanalisi, davanti a un pubblico che lo ascolta affascinato per cinque ore. Poi, per più di un anno, l'Uomo dei topi scompare. Riappare nel 1909, quando Freud scrive a Jung: “mi è venuta improvvisamente voglia di utilizzare l'uomo di Salisburgo, quello dei topi […] Non sarà molto lungo, perché dandolo alle stampe dovrò essere molto più discreto che nella mia relazione. Ma è un caso che permette di chiarire pienamente alcuni punti […] della situazione intricatissima di una nevrosi ossessiva"
Venti giorni dopo Freud scrive nuovamente a Jung: la scrittura del caso gli procura molte difficoltà: "è quasi superiore alla mia arte della rappresentazione e risulterà inaccessibile a tutti, salvo a coloro che mi sono più vicini. Che lavori abborracciati sono le nostre riproduzioni, come smembriamo miserabilmente le grandi opere d'arte della natura psichica! Purtroppo il lavoro diventa ancora una volta così esteso, trabocca sotto le mani e tutto è ancora troppo conciso, falso per mancanza di completezza. È un vero peccato!"
Dunque non è in causa la fallacia e l'incompletezza della scienza, e in effetti Freud riuscirà a sbrogliare l'intricatissima matassa della nevrosi ossessiva e a scioglierne gli enigmi. Ciò che è in questione è la sua arte della rappresentazione: c'è una bellezza del caso che dovrebbe essere resa da chi scrive, ma chi scrive si trova di fronte un materiale che sfida le sue possibilità espressive...
Nel 1912, quando formula i "consigli" per il trattamento, Freud dirà che "i verbali circostanziati di una storia clinica" non hanno in verità grande importanza. Apparentemente essi sono forniti di quella precisione di cui la psichiatria offre esempi clamorosi, ma disorientano il lettore e non sono in grado di farlo veramente entrare nella scena del trattamento. Meglio affidarsi a qualcosa di diverso, e proporre al lettore un resoconto derivato dall'elaborazione dell'analista, dal suo lavoro preliminare sul materiale.
Confrontando pazientemente il diario tenuto da Freud con la ricostruzione del caso nel testo scritto, diventa evidente che il diario è solo una specie di materiale grezzo, un ipotesto da cui deriva il caso clinico nella sua versione definitiva. Freud scrittore compie un lavoro acrobatico, monta, incastra, omette, sposta o condensa i materiali emersi nel corso dell'analisi e poi registrati la sera. Se all'inizio del caso clinico Freud sembra intenzionato a mantenersi fedele al diario, ben presto rinuncia e con decisione sostituisce alla narrazione lineare una narrazione tematica. Una narrazione che utilizza i punti nodali rivelati dall'analisi, in particolare la storia dei topi, come punti nodali anche della narrazione. Il punto nodale psichico, verso cui convergono i fili della nevrosi ossessiva, diventa nella narrazione un punto catalizzatore, attraverso il quale passano tutti i cerchi rappresentativi.
Ce n'è abbastanza perché Mahony possa accusare Freud di avere alterato la realtà sostituendole "una costruzione fittizia a vantaggio del lettore" col solo intento di mettere insieme una storia migliore.
Possiamo condividere o meno l'indignazione di Mahony. Ma una cosa è certa: ci troviamo di fronte ad una decisione narrativa. Freud, mentre scrive, da un lato tiene conto della realtà del materiale clinico, dall'altro tiene conto dei suoi lettori.
E tuttavia, nonostante lo sforzo profuso e gli stratagemmi narrativi utilizzati, egli resta convinto di non riuscire a offrire una visione adeguata, una visione che passi dall'interno. Nessuna scrittura si mostra capace di restituire la "singolare bellezza del caso”: questa bellezza si dissolve quando si cerca di trasferirla sulla carta.
L'uomo dei lupi
La scelta narrativa trova la sua massima espressione nel caso clinico dell'Uomo dei lupi, la più complessa delle storie cliniche di Freud, ma anche la più affascinante e la più spettacolare.
In questo caso Freud ricostruisce, a partire dalla malattia che si è manifestata nell'età adulta, la nevrosi infantile che della malattia adulta rappresenta la premessa e la causa necessaria. In questa ricostruzione un sogno fatto dal paziente all'età di quattro anni, il sogno dei lupi, si è rivelato l'elemento cruciale. Ora, per fare questa ricostruzione, Freud è stato costretto a servirsi di "frammenti ancora più piccoli di quelli che di solito si hanno a disposizione per eseguire la sintesi". Al momento poi di redigere il caso clinico, cioè di esporre questa sintesi, si è scontrato con un ostacolo insuperabile: "Questo lavoro […] trova un limite naturale quando si tratta di fissare nell'ambito descrittivo una struttura pluridimensionale". Come può una struttura, che si è venuta costituendo progressivamente e che appare articolata e pluridimensionale, essere trasferita su un piano descrittivo necessariamente bidimensionale?
Ci vorrebbe una nuova prospettiva in grado di comprimere all'interno di un resoconto necessariamente lineare l'intera rete delle connessioni, delle sincronie, delle sovradeterminazioni che coinvolgono ogni singolo elemento dell'analisi. Una prospettiva inedita, che sappia rendere conto di una materia stratificata, disomogenea, ribelle ad ogni tentativo di ordinarla e organizzarla secondo i consueti strumenti dell'arte della rappresentazione.
Quel filo del racconto basato sulla consequenzialità, sulla verosimiglianza e la coerenza, quell'equilibrio che per secoli dopo Aristotele ha sostenuto gli scrittori e li ha guidati nel labirinto, ora sembra perduto, e comunque non può sostenere Freud alle prese con l'impossibile compito di organizzare una strategia narrativa nuova, di inventarsi - alla lettera - una “scrittura”.
La frattura è decisiva. Se coinvolge Freud è perché si è avventurato in territori inesplorati e si è dovuto dotare di mezzi che la scienza a cui apparteneva non gli forniva. Se coinvolge gli scrittori è perché agli inizi del ‘900 il mondo intero scricchiola, e scricchiolano anche modelli narrativi che, nel giro di poco tempo, andranno in frantumi. Quale poi sia la parte che in questa frantumazione dei modelli narrativi tradizionali la psicoanalisi ha giocato sarebbe argomento di un'interessante discussione.
Al tempo degli Studi sull'isteria abbiamo visto Freud pienamente fiducioso della forma racconto, così come l'aveva ereditata dalla tradizione letteraria. Poi, man mano che la teoria psicoanalitica si evolveva e i grovigli psichici apparivano sempre più fitti e intricati, abbiamo visto venire alla luce i limiti di quella forma e l'impossibilità di scandire la narrazione lungo una linea puramente cronologica. Freud allora è stato obbligato a intervenire con un repertorio formale, con soluzioni e attrezzature che sempre più si discostavano dal dispositivo aristotelico. In qualche modo veniva scavalcato dalla necessità di misurarsi con un materiale refrattario a farsi ordinare dentro quel collaudato contenitore aristotelico che fino a quel momento aveva regolato la tradizione letteraria.
Due le conclusioni che possiamo a questo punto enunciare :
1) La psicoanalisi freudiana è figlia della rivoluzione estetica novecentesca e non è pensabile al di fuori di essa
2) La psicoanalisi, quando deve rendere conto del materiale clinico, cioè di qualcosa che è forgiato dalla presenza dell'inconscio, deve inventare una forma narrativa inedita: la scrittura è plasmata dal suo oggetto.
Quando Freud scrive le sue storie deve fare i conti con un mondo che resiste ad ogni tentativo di ridurlo ad una storia ben raccontata, nella quale tutto si regge e in cui è possibile scorgere fin dall'inizio i lineamenti della necessaria risoluzione. In questo mondo, al contrario, non esistono oggetti ed episodi privilegiati. Esistono piuttosto punti nodali, e questi punti nodali possono essere … una traccia irrisoria, un sogno, una fantasia. In questo mondo nulla può essere trascurato, ogni dettaglio è un indizio, ma un indizio ambiguo, sfuggente, soggetto per sua stessa natura a una molteplicità di interpretazioni.
Freud vorrebbe scrivere in conformità col modello aristotelico, col modello dell'Edipo re, dove "l'azione della tragedia non consiste in altro che nella rivelazione gradualmente approfondita e ritardata ad arte, paragonabile al lavoro di una psicoanalisi, che Edipo stesso è l'assassino di Laio, ma anche il figlio dell'assassinato e di Giocasta". Ma la materia che maneggia non glielo permette, a volte egli si trova davanti la propria opera come qualcosa di "indipendente, perfino di estraneo". "Spesso c'è nella materia stessa qualcosa che ci comanda e ci distoglie dai nostri primi intenti. Perfino un'operazione così modesta come disporre secondo un certo ordine un materiale ben noto non è interamente soggetta all'arbitrio dell'autore; riesce come vuole e solo introspettivamente ci si può chiedere perché le cose siano andate così e non altrimenti"
Se la letteratura e la psicoanalisi hanno in comune lo stesso terreno di lavoro, se la psicoanalisi, come la letteratura venuta dopo la rivoluzione estetica del primo ‘900, è figlia della dissoluzione irreversibile di un mondo e da questa dissoluzione irreversibilmente segnata, entrambe hanno a che fare con l’enigma e la condizione scandalosa di non sapere che l’inconscio produce. Ciascuna a modo suo, con le sue forme e seguendo le sue vie, ci tiene avvinti a quei fantasmi, a quei percorsi strani del desiderio che regolano le nostre vite e di cui mai potremo essere padroni.